Alberto Pezzini
Siamo dentro il castello di
Reinhold Messner. Quale è il futuro degli alpinisti una volta cessata
l’attività? Un tema scottante, anche nell’alpinismo. La crisi affligge gli
alpinisti che restano a piedi, dopo una vita spesa sulle montagne. Perché
magari hanno saputo fare soltanto quello, o per colpa degli sponsor destinati a
svanire come farfalle quando arriva la pioggia. In realtà lo sportivo è «spaesato
quando si ritrova fuori dalla routine rassicurante del mondo nel quale ha vissuto
per anni. L’unico
modo per sopravvivere, almeno secondo Ed Webster, l’americano che aprì una
nuova via pericolosissima sull’Everest negli anni ’80, è diversificare, cioè
mettersi a scrivere o fotografare, dando modo alla propria creatività di
sparigliare la fortuna. Secondo lui, certi libri come Annapurna di Maurice Herzog o Aria
sottile di John Krakauer, continuano a vendere perché sono diventati
prodotti capaci di camminare da soli sul filo dell’abisso. E quando incontriamo
Messner, che oggi ha 69 anni, avremmo voglia di fargli le stesse domande. Ma ciò che oggi colpisce
di questo leone di montagna, è la sua nuova vita, un suo diverso modo di
essere. Forse non tutti sanno che anche Messner ammette di essere invecchiato.
In Gobi (Ed. Mare Verticale, pp. 300),
appena uscito, Reinhold ci offre un ritratto di se stesso “in ginocchio”, una
specie di confessione. Siamo qui – a
casa sua – a Castel Firmiano, tra vigneti, montagne innevate e simboli
religiosi che garriscono al vento, a chiedergli conferma di un’impressione così
impietosa ma forse davvero umana, e quindi più vera.
È vero che lei nel deserto
del Gobi si è sentito più solo che su qualunque altra montagna? «Premetto che
ho deciso di attraversare il Gobi da solo, a sessant’anni. Dopo cinque anni
di Parlamento Europeo, volli “staccare, e decisi di compiere un’ultima traversata
orizzontale, una specie di camminata tra la vita e la morte. Oltretutto negli
anni Ottanta non si poteva perché non rilasciavano i permessi. Io ho attraversato
il Gobi nella parte della Mongolia, per 2000 chilometri, con uno zaino, un gps
e una tanica speciale per l’acqua. In quella landa fatta soprattutto di pietre
ho sentito per la prima volta nella mia vita una specie di buio nell’anima, una
coltellata nella carne. Gli unici momenti di condivisione me li hanno dati le
popolazioni di quel deserto, nella fascia mongola. Mi hanno ospitato in modo
spontaneo nelle iurte, che sono abitazioni tipiche capaci di proteggere dal
caldo micidiale e dal freddo più rigido. Non sapevano chi fossi, eppure mi
aprivano le porte di casa loro…».
In questo suo ultimo libro
lei si è messo a nudo per la prima volta nella sua vita, confessando anche
paura, solitudine e la tentazione della disperazione perché temeva di non
vedere più i suoi cari, la sua famiglia. Come mai la solitudine in mezzo a un
deserto di pietre le è pesata molto di più di quella respirata a 8mila metri?
«Guardi, sono vecchio ormai.
Ho sentito la solitudine anche perché ero davvero solo. Non potevo parlare con
nessuno. Ho dovuto farmi bastare me stesso per lunghi tratti, il che è forse la
cosa più difficile. Ma non è questo veramente. Ciò che mi ha reso
insopportabile il Gobi è stata la coscienza dei miei limiti…».
E nella solitudine cosa si
pensa o si prova del soprannaturale? «Non abbiamo occhi per vedere né orecchie
per ascoltare altre voci che non siano le nostre. È interessante sapere che
anche Mosè ha ricevuto le tavole della Legga, il decalogo, su di una montagna a
cui tutti gli altri non potevano accedere perché gli era impedito».
La solitudine come una nuova, maledetta sorella di carne?
«Per me la solitudine è ciò che ci attende davvero dopo la vita. Dopo ci sarà soltanto buio, solitudine appunto e un silenzio assordante, tipo quello nello spazio». Oggi Messner scrive ancora con la penna? E scrive anche di qualcosa che sia paragonabile alla religione? «Io scrivo sempre a penna, sì. Sto scrivendo un libro sulle montagne sacre ed anche un altro libro che per me sarà un po’ la summa di tutte le mie esperienze. Conterrà almeno settanta valori, come l’altruismo, l’egoismo o la solitudine appunto. Li chiamo valori perché penso che siano tutti principi ontologici e tipici dell’uomo, che gli scorrono nel sangue quando viene al mondo. Nessuno glieli ha donati, li ha e basta». L’intervista è finita. È salito un vento teso ma Messner, prima di andarsene, mi sorride come se tutta la disperazione non fosse mai esistita. O forse, non è importante, perché bisogna pensare che passa.
La solitudine come una nuova, maledetta sorella di carne?
«Per me la solitudine è ciò che ci attende davvero dopo la vita. Dopo ci sarà soltanto buio, solitudine appunto e un silenzio assordante, tipo quello nello spazio». Oggi Messner scrive ancora con la penna? E scrive anche di qualcosa che sia paragonabile alla religione? «Io scrivo sempre a penna, sì. Sto scrivendo un libro sulle montagne sacre ed anche un altro libro che per me sarà un po’ la summa di tutte le mie esperienze. Conterrà almeno settanta valori, come l’altruismo, l’egoismo o la solitudine appunto. Li chiamo valori perché penso che siano tutti principi ontologici e tipici dell’uomo, che gli scorrono nel sangue quando viene al mondo. Nessuno glieli ha donati, li ha e basta». L’intervista è finita. È salito un vento teso ma Messner, prima di andarsene, mi sorride come se tutta la disperazione non fosse mai esistita. O forse, non è importante, perché bisogna pensare che passa.
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