Ivo Germano
La cultura costa poco e rende molto. Ad essere più circostanziati fa
mangiare anche in maniera condita. È questa la tesi di un bel pamphlet di Bruno Arpaia e Pietro Greco,
La cultura si mangia (Guanda, pp. 176,
euro 12,00), che con piglio critico mette in questione diverse questioni a
proposito della relazione irrisolta fra un paese, negli ultimi anni, aduso a
rozzezza e volgarità e la necessità di considerare la cultura, come asset strategico dello sviluppo e della
promozione umana e civile. Antitetico al notorio slogan del Kulturkampf di Giulio Tremonti sui
libri, più estesamente, la cultura che non sfama, in un contesto di terrificante
de-industrializzazione, il libro profila un nonsocché di ottimismo
“rooseveltiano” nel partire dalla cultura. Quel che, in maniera non
apologetica, fanno le piste ciclabili a Berlino, i distretti digitali di
Mumbay, il connubio fra impresa e ambiente nella Ruhr, i think tank di Obama, cioè rendere plasticamente l'idea creativa e
solida degli investimenti culturali. Dati, evidenze, studi non mancano nelle pagine
del saggio in questione.
Al solo sfogliarlo, dopo l'iniziale sconforto a ripensare alle millantate occasioni in cui interlocutori dalla sintassi incerta che grondavano la non
conoscenza nemmeno delle pagine gialle si applicavano alla parola cultura,
torna in mente che la cultura non è solo il nostro petrolio, ma la chanche vera per ricominciare sul serio. Meglio
rifare tante cose. Politicamente ed economicamente, fasi diverse per poter
stare nei processi culturali contemporanei. E finalmente non più fuori. Più che sfida,
novità.
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