Marco Iacona
C’è reazione e reazione. Ci sono intellettuali che inseguono lo
scoop e intellettuali che se ne disinteressano. Un giorno, c’è chi crede di
scrivere il libro della vita (l’altrui vita), il successivo c’è chi sceglie la
via della sottile propaganda. Di libri sul “si stava meglio quando si stava
peggio” con variazioni a mai finire ne abbiamo letti troppi. I testi profetici
costruiti sul medesimo principio non passano di moda e c’è chi ne scrive uno
dietro l’altro giocandosi titolo e lunghezza: dicendo suppergiù la stessa cosa.
Ci viene in mente Massimo Fini con La ragione
aveva torto, ora con punto interrogativo ora senza. Papà di una serie di
volumi figli di una convinzione diviso tre: si stava meglio nell’ancien régime
cioè prima della rivoluzione industriale, la tecnica ci porterà alla
distruzione e infine: i cattivi sono i buoni e i buoni sono i cattivi.
Ma c’è reazione e reazione dicevamo. Ce n’è una che non lo è affatto o se lo è, è figlia di una seria disposizione di studi, idee, riflessioni: fiumi carsici che compaiono e ricompaiono nel corso di una vita. Luca Negri, quarant’anni e una profondità non comune, si occupa di medioevo non da tifoso né da saggista malinconico. Non ha tesi precostituite da spacciare per studi infiniti né pensa che dietro l’angolo ci sia l’inferno per miliardi di peccatori. I catastrofisti à la page vorrebbero farci pentire di essere nati, i passatisti alla moda – e un po’ violenti – vorrebbero convincerci che nascere ai tempi dei vespri siciliani sarebbe stata una gran fortuna. I saggisti seri si affidano all’intelligenza del lettore. È una scommessa che vale più di una carriera.Nel suo ultimo lavoro Il ritorno del Guerin Meschino (Lindau 2013), Negri mette tutto in chiaro: «Non auspichiamo né riteniamo possibile riportare l’orologio della storia e dell’evoluzione umana indietro di un millennio. Non siamo antimoderni incalliti, votati al lamento per il tempo che fu e non è più». Non è fiato sprecato. La soldataglia antimoderna, che si autoesilia in un sud immaginario sapido d’Ottocento, caccia grossi calibri per una guerra fatta di grassetti e parolone, e all’occorrenza arruola poetume per compagnie di flagellatori. Irridendo il buon senso, talvolta anche la pace. Negri parla di futuro con saggezza: mission impossible per Fini e compagnia stonante, arruolati tra i partigiani del pessimismo con certificazione, dicono loro, anticonformista. Anticonformismo è sostantivo di cui si abusa. Indica avversione a un modo di pensare. Diffuso. Alla legge del numero, alla democrazia. Assicura che l’erba del nostro giardino (anzi del mio: l’anticonformista vive nel mito dell’eroe solitario) è più verde del prato dei vicini. Vuol dire disprezzo, insofferenza. L’anticonformista con mimetica e cartucciera più che uomo di pensiero è indovino. Sa contro cosa e contro chi lottare, quasi mai per chi. Vuol distruggere, non sanare o risanare. Si tiene fuori dalla mischia ma graffia, fuma, sentenzia. Deprezza le idee altrui – che dà per presupposte – alle quali contrappone un copia-incolla mnemonico, ricavato da libercoli e pubblicazioncelle a cui associa la nobiltà di una firma. Nulla di serio andrebbe ricavato dalla prosa di un insoddisfatto cronico e avvinazzato di molestie. Parafrasando Alain de Benoist che ce l’ha con chi si colloca a destra: l’anticonformista non ha idee ma convinzioni.
Ma c’è reazione e reazione dicevamo. Ce n’è una che non lo è affatto o se lo è, è figlia di una seria disposizione di studi, idee, riflessioni: fiumi carsici che compaiono e ricompaiono nel corso di una vita. Luca Negri, quarant’anni e una profondità non comune, si occupa di medioevo non da tifoso né da saggista malinconico. Non ha tesi precostituite da spacciare per studi infiniti né pensa che dietro l’angolo ci sia l’inferno per miliardi di peccatori. I catastrofisti à la page vorrebbero farci pentire di essere nati, i passatisti alla moda – e un po’ violenti – vorrebbero convincerci che nascere ai tempi dei vespri siciliani sarebbe stata una gran fortuna. I saggisti seri si affidano all’intelligenza del lettore. È una scommessa che vale più di una carriera.Nel suo ultimo lavoro Il ritorno del Guerin Meschino (Lindau 2013), Negri mette tutto in chiaro: «Non auspichiamo né riteniamo possibile riportare l’orologio della storia e dell’evoluzione umana indietro di un millennio. Non siamo antimoderni incalliti, votati al lamento per il tempo che fu e non è più». Non è fiato sprecato. La soldataglia antimoderna, che si autoesilia in un sud immaginario sapido d’Ottocento, caccia grossi calibri per una guerra fatta di grassetti e parolone, e all’occorrenza arruola poetume per compagnie di flagellatori. Irridendo il buon senso, talvolta anche la pace. Negri parla di futuro con saggezza: mission impossible per Fini e compagnia stonante, arruolati tra i partigiani del pessimismo con certificazione, dicono loro, anticonformista. Anticonformismo è sostantivo di cui si abusa. Indica avversione a un modo di pensare. Diffuso. Alla legge del numero, alla democrazia. Assicura che l’erba del nostro giardino (anzi del mio: l’anticonformista vive nel mito dell’eroe solitario) è più verde del prato dei vicini. Vuol dire disprezzo, insofferenza. L’anticonformista con mimetica e cartucciera più che uomo di pensiero è indovino. Sa contro cosa e contro chi lottare, quasi mai per chi. Vuol distruggere, non sanare o risanare. Si tiene fuori dalla mischia ma graffia, fuma, sentenzia. Deprezza le idee altrui – che dà per presupposte – alle quali contrappone un copia-incolla mnemonico, ricavato da libercoli e pubblicazioncelle a cui associa la nobiltà di una firma. Nulla di serio andrebbe ricavato dalla prosa di un insoddisfatto cronico e avvinazzato di molestie. Parafrasando Alain de Benoist che ce l’ha con chi si colloca a destra: l’anticonformista non ha idee ma convinzioni.
Libri come quello di Negri sono antidoti alla superbia della colta ignoranza o
come diceva Julius Evola della stupidità intelligente. L’illuminismo che uno
sport per alunni zoppicanti vorrebbe causa di inconvenienti interplanetari
viene definito da Negri un tesoro da coltivare e tramandare. «Negare questa
verità significa isolarsi dalla corrente storica, mummificarsi nella retorica
utopistica (di un’utopia alla rovescia, reazionaria), nella testimonianza
narcisistica, nella paralisi del pensiero». La storia o Storia non si sceglie
come fosse merce. L’antilluminismo, continua Negri, è strada senza sbocco. Non
porta a nulla, non ha diritto di cittadinanza. Allo stesso modo, la storia non
è tifo da stadio – ma i curvaroli si spacciano per storici dilettanti – ed è
operazione grossolana contrapporre periodi a periodi. Con la convinzione –
torna de Benoist – che uno prevalga sull’altro. I laudatori del medioevo o
dell’ancien régime sono avanzi di una
commedia all’italiana fuori tempo (non dimentichiamo Mario Monicelli), ma i
tifosi illuministi rischiano una magra figura fasciando i luoghi non razionali
dell’esistenza e gli ostacoli alla formazione del pensiero. Il che sarebbe vero
solo in casi estremi.
Il medioevo cristiano, questo è certo, è stato vittima di pregiudizi. Mai
discussi fino in fondo. Intollerante, anarchico, superstizioso, violento e
maschilista? Certamente, ma come ogni epoca, forse meno di una scomposta
modernità o di una classicità apparentemente rose e fiori. Sul fattore
violenza, soprattutto, passeremmo il testimone agli abitanti di Hiroshima o
alle vittime di Auschwitz. Dunque? Abbiamo bisogno di «un po’» di medioevo
conclude Negri o di chi possa riassumerne lo spirito. Come il Guerin Meschino,
eroe albanese di mille avventure alla ricerca delle proprie origini e radici.
La cui vita cantata da Andrea da Barberino nel XV secolo, fu collettore di
relazioni, esperienze e azioni di valore simbolico. Sintesi dei tempi che
furono e cavaliere del futuro. Fratello maggiore di Aragorn prim’attore nel
Signore degli anelli di J.R.R. Tolkien. Abbiamo bisogno del Graal, simbolo di
un qualcosa che è andato perduto – che confina con un’antica sapienza – e che
ha cambiato la storia del mondo. E «abbiamo bisogno di sorprese, di mistero, di
qualche luce spenta. Di accettare il fatto che non tutta la realtà è limitata
al nostro uso dei cinque sensi, che non tutto è spiegabile razionalmente»
Qui rientra in campo certo pensiero tradizionale, cioè torna in
scena lo spirito. Rinasce il medioevo. In realtà mai messo da parte dalle
eccellenze della letteratura europea (da Ludovico Ariosto a Walter Scott). In
una nuova era, età di mezzo ed età dei lumi potrebbero fondere le esperienze.
Mettiamola così: meno dogmi e maggior libertà, o forse maggior impegno e una
volontà più pura. Tanta memoria ma anche tanta paura. Lo spirito senza il collare
della ragione taglieggia l’io. La ragione senza lo spirito è imperfezione ben
mascherata, ma anche promessa di altro sangue versato. Fate voi. E in fondo
perché limitarsi a desiderarlo? A ben vedere siamo immersi fino al collo nel
pentolone di un singolare, invadente medioevo. Forse dall’Ottocento di Fëdor
Dostoevskij – uomo contro il proprio tempo –, passando per chi predicò
l’esistenza o il ritorno a un al di là dal «corpo fisico» nel mezzo di una
rivoluzione non desiderata; come il chimico, filosofo e teologo Pavel
Florenskij, fucilato dai comunisti nel 1937 e tardivamente riabilitato. O per
Nikolaj Berdjaev di cui ci dà notizia Alexandr Solzenicyn, catastrofista anche
lui (a ragione), che giudica positivamente il medioevo storico – «senza Dio si
diventa schiavi di elementi inferiori» – ma non è nostalgico né piagnone.
Auspicherebbe, quello sì, un nuovo medioevo con un «passaggio dal razionalismo
dei tempi moderni a un irrazionalismo o a un super-razionalismo», con tanto di
apprezzamento per l’elemento femminile in senso goetheano. A un organicismo che
sa d’antico si rifaranno Gilbert Keith Chesterton il papà di padre Brown – molto
amato da Jorge Luis Borges – e il più noto Pierre Drieu La Rochelle purtroppo
abbagliato da Hitler ma anche da un medioevo colorato, energico e
giovanilistico. Fisico e spirituale insieme. Non un’età perduta, triste, la
sua; ma al contrario colma di «rivolgimenti sociali». Rudolf Steiner scriverà
di una società liberamente tripartita tra economia, politica e cultura.
E ci troviamo in un nuovo medioevo anche per ragioni, diciamo
così, più evidenti. Dalle guerre mondiali al terrore atomico. Dal disgregarsi
di interi paesi alla minaccia di una fine del mondo o di un impero: quello
comunista prima, quello americano adesso. Dalla miseria alla crisi del ceto
medio, quello che bene o male ha interpretato la fine dell’era moderna. Dalla
crisi nella credibilità della scienza al fai da te in più settori e occasioni.
Chiamasi catastrofe prossima ventura o almeno per il momento relativismo della
peggior tipologia. Chi siamo? cosa vogliamo? dove stiamo andando? qual è «il
senso della vita»? Fino a un secolo fa la risposta sarebbe stata semplice.
Adesso è più facile far rispondere gli altri. O riscoprire il sacro: «vivo è il
cristianesimo nel mondo» dice Negri, e vivo è il bisogno di religiosità, che è
un’altra cosa, ma che appartiene a una stessa famiglia allargata. Ateismo e
post-ateismo sembrano passare di moda in favore di una spiritualità dai
contorni evanescenti, un oceano con fiumi e affluenti mai in secca. Una
religione dietro l’altra alla maniera del cantante Franco Battiato (a proposito
di catastrofisti). Allora? Siamo persone, non entità collettive, coltiviamo la
libertà e custodiamo la trascendenza. Coccoliamo un dio che chiamiamo con nome
diverso, in attesa che qualcosa si muova. Chissà.
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