Alberto Pezzini
Neanche tre anni fa, la notte del 28 maggio 2011 – allo stadio di
Wembley, uno dei templi del calcio internazionale – il Barça batteva 3 a 1 il
Manchester United nella finale di Champions League. Contrariamente a quanto si
potesse pensare, non fu una partita normale. O meglio, non fu solo la vittoria
di una squadra – composta da gente “in mutande” che corre dietro a una palla – su di un’altra. In realtà, “come dice William Gibson nel suo romanzo cyberpunk Negromante, in molti
avevano la sensazione che qualcosa si fosse spostato nel cuore delle cose”.
Era mutato di circa 360 gradi l’assetto del
calcio. Il Barça, infatti, da quella sera fece intendere di essere giunto a una
maturazione mica soltanto calcistica e stop, ma soprattutto intellettuale: come
se un giocatore di scacchi avesse finalmente sviluppato, dopo anni di geometrie
infinite, un sesto, incredibile senso in più. Il Barça, o meglio la sua filosofia, non si può sintetizzare negli
ultimi tre anni di Joseph Guardiola. La sua storia è molto più vecchia e
coincide con due fattori terribilmente determinanti.
Lo sa bene Sandro Modeo che si occupa di scienza
e calcio e per questo ha composto un amenissimo libro pubblicato dalla ISBN e
l’ha intitolato nudamente Il Barça
(pagg. 196, euro 13,90), in cui sciorina a menadito queste due facce di una
stessa storia.
La prima si chiama Cruijff, che arriverà ad
allenare la squadra, poco prima del 1975, ed importerà tra gli spagnoli, anzi
tra i catalani, lo spirito tipico degli orange, degli olandesi.
La seconda si chiama Catalogna, e identifica non soltanto una terra, ma
anche uno spirito, un insieme di costumi e – soprattutto – una anti-dentità
unica e irripetibile: essere ciò che non si vuole essere e che si combatte.
Mourinho, per esempio, il quale può venire definito come l’anti-Barcellona per
eccellenza. Non a caso
il Barça vive di questa doppia identità. È squadra a sé e nasce – forse – anche
da una dannata voglia di vendetta nei confronti del Real Madrid, la squadra dei
castigliani, di coloro che impiantarono nel centro della Spagna una capitale
nata dal nulla, Madrid. Mentre il Real era ” la squadra del dittatore militare
Franco… il Barça faceva parte della gloriosa tradizione socialista e libertaria
catalana. Avendo letto Omaggio alla
Catalogna di George Orwell e altra letteratura della guerra civile, fui
attratto dalla città e dal club. Quest’ultimo, fondato nel 1899, è diventato un
simbolo della cultura catalana – da qui il motto Mes que un club, come ben dice Irvine Welsh nella enciclopedica
post fazione. Molto di più che un club. Addirittura una scuola e una specie di
famiglia. Da questo spirito adesivo che
aleggia tra le fila e dentro gli spogliatoi della squadra blaugrana sono nati
fenomeni come Messi che restano l’esempio incarnato della filosofia del Barça
Messi arriva da una storia di depressione fisica in cui il suo corpo stava – lo
sanno tutti – prendendo una piega amara. Soffriva molto semplicemente di un
deficit di sviluppo dovuto ad una insufficienza dell’ormone GH della crescita
(somatotoprina), ossia di quella sostanza che presiede allo sviluppo del
fegato, delle ossa, delle cartilagini e dei muscoli. Aveva un quadro
fisiopatologico indubbiamente assai problematico.
La fortuna – ma sarà poi cieca oppure venata di
sottilissime coincidenze guidate – vuole che venga notato – giovanissimo,
appena dodicenne – dal DT del Barça, Carles Rexach, il quale resta folgorato
dal gioco suasivo di quel folletto diviso tra playstation e un mondo adulto che
gli si spalanca sotto le gambe, all’improvviso. Galeotto sarà un pallonetto che
Messi imbucherà nella rete di una squadra composta da ragazzi di due anni più
grandi di lui e che gli darà la spinta. Il Barça lo fa curare pagando le cure necessarie consistenti nella
somministrazione di un ormone biosintetico in grado “di surrogare il deficit di
quello naturale”. Così
nasce e si sviluppa il calciatore Messi che – veder giocare – emoziona e
commuove. Lo dice Modeo in una specie di ritratto intessuto di fuoco ed oro, in
alcune parole che sembrano risuonare in testa anche quando le pagine si
chiudono:”… si vedono condensati in lui – al massimo grado – tutti gli
esemplari della specie: tutte le farfalle che hanno rischiato di restare
congelate in crisalidi”. Quelli che ce l’hanno fatta, a dispetto di un destino
storto come le loro gambe, fatte d’aria e di magia.
Ma Messi significa anche la vittoria di una
precisa filosofia societaria: ”Messi (come diceva Buckingham di Cruijff) è un
dono di Dio all’umanità, calcisticamente parlando”. Però, senza quel viaggio
alla “fattoria” (che chiamano cantera),
probabilmente – si inclina Modeo e non ha torto – anche il suo sogno si sarebbe
infranto al mattino e sarebbe rimasto puro oro in polvere, mica zecchino.
Quest’ultimo – non dimentichiamolo – è proprio quello delle fiabe ma, a
differenza dei sogni, non evapora. Il tiki-taka dei blaugrana, quel ritmo
forsennato e artistico che hanno i loro scambi geometrici sempre diversi, nasce
però da un preciso modulo:nessuno è indispensabile se non agli altri. Ecco
perché Messi corre come un cavallo e lo puoi vedere dappertutto, come i suoi
compagni. Messi è ciò che riluce in forma identitaria ma il Barça non è Messi.
Il Barça è un gioco che deve sempre essere collettivo. È la squadra a vincere.
E mai l’individuo soltanto. Tutto qui.
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