Annalisa Terranova
“Il Medioevo piace ma non si studia”.
È il titolo, ineccepibile, di un bell’articolo scritto da Franco Cardini su
“Avvenire” proprio oggi (21 maggio) e che ricorda come, tra saghe, film,
fantasy medieval-tolkieniana e imitatori di Dan Brown l’età di mezzo sia
sfruttatissima a livello di immaginario mentre i centri di ricerca vivacchiano
e quelli che intendono approfondire il periodo storico nelle università sono
sempre di meno. Perché, aggiungiamo noi, lo studio del Medioevo dà grandi soddisfazioni
ma non procura alti stipendi e viene trascurato già nei licei, figuriamoci
dopo. Allora, o vi leggete almeno un grande classico della medievistica (un Le
Goff o un Marc Bloch o anche un libro di Cardini) oppure siete condannati al
marketing abborracciato su streghe, inquisitori, inconfessabili segreti
curiali; ai noir di atmosfera gotica disinformata, alle gare culinarie a base
di piatti “elfici” e così via. Perché c’è un medioevo di largo consumo e un
medioevo che dà soddisfazione nel tempo, quando riesci a penetrarne l’atmosfera
caotica (così simile ai nostri tempi) e la sete di assoluto di sottofondo; la
distanza dalla mentalità contemporanea e l’audacia intellettuale che si nutriva
dello sforzo epico di conciliare la Bibbia con il mondo classico.
Il medioevo è una miniera dove
attingono letterati e artisti, e a cui guarda anche la politica, approfittando
di un’estensione temporale che si allunga per mille anni (anche se per pura
convenzione) per accendere i riflettori su ciò che più appaga sensibilità
diverse e spesso opposte. E così per un Tolkien che si innamora dei versi del
Beowulf avremo un cantautore come De André che si incuriosisce per le ballate
popolari; per uno Hugo che ambienta i suoi drammi tra le guglie di Notre Dame
avremo un Benigni esegeta del labirinto di metafore della Commedia dantesca;
per un Walter Scott affascinato dalla cavalleria medievale un Branduardi che
canta Yeats; per un Brasillach che mette in scena Giovanna d’Arco un Dario Fo
che si richiama alla tradizione dei giullari; per un Evola che esalta la
tradizione imperiale un leghista che s’infiamma per lo spadone di Alberto da
Giussano. E la cosa non deve stupire, perché come scriveva Régine Pernoud il
Medioevo è il luogo degli opposti, il tempo in cui gli uomini sono tentati da
un lato dalla stabilità del castello e del feudo e dall’altro dall’inquietudine
del pellegrinaggio, il tempo della cristallina fede di Bernardo di Clairvaux e
dell’ardita logica di Abelardo, della disinvoltura erotica di Maria di Lais e
dell’amore sublimato di Ildegarda di Bingen.
In un libro davvero interessante, Medioevo militante di Tommaso di
Carpegna Falconieri si sottolinea che a quell’età si può guardare come un
“prima” e come un “altrove”. Il medioevo è ciò che viene prima della modernità
(di qui lo sciatto uso linguistico del termine per indicare pensieri,
atteggiamenti o posizioni incompatibili con la modernità così come noi la
conosciamo) ma è anche un “altrove” mitizzato e astorico, dove era possibile il
contatto con la natura e con il sacro non intaccati dalla decadenza della
tecnica e della secolarizzazione. “Medioevo politico o apolitico, tempo del
prima necessario o invece altrove assoluto: tale dunque è la qualità di questa
straordinaria parola divenuta bifronte”. Per fortuna ci sono gli storici. A loro
dobbiamo spezzoni di verità su un medioevo che resta a tutt’oggi enigma
irrisolto, ma che ci interroga e ci chiama, ci attira e ci respinge, come tutto
ciò che non riusciamo a conoscere, pur se possiede uno spazio così ingombrante
nelle nostre menti e nel nostro linguaggio.
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