Luciano Lanna
Non ne posso davvero più dei
dibattiti televisivi di questi giorni sui processi di Berlusconi e sulle
argomentazioni delle due parti contrapposte. Mi chiedo: di fronte alla crisi
economica e sociale in atto così come alla deflagrazione delle culture politiche
tradizionali e alla fine delle vecchie appartenenze, davanti alla necessità di
cercare di avviare un auspicabile nuovo processo costituente, cosa gliene
interessa alle persone delle interminabili discussioni televisive sui processi del
Cav (e questo anche a quelli come me i quali, sia ben chiaro, contestano e
contrastano Berlusconi per questioni più importanti di quelle giudiziarie e che
sono di natura politica, estetica e culturale)? Me ne viene uno scoramento e un
disgusto per le argomentazioni e i personaggi che quotidianamente ne
disquisiscono che tendo quasi sempre a rifugiarmi tra i miei libri e il mio
immaginario. Tutto mi appare così surreale, che non capisco come nessuno degli
attori in campo non provi neanche minimamente a ristabilire i veri termini
della questione. A Berlusconi vengono contestati alcuni reati? E allora? Se ne
difenda in tribunale come fanno e farebbero tutti gli altri cittadini: siamo in
un assetto costituzionale e garantista in cui sino al terzo grado di giudizio
nessuno ha niente da temere. Che senso hanno trasmissioni tv o articoli che
fanno invece il verso ai processi cercando di accrescerne il senso politico
oppure manifestazioni “politiche”, anche di piazza, in difesa di un imputato,
chiunque esso sia?
D’altronde, di processi più
o meno “politici” in questo paese ce ne sono stati nel passato, eccome… Da
quelli, anche ripetuti, sulla ricostituzione del partito fascista e al golpe
Borghese sino al “7 aprile”, dal caso Braibanti a quello di Appignani, dalla
vicenda giudiziaria di Enzo Tortora a quella di Adriano Sofri, da Walter Chiari
a Franco Califano, da Andreotti a Craxi, sino ai processi (spesso indiziari)
sulle stragi. Eppure, neanche in uno
solo di questi casi, nessuno ha mai messo in discussione la separazione dei
poteri e la legittimità formale dei processi, i quali sono stati tutti risolti
all’interno delle aule di tribunale. Non ci sono stati forse accanimenti anche
in alcune di queste vicende? Eppure, la negazione della separazione dei poteri
e la presunta supremazia della legittimità elettorale su quella istituzionale
non sono mai stati neanche pensati, figuriamoci utilizzati come polemica
mediatica…
Correlata a questa deriva c’è
poi la confusione terminologica e lo scempio che si compie del termine di “legalità”,
che ormai non rimanda più a quello che per tanti anni evocarono Marco Pannella
e i radicali denunciando la “strage di legalità (e di giustizia)” in Italia.
Adesso, con il falso e fuorviante bipolarismo tra presunti “legalitari” e
presunti “garantisti”, tutto s’è appannato e il vocabolo “legalità” è diventato
in realtà il travestimento dello slogan “ordine e disciplina” (per le destre) e
del vecchio istituzionalismo statalista di matrice togliattiana (per le
sinistre). Paradossalmente il termine legalità, che in tutto il mondo si
delinea come il perno della tutela del singolo dagli abusi del potere, in
Italia è diventato sinonimo di una visione “sbirresca” e “questurina” della
prassi politica e istituzionale.
Oltretutto, il rovesciamento
semantico del termine (e del concetto) di “legalità” che la retorica politica
italiana dell’ultimo ventennio ha imposto al linguaggio dei media è proprio il
peggiore portato dell’equivoca transizione avviatasi con la fine traumatica
della Prima Repubblica. Oggi infatti il vocabolo viene utilizzato, come abbiamo
detto, come una sorta di feticcio politicista e pseudo-rivoluzionario da soggetti
che si appellano a una visione neo-giacobina e giustizialista del confronto
politico in cui, con uno scarto ingiustificato, si ritiene che il cambiamento
possa (e debba) determinarsi soprattutto attraverso la “cultura del sospetto” e
la messa in stato d’accusa di una classe politica in termini giudiziari,
auspicando quindi il primato del potere dei magistrati su quello esecutivo e
legislativo. Cosa che, a guardare bene, è proprio l’esatto opposto di una
visione fondata sulla “legalità costituzionale” la quale, storicamente, è nata
proprio sulla tripartizione e tri-articolazione dei poteri e sulle garanzie
costituzionali a favore del singolo di fronte a qualsiasi abuso del potere.
Come a dire: un ideale e un
termine nato con funzioni garantiste ha finito nell’anomalia italiana per rovesciarsi
in una contraddittoria accezione giacobina (e quindi sostanzialmente
illiberale) della prassi politica. E ciò che s’impose storicamente a tutela
degli abusi ha finito per caratterizzare una spinta verso un abuso, magari
coperto da pulsioni etiche. Già nel 1815 Benjamin Costant annotava: “Siccome la
costituzione è la garanzia della libertà di un popolo, tutto quello che
pertiene alla libertà è costituzionale, laddove non c’è niente di
costituzionale in quel che non le pertiene”. Lo scopo di un assetto civile
autenticamente fondato sulla legalità potrebbe infatti essere espresso e
sintetizzato, stando almeno agli Elementi
di teoria politica di Giovanni Sartori, da una sola e inequivocabile parola:
“garantismo”. Cioè a dire che, in tutto l’Occidente, i popoli in un processo
lungo di secoli chiedevano una legalità costituzionale proprio perché avevano
bisogno di una legge fondamentale, o una serie di principi fondamentali, con lo
scopo di “delimitare il potere arbitrario e assicurare un governo limitato”. E
in ogni caso l’intento e la ragion d’essere di una legalità costituzionale non
sono altro che quelli di assicurare che i cittadini, ogni singolo cittadino,
siano protetti e “garantiti” dall’abuso di potere.
Quindi il primo equivoco da
chiarire è quello della relazione tra “legalità” e “garantismo”: mentre
nell’Italia degli ultimi vent’anni i due termini sono stati presentati come
opposti, in realtà essi paradossalmente coincidono. Da sempre, infatti, costituzionalismo
e la legalità istituzionale non sono altro che la certezza di un particolare
contenuto di garanzie. Pensiamo alla Magna
Charta libertatum britannica del 1215 che di fatto riduceva i poteri della
Corona, facendole perdere così la possibilità di imporre in maniera arbitraria
imposte e tributi. E si apriva di fatto la strada a un sistema di garanzie
legali che forniva ai singoli una possibilità di limitare il potere dei
governanti. E, sempre in Inghilterra,
nel 1679 la legge dell’Habeas
Corpus rinnovava le disposizioni della Magna
Charta contro gli arresti arbitrari, perché venivano dichiarati inviolabili
in nome della legalità la persona e il domicilio di ogni singolo cittadino, il
quale poteva essere arrestato solo in seguito a una sentenza del giudice.
La “legalità” in politica non
è altro allora che un ordinamento protettivo della libertà dei singoli di
fronte a qualsiasi ipotesi di abuso di potere. La consapevolezza del primato
della dignità della persona è il valore principale che va garantito e tutelato
da un’azione politica. Non è l’autorità dello Stato, è la dignità della
persona. E il valore cui orientare una politica fondata sulla legalità è
quello, di tutta evidenza, che lo Stato non può limitare la libertà. Lo Stato
deve esaltare la libertà, lo Stato deve garantire a tutti l’esercizio della
libertà. Niente, nessuna entità, sia essa la Ragion di Stato, la Magistratura,
le Forze Armate, la Questura, il Partito, la Sicurezza, la Religione, la
Patria, può in un assetto di legalità
prevaricare in alcun modo i diritti fondamentali di qualsiasi singola persona.
I diritti umani e i princìpi di un rule
of law che non mancano nella stessa tradizione di pensiero italiana, a
partire dalla riflessione di Giambattista Vico, sono il vero orizzonte della
legalità che, mai e poi mai, il Leviatano, con il pretesto di fugare la paura e
fornire sicurezza ai cittadini, può tentare di conculcare o far passare in
secondo piano rispetto alla ragion di Stato.
Non a caso è ancora Giovanni
Sartori a precisare come la “legalità costituzionale” non significhi altro che “una
struttura della società politica, organizzata tramite e mediante la legge, allo
scopo di limitare l’arbitrarietà del potere e di sottometterlo al diritto”. Il
costituzionalismo che storicamente non è altro che il nome proprio di una
concezione dello “Stato di diritto” fondato in quanto tale sulla legalità –
conclude il decano dei politologi italiani – “ha mostrato che il potere assoluto, il potere
arbitrario, può essere domato, liberando effettivamente l’uomo dalla paura del
Principe”.
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