domenica 19 maggio 2013

Un film sulla fine degli anni di Pinochet


Federico Magi


Il tempo della dittatura militare come dolorosa fonte di ispirazione, attraverso tre film originali che costituiscono il primo importante lascito artistico dell’emergente e talentuoso regista cileno Pablo Larrain, classe 1976, già autore premiato e celebrato per la sua intensa opera seconda, prima distribuita fuori dal Sudamerica, Tony Manero (2008). E proprio quel film, Tony Manero, è l’originale innesco – l’opera, dai toni drammatici ma al contempo bizzarri, si svolge in piena dittatura militare ed è incentrata su un protagonista la cui folle parabola è influenzata dalla cultura pop americana – alla trilogia che ha come sfondo la crudele dittatura militare del generale Augusto Pinochet, salito al potere in Cile grazie al Colpo di Stato con cui si autoproclamò presidente e in cui perse la vita l’allora capo del governo, il socialista Salvador Allende. A Tony Manero segue Post Mortem (2010): ambientato proprio nei giorni del Colpo di Stato, è raccontato attraverso lo sguardo di un funzionario dell’obitorio che si ritrova improvvisamente invaso da cadaveri di dissenti del regime e di comuni cittadini. Con quest’ultimo No-I giorni dell’arcobaleno, da pochi giorni nelle sale italiane, Larrain chiude il cerchio sul tempo crudele con un film quasi documento, tratto dall’opera teatrale Referendum, di Antonio Skarmeta, in cui vengono raccontati i ventisette giorni di propaganda elettorale, fino alla vittoria finale da parte degli oppositori del regime, precedenti al giorno del referendum che Pinochet era stato in qualche modo costretto a indire, causa forti pressioni internazionali, sulla sua stessa presidenza.
Era il 1988, e come qualche quaranta/cinquantenne di oggi ricorderà, in larga parte dei paesi occidentali in testa alle classifiche dei dischi più venduti c’era Sting, con Nothing Like The Sun (pubblicato nel 1987, spopolò nell’anno successivo tanto da essere presentato successivamente anche in lingua spagnola, nei i paesi latini e non: Nada Como El Sol), in cui è contenuta la struggente ballata They dance alone, nella quale l’artista britannico attacca direttamente Pinochet, raccontando la triste sorte dei cileni. Ed è solo un esempio di quanto l’opinione pubblica e gli artisti occidentali di allora (nei tanti documenti del film, ci sono ad esempio brevi appelli al voto dei noti attori americani Christopher Reeve, Jane Fonda e Richard Dreyfuss), stringessero in qualche modo d’assedio mediaticamente Pinochet, il quale comunque aveva dalla sua il potere e in qualche modo cercava di legittimarlo con modalità apparentemente democratiche, agli occhi del mondo. Qui comincia la vicenda-cronaca di No, nella quale gli allora leader dell’opposizione democratica (del partito socialista, radicale, democristiano, socialdemocratico, umanista, con l’appoggio dei comunisti, messi fuori legge da Pinochet), convincono il giovane e sfrontato pubblicitario René Saavedra a condurre la loro campagna. Il regime è persuaso del fatto che l’opposizione non abbia speranze, che il popolo sotto il giogo del terrore e sotto i proclami di un falso benessere, comunque appannaggio di pochi, voterà in massa per il Sì. Con poche risorse, e sotto il pressante controllo delle autorità, Saavedra e la sua squadra metteranno al contrario in atto una strategia vincente, che si servirà proprio di uno dei poteri più ambigui delle democrazie moderne, quello mediatico e commercial-pubblicitario, facendo intelligentemente uso del quale ribalteranno un esito apparentemente segnato e libereranno così il popolo da quindici anni di oppressione. Un’opera solida, forte e compatta, confezionata con cura e attenzione al dettaglio, senza rinunciare a un pathos da caos calmo affidato più che altro alle misurate ed efficaci interpretazioni di attori perfettamente in parte. No è un’opera decisamente da vedere, sia per come il tema viene trattato che per l’indubbia qualità artistica, pregio di un regista, qui per la prima volta non sceneggiatore, che si conferma su ottimi livelli ma che cambia sostanzialmente sia la struttura narrativa che il proprio dna autoriale per girare una pellicola molto più complessa di quanto l’apparenza non dica. L’artista cileno fa risultare tutto consequenziale e lineare, preferendo l’uso delle macchine da presa anni ottanta per fondere fiction e immagini di repertorio; e ci riesce talmente bene, grazie anche alla scelta di una fotografia ingiallita e opacizzata, a tratti sgranata e desaturata, a fuggevoli dissolvenze e a inquadrature geometricamente studiate per elevare la componente realistica, che lo spettatore sovente non distingue più dove sia la finzione e dove il documento reale. La forma è sostanza in un’opera come No, al pari dei dialoghi, essenziali e credibili, e alla scelta di circoscrivere la vicenda in quel mese scarso decisivo per le sorti del Cile. Il messicano Gael Garcia Bernal, già Che Guevara per Walter Salles (I diari della motocicletta), si cala perfettamente nella parte e regala una nuova interpretazione da ricordare, più che altro nei quadri minimali di vita familiare (con il piccolo Pascal Montero), e attraverso sguardi in cui si leggono in modo cristallino, senza l’ausilio di parole, speranza, dolore e indignazione, voglia di riscatto e perché no, diciamolo anche con forza, il coraggio di chi ha tutto da perdere, vista la vita sostanzialmente benestante condotta sotto il regime, nonostante fosse figlio d’un esiliato. Alfredo Castro, attore feticcio di Larrain, costruisce nuovamente un personaggio ben caratterizzato, dallo sguardo magnetico e dalle profonde ambiguità.


Ma il tema centrale del film per Larrain è, più che la legittima voglia di celebrare in forma di celluloide una liberazione-epilogo della sua dolorosa trilogia, quello di far emergere su ogni cosa l’ambiguo potere del messaggio mediatico, tanto che il film vive tutto o quasi sugli spot elettorali e sull’uso “strumentale” dei filmati d’epoca. Il regista cileno ci dice apertamente, attraverso la vicenda narrata e senza ipocriti moralismi, che il mezzo conta quanto il fine, in certi casi, che nel mondo della comunicazione di massa ciò che può determinare la nostra prigione può diventare improvvisamente la nostra salvezza, tutto dipende da chi e come lo si utilizza: quando i puristi dell’antagonismo a Pinochet, osservano inorriditi i primi spot a favore del No immaginati da Saavedra, nei quali la parola “allegria” soppianta quella “dolore” tanto da sembrare un’offesa per i morti, gli oppressi ei  desaparecidos, non si rendono conto del potere che una certa cultura pop statunitense, giocata sui messaggi positivi e spensierati abbia ormai fatto presa sui popoli dell’America Latina già esposti a dittature insediatesi col beneplacito degli Usa stessi. Del resto, tracce di ciò, anche se in un contesto differente e con effetti decisamente perversi, Larrain ce lo aveva mostrato proprio in Tony Manero, seguendo l’allucinante fascinazione del suo protagonista (Alfredo Castro) per John Travolta e La febbre del sabato sera.
Morale della vicenda, proprio attraverso l’astuzia di un pubblicitario che ha avuto la vista lunga, attraverso la parola allegria, sintetizzata dai colori dell’arcobaleno che rappresentano i diversi partiti democratici che si opponevano al regime, attraverso i jingle più o meno giovanilistici che ricordano i primi spot della coca cola, un popolo irrimediabilmente oppresso, ma con gli occhi del mondo addosso, riuscì a liberarsi da una delle più atroci tirannie dell’America Latina, nonostante il sostegno di Washington, l’indubbia modernizzazione del paese e una crescita economica basata su un’economia di stampo liberista che aveva inevitabilmente aumentato le sperequazioni sociali. Così Pinochet fu costretto a favorire la transizione democratica. Solo in seguito, diversi anni dopo, fu condannato per i suoi crimini. Ma questa è un’altra storia, che difficilmente entrerà nel cinema prossimo venturo del giovane cineasta cileno, il quale con No verosimilmente chiude la sua indagine cinematografica su un periodo terribile di storia patria. Nella memoria di chi l’ha vissuto, molto più recente di ciò che le immagini vintage degli Ottanta potrebbero far credere.

1 commento:

  1. Una piccola precisazione: Plaza de majo è a Buenos Aires, Argentina. In quella piazza le madri (non le "donne") dei desaparecidos si riunivano (e periodicamente si riuniscono ancora) per chiedere giustizia riguardo ai 30.000 scomparsi. Videla è appena morto, almeno per questo si dovrebbe sapere che l'associazione Madres de Plaza de Mayo è argentina e non cilena.

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