Francesco Pullia
Spiritualista ma anticonfessionale, laico, pessimista e vegetariano,
tra i pochi ad avere avuto, nel 1931, il coraggio di rifiutare di prestare
giuramento al regime, Piero Martinetti (1872-1943),
come Aldo Capitini (1899-1968) e Giuseppe Rensi (1871-1941), dovrebbe occupare
un posto di primo piano alla stessa stregua di Gentile e di Croce di cui fu
antitetico. Anzi, per dirla tutta, dovrebbe meritare maggiore attenzione sia
del padre dell’attualismo che del liberale assertore dello storicismo.
La riflessione e la testimonianza cicile di Martinetti, che non aveva mai
insegnato a Torino, gli procurarono negli anni Trenta estimatori e discepoli in
quella città. Come ha scritto Norberto Bobbio: “Pur essendo stati suoi allevi,
per tre di noi che frequentavano la facoltà di filosofia in quegli anni, ebbe
la sua parte nella npstra educazione intellettuale e morale. Mi riferisco a
Ludovico Geymonat, ad Augusto Del Noce e a me stesso”. Lo stesso cattolico Del
Noce – lo ricorderà nel suo saggio Martinetti
nella cultura europea, italiana e piemontese – frequentò Martinetti dalla
metà del ’36 alla primavera del ’41: “Che cosa portava a cercare l’amicizia di
Martinetti e a sentire la minima espressione della sua simpatia e della sua
stima come più preziosa di qualsiasi docenza? Ragioni, in primo luogo, di
ordine etico-politico, in quel momento storico… Si era passati dalla
distinzione di morale e politica alla loro completa opposizione, e la
situazione era tale da suggerire che la rottura tra ciò che è vitale e ciò che
è morale meritasse un fondamento ontologico…”.
Chi non lo conoscesse affatto può accostarsi al suo pensiero
leggendo gli studi di Amedeo Vigorelli, Piero Martinetti. La metafisica
civile di un filosofo dimenticato (Bruno Mondadori, 1998), Giuseppe
Colombo, La filosofia come soteriologia. L’avventura spirituale e
intellettuale di Piero Martinetti (Vita e Pensiero, 2005), Brigida Bonghi, La
fiaccola sotto il moggio della filosofia kantiana. Il Kant di Piero Martinetti
(Mimesis, 2011). La sua prospettiva è delineata sin dagli esordi, con la tesi di
laurea sul sistema filosofico indiano samkhya
che, secondo lui, aveva per primo affermato l’indipendenza della ragione da
ogni rivelazione rivolgendosi “esclusivamente
ai problemi del dolore dell’esistenza, del merito delle opere, della
purificazione dell’anima e della liberazione”. Per Martinetti, non sono
i vincoli dogmatici, le credenze tradizionali, gli irrigiditi clericalismi ad
affrancarci. Non si può, egli sostiene, prestare fede alle cosiddette religioni
positive, che si reggono sulla “sottomissione
servile” dell’individuo, hanno smarrito “ogni potenza vivificatrice” e si mostrano, tra l’altro,
indifferenti innanzi all’inaudita sofferenza provocata negli animali dagli
uomini e dai loro modelli organizzativi economici e sociali. Gli animali “sono esseri affini a noi e il presentimento
pietoso non ci inganna quando nei loro occhi leggiamo l’unità profonda che ad
essi ci lega”. C’è urgenza, per l’autore, di una profonda rigenerazione
etica, religiosa, sociale e il compito di realizzarla spetta a minoranze
attive. Difensore del modernista Buonaiuti, avversato da Padre Agostino
Gemelli, con cui fu tenacemente in polemica. Avverso recisamente alla
concezione gentiliana di uno stato etico, non si stancò mai di ribadire che non
ci sarebbe mai stata libertà politica senza libertà religiosa e che le armi del
totalitarismo non avrebbero mai avuto efficacia dinanzi alla risoluta
resistenza di una libera coscienza religiosa.
Il suo Gesù Cristo e il
cristianesimo, pubblicato a proprie spese nel 1934 per i tipi delle Edizioni della “Rivista di filosofia”, venne
messo all’indice e immediatamente sequestrato. Merito di Castelvecchi
riproporcelo adesso in una nuova versione editoriale (€ 25,00) dopo quella,
curata da Giacomo Zanga, pubblicata in due volumi da Il Saggiatore nel 1964. Si
tratta di un lavoro che, nonostante i tanti anni dalla sua prima comparsa, non
ha smarrito affatto la sua portata innovatrice e ancora oggi risulta
addirittura profetico. Martinetti contrappone la religione
dello spirito a quella dell’autorità e
rimarca le differenze tra Cristo, storicizzato, spogliato di elementi mitici e
leggendari, e Paolo.
Gesù, per Martinetti, non ha basato il proprio insegnamento su
alcuna rivelazione soprannaturale ma, come Buddha, come i grandi profeti di
Israele, è stato “un veggente nel
senso più alto della parola”, avendo voluto condurre “gli uomini a vedere ciò che Dio ha già
scritto profondamente nei loro cuori”. Per questo la sua parola colpisce
ancora perché detta al nostro interno come faceva con i “suoi umili ascoltatori (…) La riduzione
della religione ad un atto sentimentale o volitivo è in realtà solo un artifizio
diretto a mascherare l’arbitrio dogmatico”. Risultano evidenti le
affinità tra questa posizione e lo gnosticismo. Ritrovati
casualmente a Nag Hammadi, in Alto Egitto, due anni dopo la scomparsa di
Martinetti, i vangeli gnostici suggeriscono, infatti, di Gesù l’immagine di un
illuminato, di un Buddha, che ci sprona a trovare in noi la salvezza. Non è un
caso se furono sottoposti a distruzione a partire dal concilio di Nicea (325).
Il motivo di questa persecuzione appare evidente se si considera che lo gnosticismo
non riconosceva autorità al potere istituzionalizzato, contestava la riduzione
della spiritualità in un’organizzazione strutturata e metteva l’accento
sull’importanza del percorso iniziatico da intraprendere. A
differenza degli scritti neotestamentari, Gesù nei testi gnostici non parla di
peccato e pentimento ma è, appunto, un maestro di saggezza che indica nella
conoscenza interiore la strada per il riscatto dalla condizione in cui siamo
caduti.
Analogamente, per Martinetti, il messaggio di Cristo non
ha bisogno di mediazioni perché rivolto direttamente agli uomini e fondato
sulla pietà, sulla carità, sulla coerenza tra parola e azione. Pertanto non ha
nulla di assolutistico. La vera storia della chiesa di Gesù Cristo, secondo il filosofo,
non ha nulla in comune con quella delle grandi chiese, in grandissima parte
estranee allo spirito cristiano, “ma è
la successione degli spiriti, simili al suo, che hanno attraversato il mondo
umili e miserabili come furono il Cristo ed i suoi seguaci. (…) Le chiese”,
aggiunge amaramente, “continueranno
nel mondo, finché il mondo sussisterà, l’opera loro: la corruzione richiamerà
di tempo in tempo le riforme e le riforme rigenereranno la corruzione (…) Ma
nessun ostacolo del mondo può impedire il rinnovamento di quella pura
tradizione cristiana che si leva sulla storia delle chiese come la Gerusalemme
celeste che nell’apocalissi sorge sulle rovine del cielo e della terra”.
La religione, conclude Martinetti, “vive
nelle anime, non nel mondo: e la luce risplende in una coscienza pura che non
conosce tramonti”.
Si ricordi anche Ennio Carando, allievo di Martinetti insieme a Geymonat
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