Alberto Pezzini
Era rimasto
sconosciuto. Un testo inedito, venuto alla luce dagli archivi Lilly dell’Indiana
University grazie a un impercettibile indizio bibliografico. Era capitato che
nel 1942 il possente Orson Welles – messo alla porta dalla RKO – fosse tornato
a lavorare per la radio. Dietro di sé aveva alcuni insuccessi commerciali del
tipo degli The Magnificent Ambersons (“L’orgoglio
degli Amberson”) e l’incompiuto It’s All
True, girato in Brasile nell’ambito di un programma statunitense
nell’America Latina coordinato da Nelson Rockfeller. Welles era alla disperata
ricerca di un nuovo soggetto su cui poter lavorare. Quando gli capitò di
leggere il testo di Antoine de Saint-Exupéry, rimase folgorato. Il libro, Il Piccolo Principe, era uscito per la
prima volta in duplice edizione (inglese e francese) presso l’editore canadese
Reynal & Hitchcock nell’aprile 1943, settant’anni fa, una settimana prima
che il suo autore si imbarcasse per Algeri. Quando arrivò nelle mani di Welles,
non ci dormì proprio. Convocò alle quattro di notte, a casa sua, il socio
Jackson Leighter e gli lesse il libro da capo a fondo. La mattina dopo,
Leighter riuscì a fermare i diritti cinematografici per due mesi. Nel frattempo
Welles si mise subito in contatto con Walt Disney. All’epoca – il grande Walt –
era l’unico uomo capace di mettere in movimento un libro, ossia aveva la
capacità di dare movimento alle storie grazie ai suoi disegni. Quando si
incontrarono negli studi della Disney il loro colloquio durerà mezz’ora. Disney
– a un certo punto – si sarebbe alzato ed avrebbe esclamato:” Jack, in questo
studio non c’è abbastanza spazio per due geni!”. La loro collaborazione terminò
subito, prima ancora di cominciare. Tutta questa storia è raccontata nel libro Il Piccolo Principe. Sceneggiatura e
adattamento originale di Orson Welles, postfazione di Enrico Ghezzi,
traduzione di Fabrizio Ascari, riedito da Bompiani.
Welles aveva infatti
già scritto la sua sceneggiatura adattando la fiaba che avrebbe venduto milioni
copie. Senza la collaborazione di Disney, Welles preferì rinunciare al Piccolo Principe. Cedette i diritti ad
altri in cambio di un magro profitto. Welles sarebbe tornato alla regia
soltanto nel 1945 con The Stanger (“Lo
straniero”). Il cinema di Welles era magico. Fu uno dei pochi registi ad
attirare – anche con trucchi da mago – gli occhi dello spettatore che riusciva
ad incollare allo schermo. Il suo cinema si sarebbe svelato durante la seconda
guerra mondiale, anzi come dice Enrico Ghezzi nella postfazione,”mentre la
Seconda Guerra diventa mondiale”. Lui era decollato in realtà con la radio.
Celebre il suo scherzo – capace però di mettere in luce le sue qualità di magician – del 30 ottobre 1938 con i
marziani di The War of the Worlds.
Scherzo tanto incredibile se si pensa oltretutto che fino al giorno prima
Welles ed i suoi amici del Mercury Theatre avrebbero preferito fare un’altra
cosa. Ma dalla radio Welles aveva ereditato una capacità molto singolare nel
fare anche il cinema. Per lui la cosa più importante – che segna il suo stile –
è la soggettiva, una specie di occhio molto sensibile e quasi prevaricante.
Anche nella sceneggiatura del Piccolo
Principe – benché sopraffatto dalla bellezza del testo – Welles infila sé
stesso nella trama del suo adattamento in maniera totalizzante. Ci sono
tantissime zone in cui il regista diviene non soltanto un narratore puro, ma
una specie di alter ego che forse aveva fatto infuriare Disney. Le indicazioni
di regie sono molto numerose, anzi a volte diventano addirittura quasi
sovrabbondanti. Il che – dentro una sceneggiatura – sarebbe normale ma non per
Welles. Lui è troppo soggettivo. È un mago dotato di un occhio mobile pulsante
che non si fa addomesticare. Lo stesso sarebbe accaduto con Heart of Darkness in cui la prima
inquadratura “è la bocca dello stesso Welles narratore che ordina allo
spettatore di cantare, poi lo conduce fin quasi a morire sulla sedia elettrica,
lo rassicura beffardo (“non state per vedere questo film;vi accadrà”), infine
mostra la macchina da presa stagliarsi nel nero e dichiara:”siete voi. La
cinepresa siete voi, il vostro occhio”. È lo stesso intento che tornerà dentro
una sceneggiatura così secca, appena schizzata come quella del Piccolo Principe. Welles sarebbe stato
un regista forse troppo egoista per girare una soggettiva della fiaba più bella
del mondo. L’avrebbe sacrificata alla propria voracità. Era l’occasione che
aspettava da una vita in cui la sua capacità di fare il regista e l’attore di
sé stesso avrebbe trionfato in modo lussureggiante. La voce, il narratore,
avrebbero forse preso un sopravvento terribile dentro una storia così lieve come
era la personalità di Saint-Ex.
Lui era un uomo
destinato al mare, Saint-Ex, dove in fondo tornerà in un volo di notte che fino
ad oggi non possiamo pensare sia stato davvero spiegato. Welles invece morirà a settant’anni, poche
ore dopo aver dato l’ennesima dimostrazione in tv delle sue qualità e ambizioni
di “magician” dove la sua frase di rito era sempre “A me gli occhi!”. Saint-Ex
preferiva anche lui i maghi quasi a sé stesso ma forse non avrebbe tollerato
una riduzione in “soggettiva” come quella di Welles. Sarebbe stata un
adattamento troppo intimo. Avrebbe rischiato di farne un film dove gli spunti
di una vita rischiavano di franare dentro i trucchi di un regista bravissimo
nel catturare gli occhi. Welles avrebbe fatto male al Piccolo Principe, lo avrebbe soggettivizzato fin quasi forse a
ucciderlo. Meglio così, dunque, un film in meno ma una fiaba in più.
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