Gennaro Malgieri
Sono davanti all’edificio numero 13
della discesa Andriyvska, nel cuore di Kiev. La casa che ha attirato
la mia attenzione è degli inizi del Novecento. Ha una
struttura vagamente liberty. Elegante e sobria allo stesso tempo, ma
grande abbastanza rispetto agli standard medi del suggestivo
quartiere. Dislocata su due piani, l’ingresso è costituito da una
piccola rientranza sulla quale si affaccia un balcone in ferro battuto.
Mi domando quanti pensieri, progetti, emozioni, passioni hanno affollato
le stanze di quest’abitazione così poco pretenziosa eppure
affascinante all’ombra della chiesa di Sant’Andrea, sormontata dalle
cupole azzurre (una rarità da queste parti), edificata tra il 1749 e
il 1755 dall’ingegnere moscovita Miciurin su progetto del grande e
geniale architetto italiano Rastrelli, l’ideatore di San
Pietroburgo nello stesso periodo e a Kiev della residenza degli zar.
Già, cosa è passato in questa casa che custodisce ora ombre care che
hanno accompagnato, tra le altre, la mia formazione spirituale e
letteraria nell’intensa adolescenza? Vi si è aggirata l’anima
tormentata di Mikhail Bulgakov, parte della cui breve
vita (1891-1940), proprio qui, sulle rive del Dniepr, dal 1906 al
1919, ha «fermentato» riversando anni dopo gli umori della
disciplina maturata a Kiev nel Maestro
e Margherita e nella Guardia
Bianca.
Ho l’impressione di trovarmi nel cuore
dell’Europa scendendo l’Andriyvska anche se so benissimo che sono
nel profondo dell’Europa estremo-orientale. Eppure ciò che mi assale
non sono soltanto suggestioni, ma riflessioni sulla immensa
dimenticata eredità europea che soltanto ormai in luoghi lontani e
riposti si rinviene come consegnataci dalla memoria storica o da
libri letti tanto tempo fa, prima che l’omologazione culturale e
comportamentale distruggesse giacimenti spirituali che disperiamo
ormai di raccattare.
Kiev è uno di questi giacimenti. E non
soltanto perché la «russità» è nata qui e quasi nessuno a Ovest lo
ricorda; perché tra queste pianure attraversate da grandi fiumi è
fiorita la cristianizzazione di una considerevole parte di mondo
estesa fino alle radici lontane dell’Europa, laddove l’Asia si tocca
e un nuovo universo prende forma, agli estremi limiti della Siberia,
quasi lambendo le Isole Kurili. Non sapevano Cirillo e Metodio,
santi esploratori dell’anima e avanguardie dell’evangelizzazione, che
in questi luoghi la memoria della loro opera sarebbe stata rinnovata
da centinaia di chiese dalle cupole dorate, da un numero imprecisato di
silenziosi monasteri nei cui cortili giungono le nenie ortodosse di
salmi che arrivano a situarsi nel petto dell’ascoltatore occasionale
proiettato davanti alle iconostasi e alle immagini dorate e sublimi
della cristianità trionfante, della Bellezza pura come il cielo
ucraino quando il vento lo sgombra dalle nuvole per specchiarsi sui
campanili dei templi che nessun barbaro, neppure quello sovietico, ha mai
pensato di abbattere fermandosi di fronte al mistero della sacralità di
luoghi dove le ideologie si infrangono e le ambiziosi abiette delle
volontà di potenza diventano ceneri che la fredda tramontana si porta
via annegandole nelle acque del Dniepr.
La chiesa Andreevskaya è forse il
simbolo, seppur meno sontuoso, certamente più eloquente di questa
Europa profonda che nelle nostre latitudini è sbiadita come
alberi nella nebbia. Il luogo dove venne edificata non fu scelto a
caso. Le cronache ortodosse raccontano che su questa
collina l’apostolo Andrea pronunciò le profetiche parole: «Li vedete
questi monti? Su questi monti risplenderà la Grazia di Dio. Ci sarà
una città grande, e Dio ci erigerà tante chiese». La leggenda
aggiunge che Andrea su quell’altura pose una croce di legno. E mille
anni dopo lì venne edificata una modesta cappella di legno chiamata
Andreeevskaya, custodita da un annesso modesto convento di suore. Poi
venne il tempo del tempio barocco che esalta la missione di Andrea
messaggero di Dio nella terra allora di nessuno. E Kiev divenne il
centro della spiritualità e della cultura che ancora oggi incanta il
viaggiatore occidentale per quanto è ordinata, luminosa,
elegante, dignitosa in ogni suo quartiere, perfino in quelli più
periferici.
Lasciando la Cresciatyc, arteria
principale della città, dominata da palazzi imponenti e da edifici
pubblici, dopo che ci si è inerpicati lungo via Volodymyrska,
si apre, sontuoso, lo spettacolo di Santa Sofia, uno dei massimi
monumenti religiosi del mondo: è addirittura commovente. Costruito
durante il regno del principe Yaroslav il Saggio tra il 1017 e il 1037,
il complesso riassume lo spirito slavo contaminato dal cristianesimo
e da questi soggiogato. Resta il mistero della bellezza che dei
barbari, evidentemente ispirati, riuscirono nel corso dei secoli,
grazie a continui rifacimenti, a trasferire in strutture talmente sacrali
da avvertire oggi visitandole una sorta di estraneazione che
porta fuori dal tempo, che immiserisce pensieri e parole di fronte
alla musica del silenzio, un’armonia sublime che si ascolta soltanto
con il cuore. E il mormorio dei religiosi accompagna l’estasi
di fronte al «Muro Indistruttibile» nel cui centro domina la Santa
Madre di Dio, raffigurata in un mosaico dell’XI secolo, che protegge
Kiev.
Ecco, una città antica, complessa,
orientale e occidentale allo stesso tempo, che da oltre mille anni è
sotto il manto della Vergine. E non lo nasconde. Lo esibisce anzi
nel suo monumento più celebre. La spiritualità d’Oriente ne esce
integra come le cupole mai lasciate in abbandono, neppure quando i “senzadio”
irruppero nella capitale di una «nazione» (perché tale l’Ucraina si è
sempre considerata) la cui vocazione umana era quella di sfamare
il mondo circostante e riempire l’anima dell’ammirato splendore della
fede. Fu per questo, forse, che un delinquente georgiano, già prete,
buttata alle ortiche la tonaca, contro questa terra fertile
spiritualmente e fruttuosa lanciò quella bestemmia che nessuno
ricorda, che non si vuole ricordare: l’Holodomor,
la “carestia programmata”, il progetto che affamò milioni di esseri
umani molti dei quali sopravvissero grazie alla fede e a
poche patate. Anche questo oggi è l’Ucraina, l’Estrema Europa dove la
resurrezione civile non è stata vissuta come un miracolo, dopo la
dominazione sovietica, ma piuttosto come la naturale
prosecuzione della profezia di Andrea il Santo che lì si fermò
illuminando le tribù che vagavano sulle rive del Dniepr. Quando
m’inoltro nei sacrari di Kiev, in particolare nella Lavra di
Kyevo-Pecersk, uno dei più sublimi monasteri che ho visitato alla ricerca
delle mie radici e talvolta della mia anima smarrita, non posso fare
a meno di pensare che tra queste colline si snoda una continua e forse
impercettibile per i residenti festa spirituale, tanto l’atmosfera è
densa di suggestioni che rimandano a una certa immagine dell’Europa
ormai difficilmente rinvenibile altrove. Direi come Ernest
Hemingway di Parigi, «la festa è sempre con te». A Kiev c’è questa
levità gaia che contrasta con la cupezza di un Occidente che ha
smarrito se stesso.
Eppure in questo luogo colorato
l’incontro tra Oriente e Occidente è quanto mai percepibile. Saranno
le geometrie urbane, gli arredi di una città senza tempo, le
commistioni tra antico e moderno che s’inseguono, le contaminazioni
della memoria con l’effervescenza del presente, gli occhi profondi
delle ragazze ucraine che affollano la Cresciatyc e il vento
che scompiglia i loro capelli, ma è sorprendente come a Kiev,
nell’Estrema Europa, i suoni della mia Europa li avverta molto di più
che nelle metropoli senz’anima dove vago disincantato cercando nell’Estremo Occidente
i segni di una vitalità che ormai dispero di trovare. La musica sacra
di Arvo Part talvolta mi accompagna nella ricerca. Non poteva essere
altrimenti. Anche lui viene dall’Estrema Europa d’Oriente, dove lo spirito
si è acceso nel dolore.
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