giovedì 16 maggio 2013

"Duel", quella sfida cinematografica in cui l'individuo alla fine si salva


Giovanni Tarantino


«Duel è il titolo di un film di Steven Spielberg, dov’è il duello alla morte tra un automobilista e un camion massiccio e terrificante; e comunque quello del duello è il paradigma che meglio riassume il nostro stare al mondo …». Quando poco più di vent’anni fa Giampiero Mughini, nel suo Dizionario sentimentale. Demoni miti amori ricordi rabbie di una generazione dal 1960 a oggi (Rizzoli), decise di introdurre un capitolo sui duelli sportivi ed esistenziali della sua generazione, il riferimento a Duel  fu tutt’altro che casuale. Mughini faceva una riflessione figurata, parlando di Aleksandr Tkachev, «il più fantasioso dei ginnasti della scuola russa». Ma nella sfida con sé stessi e con gli altri, rifletteva, c’è sempre e comunque un duello, «il paradigma che meglio riassume il nostro stare al mondo». Nostro, di chi? Di quella che Mughini ritiene la “sua” generazione, un noi collettivo che è più di un’identità individuale. Chi fa parte della generazione raccontata in più di un libro da Mughini, molto probabilmente si è confrontato con Duel, e con il tema del duello che quel film racconta. Chi non ha fatto parte di quella generazione ha potuto farlo comunque, grazie alle diverse proiezioni televisive che di quel capolavoro sono state fatte negli anni. E ne sono state fatte davvero tante: in questo 2011 l’opera prima di Steven Spielberg compie quarant’anni. Girato in soli tredici giorni, Duel nacque come film per la televisione, andato in onda negli Usa nel 1971. Poco tempo dopo, per il notevole successo riscosso e per consentirne l’uscita nei cinema statunitensi, il regista ne portò la durata da 74 a 90 minuti. In Italia arrivò nelle sale dopo, alla fine del 1973, proprio trent’anni fa.
La storia è uno shock, oggi come allora, ed è tratta da un racconto del grande Richard Matheson, lo scrittore di fantascienza noto per le sue descrizioni di sfide tra individui singoli e minacce di grande entità, si pensi a Io sono Legenda, che ne sarà anche sceneggiatore. In Duel un normale automobilista dal cognome simbolico, David Mann (Dennis Weaver), Mann come uomo, David come il Davide che combatte contro Golia, è oggetto della spietata caccia di un misterioso camionista, che non si vede mai, lungo le assolate e solitarie strade del deserto americano. Uno dei rari film televisivi di valore assoluto, ha contribuito al lancio definitivo dell’allora ventiquattrenne Steven Spielberg, ma è per tematica e umore una creatura di Matheson che, in un nuovo diabolico teorema, ha studiato le reazioni di un uomo comune di fronte all’imprevisto: la lucida e drammatica rappresentazione dell’evoluzione psicologica di un qualsiasi mr. Smith, con i suoi normali e banali problemi familiari, nel corso di un’assurda lotta, isolato dal resto della comunità, contro un metaforico leviatanico camion omicida. Riuscito ritratto di tipica paranoia mathesoniana, il film è anche una sfida vinta contro l’apparente impossibilità di basare un lungometraggio su uno spunto tanto originale quanto esile. Anche in questo sta la grandezza di Spielberg, che si dimostrò allora abilissimo nel visualizzare una suspence solare e all’aria aperta, ma al tempo stesso implacabile.
Non a caso Duel ha ispirato altri immaginari, diventando perfino trama per fumetti. Nell’albo di Dylan Dog n.153, il protagonista è perseguitato da un misterioso camion simile a quello di Duel (anche se molto più “nuovo” e pulito). Si scoprirà che il misterioso guidatore non è altri che la Morte. Nel secondo episodio di una storia di Topolino intitolata “Paperino Paperotto e la strada per Appaloosa” appaiono numerose citazioni e riferimenti al film, anche se il camion insegue lo scuolabus dei ragazzi. E anche i mezzi protagonisti del film sono passati alla storia: la macchina del protagonista è una Plymouth Valiant del 1970. L’autocisterna è invece un modello Peterbilt 281 del 1955. Spielberg ha avuto il merito di aver trasformato un qualsiasi on the road in un thriller onirico e angoscioso dagli evidenti risvolti metaforici, spingendo una situazione banale alle estreme conseguenze. Proprio su questo punto si basavano i commenti favorevoli della critica, da Alberto Moravia a Walter Veltroni. Quest’ultimo ha addirittura parlato di «straordinario esercizio di virtuosismo cinematografico. Duel è una delle prime opere di quel talento che risponde al nome di Steven Spielberg. È un film per la tv, girato dal regista all’età di ventiquattro anni. Si è scritto molto di questi settanta minuti. Ciascuno ha cercato nel duello tra un uomo solo a bordo di una macchina e un’autocisterna guidata da una entità invisibile, ragioni superiori, che fornissero profondità al racconto di questo duello incredibile».


A prevalere su tutto è il terrore sulla strada. Su una macchina stile Starsky e Hutch, il malcapitato durante il noioso viaggio scandito dalla musica dell’autoradio, avrà di ben poco annoiarsi: una minacciosa autocisterna infatti cercherà in tutti i modi di buttarlo fuori strada e ucciderlo. Gran parte delle sequenze offrono la scena al solo protagonista, ma vengono arricchite dall’efficacia delle inquadrature e dalla tensione costante. La figura dell'autocisterna con la scritta enorme “Flammable”, sul retro ha una forte valenza simbolica, così come ogni figura che compare nel film: la locanda con i suoi avventori manifestano l’indifferenza sottolineata dagli sguardi apparentemente allegri e faceti, ma in realtà estremamente subdoli, l’innocenza dell’autista del pullman in panne, evidenziata dalla figura dei bambini che, coi loro giochi semplici e lineari, sembrano non accorgersi dell’immane tragedia e, infine, l’autocisterna, che dalle prime battute sembra guidata da una persona in carne e ossa, di cui si vedono solo i piedi e le mani, ma mai il volto, incarna dunque la sfida, la repulsione omicida e l’istinto sadico di fare del male. Tipica di Spielberg è poi la lotta tra i due titani che scorre lungo le via deserta ripresa dal regista, prima degli anni’80 e le sue scenografie basate sugli extraterrestri, nello Squalo laddove la strada sarà sostituita con l’acqua e l’autocisterna evidentemente con il gigante degli abissi.
In Duel nell’ultimo girotondo di nervi, di thrilling torturatore e di negazione del pensiero, l’inquadratura di Weaver seduto sul ciglio di un burrone (il baratro della vita, cui lo stress del mondo moderno ci ha inevitabilmente condotto) ci suggerisce che quel momento in cui occorre tirare le fila della nostra vita, per meditare su noi stessi, prima o poi arriva, nel trionfo amaro della ragione sul movimento. Ma giunge sempre quando ormai è troppo tardi.

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