Il 9 maggio del 1883 nasceva a Madrid il pensatore spagnolo
José Ortega y Gasset, autore del famoso libro La ribellione delle masse (1930). Per ricordarlo proponiamo la
parte finale dell’introduzione all’edizione italiana dell’opera scritta da
Luciano Pellicani (Il Mulino, 1984).
A partire dalla Grande Guerra gli europei avevano
improvvisamente avvertito la sensazione di non avere più un futuro e di non
essere più in grado di plasmare il proprio destino. Le prognosi catastrofiche
si moltiplicavano – basti pensare al Tramonto
dell’Occidente di Spengler, in cui si proclamava l’imminente finis Europae - e la sfiducia si faceva generale. In un tale
clima di demoralizzazione l’uomo medio europeo si rifiutava di affidare il
proprio destino alle tradizionali élites, ammalate di bizantinismo e di
mandarinismo, e si identificava con quei “terribili semplificatori” che
annunciavano la salvezza attraverso la rivoluzione permanente e l’espansione
illimitata della giurisdizione potestativa dello Stato. Per questo le nuove
minoranze dirigenti lo erano di fatto ma non di diritto: comandavano perché
esprimevano il modo d’essere e di sentire dell’uomo volgare, non già perché
erano delle autentiche aristocrazie.
Una siffatta diagnosi della crisi dell’Europa si pone in
netta antitesi della teoria della “parentesi storica” proposta da Benedetto
Croce, secondo cui i fascisti erano i barbari esterni della civiltà liberale.
Al contrario per Ortega l’invasione totalitaria era un fenomeno ancora più
inquietante, poiché aveva la sue radici nelle viscere stesse della modernità:
era una “invasione interna”, un processo di rimbarbarimento che la società
industriale alimentava con il suo stesso dinamismo. Per questo La ribellione delle masse è stata
definita una “voce ammonitrice” fondata su una penetrante analisi delle cause
profonde della paurosa crisi di identità in cui l’Europa era precipitata
all’indomani della Grande Guerra: una crisi maturata da lungo tempo ed esplosa
virulenta nei paesi dove la cultura liberale era stata superficialmente
assimilata e le sue istituzioni operavano su un terreno sociale friabile.
E tuttavia molti hanno visto nella Ribellione delle masse una condanna senza appello e una enfatica
riproposizione della critica niciana alla democrazia di massa. Certamente il
discorso orteghiano non è privo di gravi ambiguità. Ma ciò dipende, almeno in
parte, dal fatto che Ortega riteneva che la ribellione delle masse era “una
potenza bifronte di trionfo e di morte, che non solo consentiva, ma esigeva una
duplice interpretazione, favorevole e peggiorativa”. Per questo, pur
riconoscendo che l’ “impero delle masse presentava un lato vantaggioso, in
quanto significava un’ascesa di tutto il livello storico e rivelava che la vita
media si muoveva su un piano superiore a quello che percorreva nel passato” e
che per ciò stesso avrebbe potuto essere “la transizione a una nuova e
superiore organizzazione dell’umanità”, Ortega scorgeva nella “esplosione”
della modernità pericoli mortali per la stessa civiltà. In altre parole, Ortega
riteneva che l’Europa era condannata, per così dire, a procedere nella
direzione della democrazia di massa, ma contemporaneamente si chiedeva se ciò
non implicava il rischio di una corruzione catastrofica dei suoi valori
costitutivi. Pertanto è fuorviante leggere La
ribellione delle masse come l’espressione concettuale di una nostalgia
reazionaria del passato, anche se è indubbio che non poche formule orteghiane
legittimano tale interpretazione. Va inoltre tenuto costantemente presente che,
quando Ortega lanciava il suo accorato allarme, il totalitarismo (fascista e
comunista) stava sferrando i suoi micidiali attacchi contro la società aperta –
il che non poteva non suscitare quantomeno la preoccupazione che l’ingresso
delle masse sulla scena storica potesse risultare letale per la società
liberale. Come integrare milioni di individui dentro la cultura e le
istituzioni liberali? Questo era il drammatico interrogativo che si pose
Ortega. E ad esso rispose non invitando gli europei a ripercorrere i sentieri
del liberalismo oligarchico dell’Ottocento, bensì auspicando la sostituzione
del laissez faire con uno Stato socializzatore capace di realizzare “la
liberazione dell’operaio” e indicando nella costruzione degli Stati Uniti
d’Europa la Weltpolitik grazie alla quale gli europei avrebbero potuto uscire
dall’impasse in cui li aveva condotti il nazionalismo.
Comunque, quale che sia l’effettivo significato politico
della Ribellione delle masse, è fuori
dubbio che in essa sono fissati gli elementi essenziali di quella
interpretazione della civiltà moderna che, marxismo a parte, molto
probabilmente ha esercitato la maggiore influenza nel mondo occidentale: la
teoria della società di massa. Alla magistrale descrizione idealtipica del
“barbaro verticale” compiuta da Ortega si sono ispirati decine di diagnosi
della crisi della civiltà occidentale, da Karl Mannheim ad Hannah Arendt, da
David Riesman ad Herbert Marcuse. Né si può dire che La ribellione delle masse sia ormai un’opera datata. Tutt’altro.
Basti pensare che Jules Monnerot, richiamandosi esplicitamente ad Ortega, ha
visto nei contestatori del Sessantotto, i “nuovi barbari verticali” e che
Adorno, Horkheimer ed habermas non hanno esitato a definire il movimento
studentesco un “fascismo di sinistra” con maschera di socialismo.
Nessun commento:
Posta un commento