Giovanni
Tarantino
Questo
2013 sarebbe stato l’anno del settantesimo anniversario, della sua nascita. E
se non avesse avuto quella vita breve e “spericolata”, oggi forse sarebbe un
magnifico settantenne. Parliamo di Gigi Meroni, il “ribelle del calcio”, nato
appunto nel 1943, e al quale sono stati dedicati vari saggi e libri, anche se
noi in questo caso ne segnaliamo una originale versione a tutta a fumetti: Gigi Meroni. Il ribelle granata. Un
capolavoro di «letteratura disegnata», per dirla alla Hugo Pratt, di rara
bellezza e intensità, pubblicato da Beccogiallo (pp. 144, euro 18,00). Lo hanno
realizzato in due: Marco Peroni, studioso degli intrecci tra storia e canzone,
nonché componente del trio “Le voci del tempo” – formato anche da Mario Congiu
e Mao – e Riccardo Cecchetti, disegnatore dal tratto eccellente, già
collaboratore di Frigidaire, la
rivista di fumetti fondata da Vincenzo Sparagna, Stefano Tamburini e Filippo
Scozzari.
«L’esperienza
di Gigi Meroni dimostra che il potere, anche nel calcio, accetta più facilmente
la disobbedienza verso le leggi che la disobbedienza verso la cultura dominante»:
è la brillante conclusione a cui era giunto nel ’95 Nando Dalla Chiesa, a
margine della pubblicazione del suo La
farfalla granata (Limina) in cui venivano narrate proprio le gesta di
Meroni. A 360 gradi, raccontando il calciatore e l’uomo, l’artista e l’amante,
tutti elementi inscindibili che hanno consegnato al mito la stessa persona, lo
stesso ragazzo. Non a caso quel lavoro «respira su» Gigi Meroni. Il ribelle granata, come ammesso dallo stesso Peroni.
Chi
era Gigi Meroni, lo sanno tutti o quasi, almeno i nati negli anni Cinquanta e Sessanta: ala del Torino e della nazionale anni
Sessanta, giovane talento in precedenza
di Como e Genoa, scomparso nel 1967 a soli ventiquattro anni. «Con il suo
dribbling ostinato – si legge nella quarta di copertina –e le sue finte, la
chioma scomposta e i vestiti sgargianti, la gallina portata al guinzaglio e la
sua sensibilità catapultata nel tempio conformista del pallone, Meroni ha
innescato una miscela purissima di ribellione e candore, diventando uno dei
simboli più amati di una generazione alla ricerca di nuovi slanci e libertà».
Un’icona, sicuramente. Un rivoluzionario? Tutt’altro: solamente un ragazzo che
voleva essere sé stesso. Colpisce subito l’impostazione data nel libro da
Peroni e Cecchetti: viene omessa volontariamente la parte più raccontata e data
in pasto alle cronache del tempo e non solo, quella della morte e della
tragedia.
Il
percorso di vita è narrato al contrario, all’incedere della volontà del ragazzo
Gigi, non ancora uomo, che dice: «Non vedo l’ora di diventare bambino». Il
lettore viene rapito dai disegni di Cecchetti, dai testi di Peroni, e si
incammina lungo un sentiero a ritroso che congiunge il 15 ottobre 1967, data
della morte, al 24 febbraio 1943, data della nascita. Si parte dal The end: una
trovata geniale. In mezzo c’è la vita del ribelle granata, sempre più ribelle,
libero e libertario man mano che diventa bambino. Nasce già con 24 anni,
nell’Italia pre-sessantottina: un clima che viene reso benissimo nel testo. «Il
“miracolo” economico – viene spiegato – aveva seminato libertà e comportamenti
nuovi. Il rock’n roll era atterrato
nelle radio, il cielo era sbucato nelle stanze, e le case scricchiolavano. E
così le scuole, le famiglie, le canzoni. Ragazzi ovunque, non più soltanto
adulti acerbi ma per l’appunto questo: ragazzi. Con vestiti, musica e pensieri
tutti loro».
Tra
questi ragazzi – una categoria prima di allora mai presa in considerazione in
quanto tale da parte del resto della società – anche il giovane Gigi. Dei
giovani, successivamente, si comincerà a parlare sempre di più, fino a
estremizzare conclusioni, a stereotiparne atteggiamenti al punto tale da
suscitare l’ilarità di un regista come Nanni Moretti (celebre il suo sfottò
«Noiggiovani…»), che si mostrerà attento al fenomeno. Quei giovani del 1967 non
sono ancora ideologizzati, né in preda al furore politico che imperverserà di
lì a breve. Meroni non avrà il tempo per essere risucchiato dal vortice
dell’«io tutto/ io niente io buffone…/ io anarchico/ io fascista…», che sarebbe
stato cantato anni dopo da Francesco Guccini nella sua celebre ballata L’avvelenata. Non avrebbero fatto in
tempo a tirarlo per la giacca, sarebbe andato via da libertario, sui generis,
leggero. Al di sotto dei trent’anni – l’età decantata dallo scrittore francese
degli anni Trenta Robert Brasillach nel
suo romanzo I sette colori – l’età che
precede il passaggio all’età adulta, e le conseguenti e “responsabili” scelte
importanti. Non sarà mai roba da Gigi Meroni, il quale un anno dopo la sua
nascita fumettistica si riscopre beat. Respira Beatles e pallone, dipinge, ama
Cristiana, una donna sposata con cui convive e alla quale regala una rosa al
giorno, uno scandalo inaccettabile per quell’Italietta. Subisce gli attacchi di
certa stampa: il giornale conservatore Il
Tempo, ad esempio, lo stronca per il suo modo d’essere, per il suo stile di
vita, per la sua estetica. Non gli vengono perdonate la barba e i baffi, il ct
della Nazionale, Fabbri gli chiede di tagliarli, come aveva già fatto in precedenza.
Il ricatto morale è: «O li tagli o non giochi». Viene preso a capro espiatorio
per il fallimento ai Mondiali del ’66, pur avendo giocato una sola partita. Lui
si diverte: se ne infischia. Irride gli avversari con dribbling e tunnel e per
questo rischia le gambe. Un giorno si mette a mendicare e chiede l’elemosina,
per poi concedersi un aperitivo: per questo rischia il linciaggio. Non pago di
tutto ciò provoca, un giorno, il pubblico assiepato allo stadio di Napoli,
entrando in campo vestito di tutto punto con la “bombetta” in testa,
elegantissimo e leva il dito al cielo, a volere testare l’andamento del vento.
Gli piovono fischi e insulti e anche monete. Gigi Meroni le raccoglie, si reca
nello spogliatoio e dice ai compagni: «Ragazzi, ho fatto: aperitivo per tutti».
Inutile dire quanto manchi una personalità del genere nel mondo del pallone che
ci è contemporaneo, diverso probabilmente, come il resto della società. Capace
di provocare senza perdere l’eleganza e il sorriso: altro che Balotelli! Il
giovane Gigi osserva i suoi giorni, ama la sua vita, gli piace strafare. Ma
rimane sgomento dinnanzi a qualche cosa che non va.
«Mi
ha fatto impressione Tenco – fa dire al suo Meroni, l’autore del libro, Marco
Peroni – il suidicio di Luigi, uno che aveva scritto canzoni bellissime, roba
per quei momenti particolari dove hai bisogno di qualcosa in più. È incredibile
quello che ha scritto un altro quotidiano conservatore, Il giornale d’Italia: “Eccolo il risultato di una generazione che
chiede sempre più libertà e sempre meno doveri, ecco che cosa accade a volere
l’amore e non la guerra, che si muore per una canzone”».
Tutto
ringiovaniva, comunque, e diventava beat: «Si deve perfino adattare il
Cantagiro, il cui brano più significativo non a caso è nomade, Come potere giudicar». Gigi rincorre il
suo tempo al contrario, di tempo sa di averne poco, vuole tornare bambino, a
giocare partite meno serie, in campi meno perfetti, come quelli ricavati sui
prati, con i maglioni messi a terra come pali, oppure quello dell’oratorio. Il
suo desiderio verrà accontentato: lo possiamo immaginare ancora come il Nino
cantato da Francesco De Gregori nel celebre brano La leva calcistica del ’68, che avrebbe giocato con la maglia
numero 7. Lui, Gigi, che quella maglia l’ha indossata veramente. Andato via
come un palloncino vola in cielo, troppo presto per compromettersi con i
problemi dei “grandi”. Lui Gigi, che grazie al duo Peroni e Cecchetti, è nato
ragazzo e cresciuto bambino, e che non morirà mai.
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