Luciano Lanna
Quando muore un personaggio
come Giulio Andreotti, il quale prima ancora che un politico è senz’altro un’icona
dell’immaginario italiano del secondo Novecento, la cosa migliore è forse
quella di annotare qualche frammento di memoria personale più che affidarsi all’esercizio
di ricostruzioni storiche o di interpretazioni politologiche che lasciano il
tempo che trovano. Lui, unico politico italiano a avere l’onore di un grande film
metaforico, Il Divo, a lui interamente
dedicato; lui il Belzebù di tante ricostruzioni letterarie oltre che inconfondibile
icona di tante vignette indimenticabili, non è neanche minimamente paragonabile
alle figure dell’ultimo ventennio.
Del resto siamo su un blog e
non su un quotidiano, e quindi provo a scrivere quello che mi viene in mente di
getto… Intanto, io sono di Artena, un paesino laziale che sta a non più di
dieci chilometri da Segni, il centro lepino già patria di Bonifacio VIII e che
è il luogo d’origine del ramo materno della famiglia di Andreotti. Lì il Divo
trascorreva le sue vacanze estive da ragazzo e lì era un po’ il fulcro del suo
grande bacino elettorale che si estendeva anche alla Ciociaria e all’area
pontina. Andreotti era il riferimento imprescindibile del leader democristiano
artenese – oltre che sindaco in un paio di tornate – Emilio Conti, un compianto
signore espressione della politica locale che fu, anticomunista e fedelissimo
lettore quotidiano del Tempo di
Angiolillo e di Gianni Letta. Un uomo della generazione degli anni Venti, mai
antifascista, convinto della necessità di una diga moderata di fronte ai
comunisti. Mai Conti sfruttò l’amicizia con Andreotti neanche per sistemare uno
dei suoi figli o per acquisire ruoli o posti di potere. L’altro “amico” di
Andreotti della mia infanzia era don Amedeo Vitelli, un parroco artenese alla
don Camillo, mio professore di religione alle medie e sempre in tonaca, in
stile preconciliare. Ogni tanto si sapeva che Conti o don Amedeo si recavano la
mattina presto a Roma, a San Lorenzo in Lucina, per presentare alcune domande
di raccomandazione avanzate da qualche cittadino che aveva problemi. Tanti,
tantissimi artenesi trovarono così un lavoro, risolsero i loro problemi di
previdenza, ebbero il riconoscimento di qualche invalidità. Oltretutto in tempi
certi e neanche lunghi. Mi ricordo poi bene di quando – forse era il 1973 –
avevamo la necessità di un ufficio postale aggiuntivo: il paese era infatti
cresciuto nella parte bassa, mentre la vecchia posta stava nella parte
medievale, difficile da raggiungere. Ora la legge non consentiva in un centro
che allora contava poco più di 10mila abitanti un secondo ufficio postale. Non
c’era niente da fare. Tutti però poi seppero che don Amedeo era andato, una
mattina alle cinque, a Roma da Andreotti e in breve Artena ebbe l’eccezione del
secondo ufficio postale…
L’altra immagine che mi
viene alla mente è quella di un episodio nel corso della campagna elettorale
amministrativa del 1975 nella mia Artena. I democristiani fecero parlare
Andreotti, allora ministro del Bilancio. E appena il Divo concluse il suo
comizio in piazza Galilei il palco passava a quelli del Msi. Doveva parlare
Augusto D’Elia Centofanti, capolista missino in quell’occasione, un personaggio
simpatico e casareccio: era un fornaio che però trascorreva il tempo libero
cantando nelle osterie e intrattenendo gli avventori con le barzellette. Cosa
che avrebbe fatto anche in quel comizio, davanti alla Fiamma tricolore. Appena
salito sul palco D’Elia non riuscì a trattenersi e esordi: “Andreo’ non te ne
andare, resta, resta che ti faccio ridere… E ti racconto tutte le cose che fai voi democristiani…”. E
l’allora ministro, sorridendo, si trattenne e restò li dicendo ai democristiani
locali: “Simpatico questo signore, un vero personaggio…”.
Vent’anni dopo, ero già un
giornalista e venni chiamato come caporedattore di un settimanale politico, mi
chiesero un servizio sul rapporto tra laici e cattolici in politica. E io
proposi di intervistare Andreotti. Lo contattai tramite i miei amici che
lavoravano al mensile 30Giorni, che
lui dirigeva, e fu molto gentile. Oltretutto mi rispose sollecitamente per
iscritto, avanzando una visione laica della politica, di netta distinzione tra
istituzioni repubblicane e Chiesa, che mai sono riuscito a ascoltare con le
stesse argomentazioni da credenti che fanno riferimento al centrodestra e al
centrosinistra.
Il terzo incontro che ho
avuto con lui è stato nel 2004, quando coordinavo la presentazione di un suo
libro a San Felice Circeo, la località tirrenica dove Andreotti ha trascorso
quasi tutte le vacanze estive della sua vita. Gli feci omaggio di una copia di Fascisti immaginari, il libro che avevo scritto con Filippo Rossi e dove in
un paio di capitoli si parlava di lui. Andreotti mostrò di apprezzare e qualche
giorno dopo mi mandò un biglietto per dirmi che quanto aveva letto era tutto corretto,
non c’erano forzature…
A fronte di tutto questo ci
tengo a spiegare che comunque, sin dall’adolescenza ho sempre visto e pensato
l’andreottismo come un fenomeno degenerativo. Qualcosa verso cui ho provato diffidenza. Ho sempre avvertito distanti
dalla mia sensibilità la sua reticenza a parlare, la sua eccessiva diplomazia,
l’immagine del “tirare a campare” come pratica politica per eccellenza. E anche, l'almeno apparente, assenza di visioni e di "sogni". Non a
caso, Cesare Romiti, che conobbe bene Andreotti perché iniziò la sua esperienza
da manager nella Bpd di Colleferro, il paese che sta tra Segni e Artena, così
lo definisce: “Un uomo molto cinico, abile nel muoversi e nel costruirsi una
rete di conoscenze che, grazie anche alle formidabili aderenze in Vaticano, ne
hanno cementato il blocco di potere. Diciamo però che – aggiunge Romiti –
rispetto ai politici che oggi sfilano al meeting di Rimini per ingraziarsi i
favori di Cl, c’era allora una vera rete di parroci che era il miglio strumento
per il consenso…”. Un uomo che – questo va ricordato – ha però agito da premier
e da ministro in una fase estremamente difficile del nostro paese tra ricostruzione,
guerra fredda, tensioni mediterranee, scontri tra servizi segreti e offensive
della criminalità e del terrorismo che sono ormai uno scenario lontano. Di
fronte a questi scenari il suo realismo era da manuale. Già all’indomani del 25
luglio 1943, spiegava sul Popolo che
“non si poteva tornare in tutto all’antico, deprezzando ogni risultato del
ventennio trascorso e considerando i giovani come nullità, isterilite dal
regime scomparso. Errore gravissimo sarebbe: perché da una parte nessuno può
negare che dei risultati positivi anche il fascio abbia saputo raggiungere…”. E
non a caso fu proprio lui a formulare, il 7 febbraio del 1948, il decreto legge
con cui si segnava la fine dell’epurazione dei fascisti e si fissava la loro
riabilitazione, con il loro ritorno alle cariche pubbliche precedentemente
occupate nella burocrazia.
Poi, è chiaro, c’è tutto il
resto: gli scontri dentro la Dc, i sospetti su tante pagine oscure della notte
della Repubblica, l’abbraccio di Arcinazzo col generale Graziani, il suo saggio
elogiativo di Ceacescu in un opuscolo degli anni Settanta, le mani sulle
strategie dei servizi segreti, nomi come Ciarrapico, Sbardella, Lima… Ma ci sono anche, e va ricordato, la sua politica estera, sempre in equilibrio e mai schiacciata
sulla logica atlantista estrema, il fatto che sia stato lui a volere la Moschea
di Roma in nome del dialogo di civiltà, restano alcune sue parole sul bombardamento di
Montecassino, i suoi libri… Soprattutto c’è, e concludiamo, la sua grande
capacità nel saper affrontare – a differenza di qualche esponente di spicco
della cosiddetta Seconda Repubblica – le accuse e i processi cui fu sottoposto.
Con grande dignità, stile e distacco. E spirito cristiano. Non è cosa da poco.
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