sabato 29 giugno 2013

Invito alla lettura di Scott Turow


Alberto Pezzini

Tutti pensiamo che il legal thriller sia il figlio dei romanzi di John Grisham. Ammettetelo. Gianrico Carofiglio – che con l'avvocato Guido Guerrieri – ha praticamente innestato in Italia ciò che negli Stati Uniti è un genere ben preciso, è considerato anche lui un figlio di Grisham. Il socio viene di solito indicato come il padre di tutti i romanzi che hanno come sfondo gli studi legali e le battaglie furenti in tribunale, o davanti ad una giuria popolare. Niente di più sbagliato. La nostra memoria tende a fallire nei ricordi, soprattutto anche davanti a prove letterarie che in qualche modo l’avevano incisa in profondità.
Il vero progenitore delle lotte forensi su carta stampata resta Scott Turow e il suo Presunto innocente. L’aveva scritto sul treno dei pendolari che lo portava – tutti i giorni – a lavorare come avvocato a Chicago. In America il libro esce nel 1987, in Italia nel 1991 ed è pubblicato per Mondadori. Me lo ricordo bene, quel libro. Narra di un pubblico ministero che viene incriminato per aver ucciso la propria amante. Si scoprirà poi che il vero assassino è sua moglie, una professoressa di matematica fredda e razionale come un rasoio o come l’algebra.
Quel romanzo fu ed incarnò una rivoluzione copernicana a tutti gli effetti. Forse fece più danni de Il buio oltre la siepe di Harper Lee, anche perchè portò sulla carta la vita dell'aula di giustizia, vista da chi la conosceva molto bene e in modo fedele. Il thriller aggiunse pimento alla storia giudiziaria e le diede uno slancio straordinario, come se si trattasse di una corsa di Ribot.
Da allora Turow diventò uno scrittore famoso, stracelebrato, tanto che nel 1999 la rivista Time – per dirne una – celebrò il suo nuovo libro, Lesioni personali, come il miglior romanzo dell'anno.
Ma il più tosto resta Presunto innocente, tanto che se ne fece anche un film, dove Rusty, il procuratore incriminato, veniva interpretato da un Harrison Ford tutto sale e pepe e giustamente incazzato come un puma se gli sparano ad una zampotta. Scott – che ha origini italiane – si è laureato ad Harvard, facoltà di legge con la lode – non capite cosa sia se non leggete un suo saggio specifico sul tema e su questa esperienza di vita, Harvard Facoltà di Legge (sempre per Mondadori, 1995), mentre era uscito negli States con il titolo di One L nel 1977.
È un libro da rileggere cinquanta volte nella vita, per chi fa l’avvocato almeno cento. Fare gli avvocati vuol dire questo, infatti:non avere mai tempo e quel poco che si ha bisogna travasarlo nel diritto, nelle sentenze che si moltiplicano anche quando dormi, e il sonno non basta mai. Come fare il militare ma in un corpo speciale.


Il segreto di Turow sta nel fatto che sa scrivere bene. E, per un avvocato, che come handicap principale ha quello di farsi capire dai giudici ai quali bisogna presentare ogni giorno tesi persuasive per chiarezza e sintesi, è praticamente tutto. Cercatevi questi libri, se non li avete mai letti. Poi mi direte cosa ne pensate di Ghrisham. Di quest'ultimo il suo libro migliore è Il momento di uccidere e non Il socio. Tanto per essere chiari.

giovedì 27 giugno 2013

Omaggio all'ultimo playboy e all'altro Sessantotto

Marco Iacona
Forse la bellezza non salverà il mondo come diceva Dostoevskij, magari però riuscirà a farci capire meglio e di più. Ho appena letto, ripubblicata su il Giornale, l’introduzione di Massimo Fini al bel libro autobiografico Io, BB e l’altro ’68 (Carte Scoperte) di Gigi Rizzi, morto quattro giorni fa a Saint Tropez dopo aver festeggiato il suo sessantanovesimo compleanno. Non male, mi permetto di dire da appassionato-curioso della storia di quegli anni. Delle centinaia di interpretazioni legate al Sessantotto, Massimo Fini ne sposa un precisa ma non originale. Il Sessantotto, inteso come anno, è la fine di un periodo di spensieratezza legato al boom economico: la fine degli anni Sessanta appunto. La breve storia d’amore tra Gigi Rizzi, romantico playboy nostrano dai facili successi, e Brigitte Bardot donna bellissima e icona dei tempi moderni, segna il limite di un’avventura nella quale si tuffò una parte di mondo che si lasciava alle spalle non tanto le penurie, quanto le rigidezze del dopoguerra. 
E non ha torto Massimo Fini, pensate all’immensa provincia italiana, ancora dimessa, legata a valori e uomini ottocenteschi, uscita ideologicamente e materialmente dal fascismo ma legata a costumi vecchi, superati. Quando in pieno boom esce La dolce vita di Federico Fellini o gli studenti cominciano a parlare del grande successo di On the Road di Kerouac l’Italia si è appena rimessa in piedi. È lì che nasce (giustamente!) una certa idea di elite intellettuale, che si affianca e sostituisce a quella dell’immediato dopoguerra, ancora in emergenza. Sarà la cultura francese che seleziona il meglio di quella mondiale, è sempre stato così, a rilasciare i veri attestati di idoneità. Li c’è il nuovo cinema, c’è Sartre, ci sarà il “vero” Sessantotto, ci sono scrittori e artisti décadents, c’è il jazz e c’era stata la Beat generation.
Lì nei primi decenni del secolo – lo ha ricordato qualche anno fa Woody Allen – si ritrovò il meglio dell’intelligenza del pianeta; lì tanti anni dopo morirà Maria Callas, la più grande cantante del Novecento (lo ha ricordato anni fa un altro grande regista, sovente messo da parte: Franco Zeffirelli). Lì la tua vita può cambiare davvero. Difficile dire, con sincerità, se nella mente di Rizzi e degli altri giovani che frequentavano la Costa Azzurra albergasse questo tipo d’amore. Di sicuro c’erano le donne. E per le donne c’erano gli uomini come ha testimoniato Elsa Martinelli amica della Bardot. “Questo qui me lo farei”, confessò più o meno così la Bardot alla Martinelli dopo aver conosciuto Rizzi. Detto e fatto. L’italiano medio, tifoso e provinciale, giudicherà la storia tra i due come un affare di stato. Come una conquista nazionale. E che conquista! Sarà il momentaneo ritorno della Gioconda al di qua delle mura di casa. La restituzione delle terre di confine a nord-ovest, la definitiva italianizzazione di Napoleone. Sarà l’editoriale che non ti aspetti da un quotidiano francese su Modigliani e Marinetti. La Francia è la Francia (cioè: Parigi è Parigi), ma l’Italia sono gli Italiani ha spiegato Allen nei suoi ultimi film a un pubblico internazionale. Pittoreschi, emotivi, romanticoni e con in testa il vizio dell’assurdo Così, quando loro ce la mettono tutta, crollano perfino le barriere nazionali.«I Sessanta si sono creduti molto peccaminosi e trasgressivi», aggiunge Fini, «Furono invece anni molto solari e sostanzialmente innocenti». È un’affermazione interessante, coerente con un’impostazione storica colpevolizzante verso i Settanta. È certo tuttavia che i Sessanta furono tante cose. Furono quella cerniera che legò un mondo abitato da uomini che cercavano la felicità nella concretezza e nella certezza di un focolare domestico e di un lavoro onesto, a un mondo dove divertimento, trasgressione (qualunque cosa potesse significare) e anticonformismo (idem) porranno le fondamenta per la costruzione di universi paralleli. Dove la “vera” vita sarà sempre e solo un’altra. Ed è certamente vero che il tempo trasformerà i modi istintivi di protesta contro un pianeta abitato nello stesso momento da uomini e “dinosauri” (poetico, quasi commovente, il dialogo tra luigi Lo Cascio, giovane studente, e il docente universitario nel periodo della contestazione nel film La meglio gioventù di Marco Tullio Giordana), in tentativi sempre più maliziosi e violenti di lotta, di reazione alla lotta e di manovre per sovvertire l’ordine costituito. A cominciare da Piazza Fontana che è del 1969, per non dimenticare i morti di Avola e la successiva contestazione orchestrata da Mario Capanna per la prima della Scala, il 7 dicembre 1968. Per la cronaca andava in scena il Don Carlos di Verdi diretto da Claudio Abbado, il grande direttore milanese che proprio ieri ha compiuto ottant’anni.E non dimentichiamo, poi, quelli che oggi sono fenomeni diffusissimi. Le cosiddette spiritualità alternative (o semplicemente l’amore per le culture non occidentali) e purtroppo l’uso diffuso delle droghe. Entrambi fenomeni nati negli anni Sessanta. E con essi l’idea del sesso libero con annessi e connessi: in primo luogo ciò che Julius Evola per primo chiamò la banalizzazione del sesso. Ci scrisse pure il migliore dei suoi libri, Metafisica del sesso, valorizzato dall’accademico controcorrente Franco Volpi; in secondo luogo l’idea che il sesso fosse quasi esclusivamente consumo – consumo di libertà – e dunque legato a regole che ne tradissero per così dire l’essenza. Basterebbe anche andarsi a rileggere certe cronache reazionarie della stampa di destra, se si vogliono prendere per buone, per comprendere quale fosse la posta in gioco. Intendiamoci: c’erano delle esagerazioni e c’era il rifiuto da parte di certa stampa di comprendere quel mondo dei giovani che per la prima volta si manifestava con forza e passione. Rifiuto che era soprattutto della politica e di ambienti eccessivamente rigidi. Quando nel giugno 1965 i Beatles vennero in Italia, la stampa prese di mira oltre il gruppo – ne venne sottolineato lo scarso talento! – anche l’intelligenza dei fan. Poca, secondo certi ambienti bacchettoni e regressivi. Le mode beat e yè yè erano roba per folle di arrabbiati senza un vero perché, e gli artisti meteore prive di reale amore per l’arte. Evidentemente si ignorava un “nuovo mondo” che era parecchio avanti, ma si ignoravano anche gli obiettivi legami tra quel mondo dei e per i giovani e le manifestazioni avanguardistiche di molti decenni prima. Cabaret, serate improvvisate, mostre a effetto sorpresa e manifestazioni estemporanee con proteste, tafferugli e autentiche piccole battaglie. C’era la speranza di un mondo diverso, migliore, nei Sessanta così come nei Dieci. Mata Hari danzò nuda sotto il naso di Marinetti (che scrisse anche di un fallo lungo undici metri: numero magico!), nella Factory del re dei Sessanta Andy Warhol (che ritrasse la nostra BB), ne accaddero di cotte e di crude. Differenze senza pregiudizi? Due guerre mondiali e tanta cura per l’immagine. Saremo tutti spettatori di qualcosa: ogni esibizione assumerà dimensioni sempre più grandi. Molto più esagerate saranno infine le reazioni di fan e detrattori.

martedì 25 giugno 2013

Le radici della protesta brasiliana che fa vacillare il potere di Dilma Rousseff





Vincenzo Fratta

Quando festeggiava l'assegnazione al Brasile dei Campionati del Mondo di Calcio del 2014 la presidente Dilma Rousseff invitava la popolazione del globo a partecipare a quella che sarebbe stata la migliore edizione del torneo, ma non poteva certo immaginare che la prova generale costituita dalla Confederation Cup 2013 si sarebbe trasformata nella più grande rivolta popolare che il paese tropicale si trova ad affrontare negli ultimi trenta anni.
Di fronte al presidente della Fifa Blatter e ai notabili calcistici del mondo intero, l'erede di Lula aveva preannunciato un Brasile ben organizzato, con tutte le infrastrutture necessarie, dotato di un efficiente sistema dei trasporti, di tecnologie di comunicazione avanzate, e di molta sicurezza.
Proprio a causa dell'aumento del prezzo dei trasporti pubblici urbani è scoppiata la scintilla che si è rapidamente estesa alle principali città del paese coinvolgendo milioni di brasiliani, mettendo alle corde i sindaci e minacciando la tenuta dello stesso governo federale.
La protesta ha avuto inizio il 17 giugno a San Paolo quando il Movimento Passe Livre, uno dei molteplici comitati della sinistra radical, coccolati e spesso sostenuti dal partito dei lavoratori al governo, ha indetto un corteo sulla Avenida Paulista, che per la piú grande metropoli del Sud America riveste un valore simbolico analogo a quello della V Strada per New York, per protestare contro l'aumento del biglietto che passava da 2,90 a 3,10 reais, ossia da 0,90 a 1,05 euro. Un incremento più rilevante di quanto possa sembrare ad un osservatore straniero in considerazione del minore livello dei salari, della conseguente maggiore diffusione del mezzo pubblico e della sua diretta incidenza sulle tasche dei ceti piú poveri. Il possesso del mezzo privato e comunque la possibilità del suo uso quotidiano riguarda infatti ancora una minoranza più abbiente del popolo brasiliano, il quale, gioco forza utilizza autobus e metropolitane, il cui servizio, per la medesima ragione, non è per nulla scadente come erroneamente si è letto nei reportage dal Brasile di alcuni giornali italiani. A questi due fattori alcuni commentatori ne hanno aggiunto un terzo, di carattere psicologico. In un paese dove si compra tutto a rate, dalla spesa al supermercato ai fiori da mandare per il giorno degli innamorati, il biglietto dell'autobus è praticamente l'unica cosa che si paga «a vista», ossia in contanti.
Ma il corteo contro il caro-autobus, come abbiamo detto, è stato solo la scintilla, come è stato chiaro a tutti il 20 giugno, quando a Rio, Brasilia, Belo Horizonte e nelle altre principali città del Brasile, più di un milione di persone sono scese in piazza contemporaneamente. 
La protesta ha presto portato in luce i principali handicap del Brasile odierno, ossia il bassissimo livello dell'istruzione e della sanità pubblica, la critica degli alti costi delle infrastrutture per Mondiali e Olimpiadi, la denuncia della corruzione dei politici di Brasilia. Il rapido dietrofront concordato tra i sindaci delle maggiori città per l'annullamento degli aumenti delle tariffe del trasporto pubblico non è servito a interrompere i cortei che sono proseguiti in concomitanza che le partite della Confederation Cup. Piccole manifestazioni di solidarietá sono state indette dalle comunitá brasiliane all'estero in molte cittá europee fra le quali Roma. La massiccia partecipazione popolare ha prima fatto sparire Passe Livre e poi impedito che partiti politici di sinistra o di destra si attribuissero la paternità di quella che può essere definita come una vera e propria ribellione di massa. Vietato l'ingresso alle bandiere rosse, l'unico vessillo sventolato dai manifestanti è la bandiera nazionale verde-oro, la stessa che continua ad essere sventolata negli stadi durante le partite della Confederation Cup. 
E' altrettanto chiaro che la Coppa fornisce soltanto la ribalta mondiale in grado di amplificare la protesta popolare e mettere alle corde il governo federale. Il calcio non è in discussione e resta sempre nel cuore dei brasiliani. Lo ha capito subito il «fenomeno» odierno Neymar, che si è subito schierato con i manifestanti dedicando loro i gol segnati nelle prime partite della competizione. Non lo ha compreso il «fenomeno» di ieri Ronaldo che si è visto subissare dagli insulti per aver incautamente affermato che dovendo ospitare i mondiali al Brasile servivano gli stadi piú degli ospedali. Mentre lo stesso Pelé, che senza negare i gravi problemi che il paese si trova davanti, aveva invitato i manifestanti ad una «tregua», è stato costretto a correggere il tiro dichiarandosi favorevole alle ragioni della protesta.
Sabato 22 giugno la presidente Dilma Rousseff dopo giorni di incertezza, e dopo che nelle strade erano comparsi i primi cartelli che la invitavano alle dimissioni, ha rotto gli indugi e con un discorso televisivo alla nazione di 9 minuti ha cercato di ridimensionare le spese per gli impianti sportivi e ha garantito un impegno prioritario sulla sanitá e la scuola.
Basteranno le sue promesse per allentare le tensioni nelle strade e per abbassare i riflettori del mondo sul Brasile, oppure la ribellione continuerà, finendo per mettere in discussione la stessa permanenza della Rousseff alla guida del paese?
Nel 2014 oltre ai Mondiali ci saranno anche le elezioni presidenziali. Un ulteriore appannamento della figura della Rousseff aprirebbe nuovi scenari: dal possibile ritorno di Lula, al rilancio delle chanche presidenziali dell'ex ministro dell'ambiente Marina Silva, fino alle ipotizzabili ricandidature dei governatori paulisti di centro-destra.
Intanto mercoledì 26 il Brasile affronta l'Uruguay in semifinale. La seleção è obbligata a vincere affinché gli incubi del passato non si saldino alle difficoltà del presente...


Un giovane regista brasiliana di 23 anni, Carla Dauden, con un video di sei minuti in inglese, sottotitolato in portoghese, preparato in vista della Confederation Cup, aveva anticipato i principali temi delle proteste popolari: 


Il 21 giugno di fronte al Colosseo un gruppo di brasiliani residenti a Roma si è riunito per esprimere il proprio sostegno alle proteste in corso nelle principali città del paese tropicale:

venerdì 21 giugno 2013

Stoker: il vampirismo come metafora


Federico Magi

Abbandonati dopo tre film violenti, scioccanti e perversamente affascinanti i sentieri dell’irrinunciabile vendetta, e dopo Thirst, inconsueto thriller sentimentale e vampiresco tratto liberamente da Zola, l’ispirato regista sudcoreano Park Chan-wook si trasferisce artisticamente nella landa hollywoodiana per immaginare il suo primo film (teoricamente) mainstream. Grazie a una interessante sceneggiatura di Wentworth Miller ecco che viene fuori Stoker, thriller psicologico dalle venature orrorifiche e omaggio indiretto, ma dal titolo quanto mai emblematico, al capolavoro gotico Dracula, scritto come noto (fuori dall’ambito letterario anche grazie al film di Francis Ford Coppola, relativamente recente) dallo scrittore irlandese Bram Stoker. Ancora una volta Park Chan-wook sceglie di avere a che fare coi vampiri? Sarà forse un nuovo debito di sangue, verso il suo pubblico? Niente Grand Guignol e un ancor meno consueto omaggio a suggestioni dai denti aguzzi, perché se non i vampiri classici, il vampirismo inteso come tara ereditaria, come forma di disadattamento e male esistenziale c’entra eccome nella nuova sorprendente opera del regista sudcoreano. C’entra come c’entra poco il sangue esibito, sempre importante come elemento simbolico ma celato sovente alla vista fuori dalla spirale dell’odio e della vendetta delle opere precedenti.
Di là dal contesto ospitante e dal genere, Stoker è più che altro una storia di formazione, certo inusuale, tenebrosa e dai risvolti inquietanti, che vede protagonista una ragazza appena diciottenne, in un contesto extra cittadino ma alto borghese, la quale prende progressivamente piena coscienza di sé e del suo tormentato mondo interiore. Fino a conoscersi, comprendersi, accettarsi e scegliere la libertà. Anche se, ciò che scoprirà sarà agghiacciante. Protagonista della vicenda è India Stoker (Mia Wasikowska), ragazza eccentrica e solitaria, alla quale, proprio nel giorno del suo diciottesimo compleanno, arriva la terribile notizia della morte del padre in un incidente d’auto dai risvolti poco chiari. Unica figlia di una famiglia facoltosa, India aveva un rapporto privilegiato col padre (Dermot Mulroney), con il quale si allontanava intere giornate per andare a caccia. La madre (Nicole Kidman) è sempre stata esclusa da questo intenso rapporto a due, tanto da distaccarsi affettivamente sia dal marito che dalla figlia. Il giorno del funerale, spunta praticamente dal nulla lo zio (Matthew Goode) di India, fratello del papà, il quale sembra attratto in modo morboso dalla ragazza. Di lui si sa poco o nulla, se non che ha viaggiato ininterrottamente per lavoro in giro per il mondo. Lo zio si trasferisce in casa Stoker, e India comincia a provare sensazioni ambivalenti verso di lui, che la spingono a superare alcuni timori adolescenziali per provare in qualche modo a sbocciare e diventare adulta. Ma l’uomo porta con sé un segreto terrificante, che svelerà anche la natura della ragazza la quale, una volta compresi gli eventi e accettati i mutamenti improvvisi della sua vita recente, sceglierà di assecondare la propria oscura alterità decidendo di affrontare e vincere i suoi stessi fantasmi. Fino all’epilogo, sanguinoso e inatteso. 


Parabola iniziatica dalle tinte nerissime, Stoker è un film riuscito e piacevolmente sorprendente, sia nella struttura a pathos crescente che nella messa in scena raffinata ed elegante. Lontano dalle ossessioni di casa, Park Chan-wook dimostra tutta la sua duttilità registica, costruendo un thriller dalle suggestioni hitchcockiane ma dai risvolti orrorifici e metafisici, in cui la forma conta quanto la sostanza se analizziamo una struttura dai ritmi sapientemente compassati nella prima parte, cui fanno seguito una serie di colpi di scena dosati peraltro con inconsueta misura (a chi è rimasto nella memoria il trittico in cui centrale è il bellissimo e doloroso Old Boy), sia stilistica che narrativa. Molto è dovuto alla convincente e originale sceneggiatura, ma il regista coreano ci mette del suo per valorizzare un ingresso nel cinema totalmente internazionalizzato che decide di puntare più sui contenuti che sullo spettacolo fine a sé stesso. Park Chan-wook asseconda e poi amplifica una storia tendenzialmente intimista con scelte tecnico-artistiche di notevole fattura, attraverso una regia che ha studiato il thriller classico ma che decide di farne propria la componente prettamente emotiva, grazie a movimenti di macchina che scelgono di mostrarci i primi piani dei volti da angolature stranianti che privilegiano l’inquietudine, e utilizzando la scenografia dal gusto retrò facendo leva su luci e colori che fanno convintamente il verso ai grandi gotici del secolo scorso. La riuscita dell’opera è affidata anche alla brillante prova della protagonista, la giovane attrice australiana Mia Wasikowska, già apprezzata - tra i tanti film a cui ha preso parte nell’ultimo triennio - nei panni dell’Alice di Tim Burton, e ne L’amore che resta che resta di Gus Van Sant, che ruba decisamente la scena (anche esteticamente, nonostante il curioso, datato e castigatissimo abbigliamento) sia a una Kidman oramai fin troppo deformata dalla troppa chirurgia estetica cui s’è sottoposta, sia al co-protagonista Matthew Goode, che asseconda il ruolo dello zio misterioso con sufficiente disinvoltura ma senza entrare nell’immaginario dei “cattivi da ricordare”.

Come in Thirst, il vampirismo è ancora una volta un pretesto per parlare d’altro nelle intenzioni di Park-Chan-wook, che diluisce fino quasi ad astrarre totalmente l’idea classica del vampiro che proprio Stoker aveva ideato, per invece avvicinare, guarda caso, colui che un vampirismo atipico lo aveva scelto per immaginare una nuova variazione sui sentieri dell’horror a sfondo politico-sociale. Stiamo parlando di George A. Romero e del suo forse dimenticato gioiellino di genere Wampyr, divenuto poi Martin nella versione director’s cut, cui non per trama ma per suggestioni è avvicinabile questo Stoker, nel quale proprio come nel film romeriano il vampiro non succhia il sangue ma è un malato, un disadattato, un emarginato, qualcuno destinato alla solitudine e ad assecondare la propria nefasta natura per essere libero in un mondo che non può includerlo ne tanto meno comprenderlo. E proprio il personaggio di India, che in qualche modo avvicina anche la Sissy Spacek/Carrie protagonista di un grande horror generazionale dai risvolti psicologici e sociologici come Carrie, lo sguardo di Satana, diretto da Brian De Palma e tratto da un romanzo di Stephen King, condivide con Martin (e con la stessa Carrie, pur non vampira) questo senso assoluto di estraneità rispetto ad un mondo che Park Chan-wook sceglie di allontanare dalla sua protagonista per donarle – al contrario dello stesso Martin che finirà ucciso – una possibilità di autodeterminazione tanto improbabile quanto comunque possibile. Guardandola sostanzialmente da un piano simmetrico, scegliendo di non giudicare.

Oltre sinistra, centro e destra: culmine, crisi e risoluzione


Pier Paolo Segneri
La discussione e il dialogo sono il sale della politica. Anche l’avvento dei blog e dei social network hanno senso se aiutano il dibattito e facilitano la possibilità di incontrarsi, dialogare, contraddire e contraddirsi. È per questo motivo che, in una società liberale e aperta, tesi e antitesi non fanno per forza sintesi, ma è necessario – invece – che conducano alla formazione di metodi capaci di creare i presupposti per una convivenza anche tra idee diverse, anche tra identità storico-culturali diverse. Insomma, il Novecento è finito da tempo.  La destra, il centro e la sinistra sono, ormai, da almeno 20 anni, categorie storiche consegnate agli storici. Certo, si tratta di concetti ancora indispensabili per leggere il passato degli ultimi due secoli, ma credo che non siano più parole adatte per comprendere e definire il nostro presente. Infatti, la complessità dell’oggi e, forse ancor di più, del nostro futuro, ci spinge ad andare oltre le vecchie posizioni e i superati schematismi ideologici. A tal proposito, ho trovato assai stimolante, tra i tanti articoli – molto interessanti – pubblicati su questo blog, l'intervento di domenica 2 giugno 2013, scritto da Luciano Lanna, e intitolato: “Quelli che con la destra (e la sinistra) l’hanno fatta finita da tempo…”.
Suggerisco a tutti di leggerlo e, per chi lo avesse già fatto, invito a rileggerlo. Tra le numerose riflessioni che si potrebbero fare sui tanti punti toccati e sviluppati nell'articolo, vorrei aggiungere un elemento che ritengo rivoluzionario e ineludibile perché armonico e riformatore. Insomma, sempre in linea con quanto affrontato da Lanna nel suo argomentato intervento, credo sia preliminare e necessario superare il vecchio schema di tesi, antitesi e sintesi, che ha fin qui caratterizzato la cultura politica, per aprirsi finalmente al futuro. Non a caso, proprio su questo punto, già nel 2008, ormai oltre cinque anni fa, nel mio libro Il nuovo possibile, edito da Portaparole, indicavo un’altra chiave di lettura che, attraverso tre elementi narrativi, permetterebbe una più costruttiva interpretazione della nostra realtà politica, in modo tale da non cadere negli ideologismi, nei dogmatismi o nei conflitti pregiudiziali. Mi riferisco a “culmine, crisi e risoluzione”. Ripeto: culmine, crisi e risoluzione. Proprio per superare la vecchia struttura ideologica basata su “tesi, antitesi e sintesi”. Avremo modo di approfondire la questione in un altro articolo e di spiegarla meglio. Quello che interessa, al momento, è cercare di cogliere la portata innovativa di una diversa e possibile chiave di lettura per affrontare, in modo condiviso e partecipato, liberale e libertario, la realtà politica che ci circonda e coglierne la forza per una “rivoluzione armonica”.

giovedì 20 giugno 2013

E per la prossima maturità facciamo il tifo per il tema su Pennacchi




Annalisa Terranova

Non aveva torto quel tizio che ha scritto su twitter che Claudio Magris è diventato famoso solo grazie alla maturità 2013 e grazie ai tanti studenti che ha fatto bestemmiare. Gli studenti di Magris non sanno nulla, e questo è un fatto. Gli amici di mio figlio impegnati nell’esame di maturità confermano. Quasi tutti hanno fatto il tema sull’omicidio politico. Ne ricavo che la storia, per loro, è un bene-rifugio, perché almeno hanno una griglia per interpretarla, cioè i tanto discussi manuali scolastici. La letteratura, invece, soprattutto se ti è ignota, è un viaggio su terreni sconosciuti. E alla maturità, forse, i diciottenni non vogliono dimostrare di essere colti e informati ma vogliono conferme rispetto a un curriculum di studi sperimentato e digerito. Ne ricavo pure che parlarne con i diciottenni è più istruttivo che parlarne tra quaranta-cinquantenni, il cui bagaglio di saperi è del tutto differente, così come la visione dell’esame di maturità, che per loro è il primo esame importante, per noi è la memoria del primo esame importante.
Vedo poi, dai giornali, che l’esercizio del commento al tema di maturità è un vezzo giornalistico radicato e che le tracce vengono giudicate buone o superficiali o scontate o avveniristiche a seconda di ciò che dicono opinionisti che non stanno da decenni tra i banchi. E però hanno anche ragione questi opinionisti, perché le tracce scelte sono un riflesso, un segno, di come si evolve la mentalità contemporanea.

E nel caso specifico questi segni ci dicono di una tendenza ad andare al di là dei codici esegetici dei manuali (anche se Magris in alcune antologie ci sta, e ci sta da tempo) mettendo alla prova la capacità di chi fa il tema di allontanarsi dalla didattica convenzionale per dimostrare quanto gli studenti siano figli del loro tempo. Gli amici di mio figlio direbbero che queste sono solo “cazzate”. Per loro l’universo della maturità è tutto racchiuso nella polarità “facile-difficile”. E le tracce, hanno ragione loro, erano difficili. Viene anche in mente la polemica innescata dall’ex ministro della Pubblica istruzione Luigi Berlinguer che voleva valorizzare il Novecento, e forse aveva ragione, a dispetto di tanti censori, anche e soprattutto di destra, che videro nella sua proposta il tentativo di perpetuare l’egemonia culturale marxista. Ma non siamo più nel Novecento. E se contemporaneità dev’essere, allora speriamo che l’anno prossimo scelgano come autore del tema di italiano Antonio Pennacchi (anche lui Premio Strega come Magris) non solo perché il suo libro Canale Mussolini è bello ma perché si presta a tante interpretazioni che meritano di essere valutate come prova di maturità. Perché lì non c’è solo revisionismo storiografico (come in un “semplice” tema sulle foibe), lì c’è un soggetto corale che fabbrica storia e civiltà, ci sono pagine ignorate (altro che il delitto Moro… del quale ancora sappiamo troppo poco), c’è uno stile di scrittura personalissimo, c’è l’idea di fondo che gli “umili”, con la loro fatica e la loro tenacia, vincono su un destino avverso, c’è il coraggio degli italiani, c’è l’elemento primigenio dell’acqua che si ritira dinanzi al dominio dell’homo faber. Prima o poi accadrà, e leggeremo altri commenti e altri editoriali e gli studenti si lamenteranno e malediranno. 



E intanto la maturità continuerà a ripetersi come rito identitco a se stesso, in cui ciascuno mette la sua ossessione del momento, in cui ciascuno porta la sua dose di originalità perché resti nell’album dei ricordi il carattere speciale dell’evento. Io, da fascistella presuntuosa, volli sfidare la docente di italiano della commissione che a tutti faceva come ultima domanda: “Chi è l’autore del cattivo gusto, del superomismo pacchiano, che diceva di avere letto Nietzsche e invece pensava a farsi mantenere dalle donne?”. E tutti rispondevano compiacendola: “Gabriele D’Annunzio”. E io le portai invece una tesina proprio su D’Annunzio e tenni il punto durante il colloquio orale sostenendo che era il mio autore preferito. Così, per farle dispetto. E quella fu la mia prova. Con i miei compagni di classe tutti dietro a fare il tifo, a guardare come se la sarebbe cavata la “fascistella” che non capivano e che poco apprezzavano. Io mi ricordo di questo. Il resto è stato tutto inghiottito. Anche l’autore che scelsero quell’anno (1981) per il tema. Perché ognuno si crede e si giudica maturo quando si misura nel proprio Campo di Marte immaginario. 

Cronaca di famiglia nell’Italia degli anni Settanta


Alberto Pezzini
Ostuni è famosa in tutto il mondo per la spiaggia. Bianca come neve, magnifica. Una specie di donna eburnea del mare. Sarà per questo che il primo romanzo di Tilde Pomes (Amore scarno, Manni editore, pp. 191, euro 16,00) è stato ambientato in una terra così singolare. La storia è cattiva. Sara è una ragazza con un rapporto problematico con il padre, l’esempio dell’uomo in puro stile anni Sessanta: violento, donnaiolo, con un concetto della famiglia che si avvicina al gineceo musulmano, dove la donna è una cosa che non ha diritto di voto. L’unica sua libertà è il silenzio, dove può immaginare di essere libera e con un presente meno truce. La scaletta è quella che tante famiglie italiane hanno conosciuto, ancora nei Settanta, sempre velata da una patina di perbenismo. Davanti è una famiglia del Mulino Bianco, dietro covano passioni malate, vere risse domestiche, interessi che fanno saltare gli equilibri, inghippi amorosi con le domestiche.
Su tutto campeggia un palazzo nobiliare,preda di appetiti ereditari che si fa fatica a controllare. Una moglie egoista e soddisfatta dalla roba lascia andare a puttane gli equilibri familiari, facendo finta di non vedere certi amori del marito che se la fa con la ragazza assunta in casa. La Puglia di quegli anni, a cavallo di cantanti come Domenico Modugno e presentatori che facevano neri i bar di gente come Mike Bongiorno, fa da sfondo. Come un mare di notte. La senti in tutto, anche se non la vedi, ma ne percepisci un profumo violento, che stordisce come la risacca contro gli scogli. Tilde Pomes si occupa di problematiche legate alla scuola ed alla famiglia, che conosce bene. Tant’è che il libro è un vero e proprio affresco di cosa possa accadere dentro i meccanismi familiari, quando esplodono. Il suo è però un libro che sa far venire fuori dagli schemi l’Italia degli anni Settanta, quella in cui il marito era ancora un autentico padrone.
Se si può pensare ad una specie di luogo comune per cui ciò accadeva soltanto in Meridione, dove il sole ed il caldo fanno divampare le passioni, sappiate che siete sulla strada sbagliata. Tilde Pomes ha letto Freud e la Fallaci e quindi la sua visione – per quanto legata al territorio che meglio conosce perché le scorre nelle vene e nei polsi – è molto più universale, legata all’italiano medio. Il suo è un romanzo psicologico, dove le passioni sono elencate nel loro divenire ma sono quelle tipiche della famiglia italiana.Già Piero Chiara ne aveva fatto fortuna, ma prima ancora era stato Francois Mauriac il vero sdoganatore di un genere così, in cui la famiglia è il vero problema dell’uomo contemporaneo. E il nucleo raccontato dalla Pomes non è né la Famiglia Benvenuti né quello della fiction Raccontami...Pensate che la Pomes è forse una delle poche donne con il coraggio di squarciare il velo. Se Gide aveva urlato in faccia alle famiglie quel terribile grido “Famiglie, Vi odio!” che ancora oggi fa rabbrividire, alla Pomes va il merito di avere svelato – senza troppi psicologismi – una realtà familiare che anche certe donne hanno contribuito a non intaccare. Quella del perbenismo a tutti costi. I personaggi del suo romanzo sono maschere universali, tanto più vere perché ci toccano tutti da vicino.

Per Claudio (Rocchi)



Francesco Pullia

Agli inizi degli anni Settanta vivevo in pieno l’inquietudine dell’adolescenza. Di radio e televisioni libere allora non c’era traccia. Si leggeva molto, con gli amici s’intavolano animate discussioni, si ascoltavano Bob Dylan, i Doors, il flauto di Jan Anderson, gli Who, i Led Zeppelin, i Cream, i Traffic, gli Yes, i Genesis di Peter Gabriel, i Gentle Giant. Avevo una predilezione particolare per l’intimismo di Cat Stevens, Nick Drake, Bruce Cockburn e per la West Coast dei Jefferson Airplane, dei Grateful Dead, di Joni Mitchell e, soprattutto, dei mitici Crosby, Stills, Nash e Young.
Ovunque, nel bene e nel male, era tangibile un fermento post-sessantottesco. Si respirava aria di novità, sia a livello di idee che di comportamenti e/o stili di vita. Sembrava che il mondo, da un momento all’altro, dovesse cambiare. Erano anni infarciti di troppa ideologia è vero, ma anche particolarmente vivaci, stimolanti. Mi nutrivo di poesia (Coleridge, Blake, Vernon Watkins e poi Rimbaud e i padri della beat generation, Allen Ginsberg e Jack Kerouac in testa) e cominciavo a volgermi all’India (adoravo Tagore) e, in generale, all’Oriente. Acquistavo in libreria ciò che riuscivo a trovare sul buddhismo e sul taoismo (D.T.Suzuki e Alan Watts), restando colpito dalla radicalità di Jiddu Krishnamurti. Accendevo in camera i primi bastoncini d’incenso e, destando forte perplessità nei miei, avevo incorniciato un Ganesh danzante accanto al topolino Mushika.
La mia discoteca, in tempi in cui non si parlava ancora di world music, cominciava a ospitare i vinili di Ravi Shankar e di altri musicisti indiani e Giuliano, il proprietario di un piccolo ma fornito negozietto di dischi cittadino, era riuscito a procurarmi dalla Svizzera un 33 giri del Pandit Pran Nath, pubblicato dall’etichetta francese Shandar. S’intitolava Ragas, aveva la copertina bianca con, nel retro, il maestro indiano immortalato con chioma e barba bianche e lo sguardo proiettato verso vasti orizzonti. L’ho sempre trattato con la riverenza dovuta a uno dei pezzi forti di una collezione che comprende diverse rarità tra cui, tanto per citarne alcune, Don Cherry (inclusa la memorabile Relativity Suite), Terry Riley, La Monte Young e Marian Zazeela, la Third Ear Band, Zusan Fasteau, gli Oregon con Colin Walcott, il Dollar Brand, accompagnato da Johnny Dyani, di Good news from Africa con il gioiellino di Msunduza.  
Trascorrevo i pomeriggi di studi ginnasiali e liceali con il sottofondo di Per voi giovani, programma radiofonico in cui si veicolavano non soltanto musiche differenti da quelle della mediocrità ufficiale ma anche contenuti fortemente innovativi. Era strutturato bene e valeva la pena seguirlo dall’inizio alla fine, ma per me la vera chicca era la rubrica condotta da Claudio Rocchi. Già lo stacchetto (Celestial procession dei Quintessence, con echi flautati di Raja Ram, sciabordio di acque presumibilmente gangetiche, muggiti di vacche sacre e belati vari) lasciava presagire come sarebbe trascorsa la mezzoretta. Dopo il “Ciao, sono Claudio”, in una meravigliosa mescolanza, si fondevano note (quelle dei suoi brani e quelle dei “kosmischen” Popul Vuh di Florian Fricke, Ash Ra Tempel, Klaus Schulze, Tangerine Dream nonché di formazioni “anomale” come gli Hawkwind, l’Incredible String Band, i Renaissance, i Gong di David Allen) a letture tratte da Gibran o Artaud. Tra incursioni di “Hare Krishna Hare Krishna / Krishna Krishna / Hare Hare” e “Govinda Ja Ja / Gopala Ja Ja” si accennava a mutamenti di coscienza, alla libera ricerca spirituale (ben più di dieci anni prima del fenomeno della New Age), si parlava di Nanak, Kabir, Khayyam, dell’acquariano (con riferimento all’Età dell’acquario che, ahinoi, tarda ad arrivare).


Ciò che diceva Claudio faceva presa perché si avvertiva subito che scaturiva dal vissuto, da un percorso interiore di cui la musica era componente essenziale, anche se non esclusiva. Ne sono testimonianza i quattro album seguiti all’iniziale Viaggio, del 1970  (con Mauro Pagani, al flauto, al violino e alle conga, Annie Lerner e Roberta Rossi nel celebre La tua prima luna, in cui, con estrema semplicità, si dava voce al disagio esistenziale di una gioventù ribelle e non irretita dal farneticante rivoluzionarismo gruppettaro in voga allora). Volo magico n.1” (1971), “Volo magico n. 2 - La norma del cielo” (1972), “Essenza” (1973) e “Il miele dei pianeti le isole le api” (1974), tutti incisi con la Ariston costituiscono ognuno dei piccoli capolavori (cui va aggiunto il 45 giri Vado in India con la voce di Massimo Villa che diceva “prima di girare il disco pensa a te stesso”). A distanza di quarant’anni non hanno affatto smarrito la loro bellezza, sia musicalmente che per l’intensità e la profondità dei testi. Claudio è stato sicuramente, nel suo genere, un unicum, in parallelo solo con Battiato. 
Cantava una prospettiva molto diversa da quella di altri che venivano considerati “impegnati” perché invischiati nella retorica a buon mercato del tempo. Non strizzava l’occhio all’estremismo con fantomatiche “bombe proletarie” scoppiate “contro ai re e ai tiranni” e non inveiva, come qualche cantautore bolognese, contro la “vecchia piccola borghesia” che faceva “rabbia, pena, schifo o malinconia”. No, Claudio parlava d’altro e per questo veniva bollato come un “mistico”, snobbato, visto come uno strampalato inebriato di effluvi indiani. Non celebrava i fuochi fatui delle molotov interessato com’era, invece, all’illuminazione interiore, alla consapevolezza, alla via di mezzo. 
Come non ricordare “hai da essere sincero come linea nella vita” (Radici e semi) oppure “le forme sono echi e gli echi sono ritorni/ fra il Tutto ed il Niente da sempre, per sempre” (Il miele delle api), “le isole e i pianeti/ sono solo altra gente da incontrare/ il Fuoco brucia l’Aria / e la sua vita è nell’aria da bruciare / le Erbe sono Stelle / e il Cielo è sulla Terra; / e tutti noi siamo uomini in viaggio nello spazio /  i giorni sono andati / stanno andando e andranno ancora / e hai visto niente ancora mai, / davvero ti è venuto contro” (Le isole e i pianeti), “segui, ogni incontro che guida / capisci la via è verso te /  cerca non stancarti e continua / capisci la via è verso te / e la strada è ogni strada / non c’è niente davvero che perdi / più lasci e più hai” (Ogni strada). 
Come ignorare La realtà non esiste (in Volo magico n.1)? “Quando stai mangiando una mela tu e la mela siete parti di Dio, / quando pensi a Dio sei una parte di ogni parte e niente è fuori da tutto. /  Quando vivi tu sei un centro di ruota e i tuoi raggi sono raggi di vita; / puoi girare solo intorno al tuo perno o puoi scegliere di correre e andare. / Quando dormi tu sei come una stella e il respiro è come fuori dal tempo; / quando ridi è come il sole sull’acqua, sai che farne della vita che hai. / Quando ami tu ridoni al tuo corpo quel che manca per riempire un abbraccio, / quando corri sai essere lepre e lumaca se hai deciso di arrivare o restare. / Quando pensi stai creando qualcosa, illusione è di chiamarla illusione, / quando chiedi tu hai bisogno di dare, quando hai dato hai realizzato l’amore /  Quando gridi la realtà non esiste hai deciso di essere Dio e di creare.  / Quando chiami tutto questo reale hai trovato tutto dentro ogni cosa”. 
E, ancora: “Si forano porte per vivere le case, / nel vuoto del vaso sta il senso dell’uso. / Gli specchi ci danno immagini riflesse /, lo specchio è se stesso quando è vuoto. / Vivi la vita vivendo la vita, usa la mente / tenendola vuota” (La norma del cielo nell’album Volo magico n. 2).
Dopo il 1974, Claudio ha continuato a produrre dedicandosi alla sperimentazione di nuovi sentieri. Poi entrò a far parte della comunità dei devoti di Krishna, a Villa Vrindamana, vicino Firenze. A questo periodo risale Un gusto superiore (inciso insieme a Paolo Tofani, ex Area, anch’egli sannyasin). Agli inizi degli anni Novanta decise che qualcosa, nella sua vita, doveva ancora cambiare. Se ne andò a Kathmandu dove, nel 1999, mandò avanti per tre anni la prima radio indipendente nazionale nepalese The Himalayan Broadcasting Company (la HBC). 
Tornato in Italia, si recò a vivere in Sardegna, nei pressi di Oristano, dedicandosi a nuovi lavori discografici e alla realizzazione del film Pedra Mendalza. Due anni fa aveva collaborato con gli Effervescent elephants e registrato quello che, purtroppo, resta il suo ultimo album In alto (Cramps, 2011). Con Gianni Maroccolo, ex Litfiba, si stava dedicando al completamento del progetto Vdb23/nulla è andato perso” che mercoledì 26 giugno sarà presentato dallo stesso Maroccolo e da Franco Battiato al Parco della musica di Roma. 



Qualche giorno fa aveva “postato” su Facebook il seguente messaggio: “Carissime amiche e cari amici, torno su Facebook dopo una ventina di gg o più di assenza. Ci torno per aggiornare le mie pagine al mio presente e viceversa. Nel frattempo, sollecitato con calore da più parti, ho iniziato a scrivere “La settima vita”, mia autobiografia ufficiale. Intendo tentare di ripercorrere la straordinaria esperienza fatta di recente con Gianni Maroccolo sulla piattaforma dicrowdfunding musicraiser.com offrendo appunto come ricompensa questa sintesi delle mie vite. Un libro che sarà pubblicato da un editore importante e che potrete, se vorrete aiutarmi a smazzare il singolare presente che mi si è parato davanti, assicurarvi direttamente quando partirà la campagna di fundraising. A fine 2011, mentre ero in promozione a Milano per il mio Cd “In Alto” fatto con la Cramps, feci un'intervista per un quotidiano nazionale che titolava più o meno “Le cinque vite di Claudio Rocchi”. Era “Libero” o “il Giorno”? Non ricordo. Raccontavo di una vita da studente, una seconda da aspirante rock star, una terza da aspirante santo indù, una quarta da aspirante “normale” professionista tra broadcast, media e business immobiliare. La quinta era quella in cui rientravo allora, per una serie di benedette concorrenze tra Amore e Ispirazione, di musicista ritrovato con voglia di concerti ed energia per farli. Poi arrivò la sesta. Una grave malattia degenerativa alle ossa mi faceva di fatto malato terminale pur continuando io di fatto, tra stampelle e bastoni, a fare finta di niente e guidare in su per mari e autostrade a fare i miei concerti. Eccoci infine alla settima vita. La vivo da 20gg o poco più e tutto è successo in meno di 12 ore. Un crollo vertebrale ha determinato un’invasione del midollo spinale e di fatto ho perso l’uso delle gambe. Ho sentito risalire forte da dentro una risata incontenibile accompagnata dalla domanda: “Ma cazzo, non era sufficiente così? Pure paraplegico ora?”. Adesso, dopo vari accertamenti a tutto campo, il quadro clinico è fissato. Patologia non reversibile che innesta la perdita d’uso degli arti inferiori sulla patologia ossea degenerativa. Sono ultra fragile, e devo stare praticamente a letto evitando movimenti di ogni genere che potrebbero, nel caso di un’invasione midollare più alta del D11 odierno, pregiudicare anche l’uso degli arti superiori. Non male, vero, per mettere alla prova il buonumore? Sappiate che il buonumore tiene, la Coscienza pure e il libro è iniziato stamane”.

Il libro è iniziato, la pagina è rimasta aperta. Claudio martedì 18 giugno ha lasciato, a sessantadue anni, il suo corpo materiale.

mercoledì 19 giugno 2013

Questi venticinque anni senza la “voce” di Herbert Pagani


Luciano Lanna

Nel suo ultimo bel libro – Romanzo irresistibile della mia vita vera (Marsilio, pp. 240, euro 16,00 – Gaetano Cappelli ricorda le estati al mare degli anni Sessanta con le radio a transistor, e lo introduce così: “Finché un giorno cambiando stazione, non intercettai la voce di questo tizio. Una voce allegra, leggera, internazionale: stavo su Radio Montecarlo, non per niente. E dio, come mi sentivo speciale solo per quello, solo per il fatto di ascoltare questi annunci in italo-francese… E poi c’era quella voce che raccontava di canzoni leggendarie, della loro storia e di quando e come erano venute fuori dalla testa dei musicisti, dei loro grandi amori e avventure e tutto era così fresco e vero e naturale perché quei racconti era proprio uno di loro – un musicista – a farli, e cioè Herbert Pagani. Da quei giorni ne divenni un fan. Adoravo tutto di lui, quel suo fraseggio fresco, scanzonato, il piglio anticonformista. Che avrei dato per essere anch’io come lui, come Herbert Pagani, e come quelle migliaia di ragazzi che, ascoltandolo, seppi, s’erano proprio allora radunati, nel 1969, per i tre famosi liturgici giorni sui prati verdi dell’isola di Wight…”.
In poche righe Cappelli rende al meglio quella che fu la sensazione radiofonica condivisa di un artista poliedrico e di un cantautore di qualità di cui questa quest’estate ricorrono i venticinque anni della prematura scomparsa a soli 44 anni dopo un improvviso male incurabile. È infatti già un quarto di secolo che s’è n’è andato, Herbert Pagani, lasciando davvero un grande vuoto nella musica e nella cultura non solo italiane. In quel 1966, negli studi di un loft milanese in piazza Tirana, sede della sua "Mama Records", insieme alla fedele amica e collaboratrice Annalena Limentani, aveva infatti creato una trasmissione destinata a fare epoca e a imporre Radio Montecarlo, l’emittente che allora costituiva, grazie a una potente antenna su onde medie, l’unica alternativa al monopolio della Rai democristiana (che intanto aveva censurato Guccini e De André…). La trasmissione si chiamava Fumorama e si faceva ascoltare davvero da tutti. Come spiega Mario Luzzatto Fegiz, “Pagani fu maestro di radiofonia”. Non a caso era lui stesso a spiegare la sua tecnica: “Bisogna scandire le parole, le lettere devono apparire sulle labbra come quelle dell’omino animato che fa la pubblicità della Moka Express”. Lui faceva proprio così. Il risultato era una dizione molto teatrale, fortemente riconoscibile, inconfondibile e soprattutto chiarissima…


La sua stessa biografia era molto complessa e affascinante. Herbert Pagani, in esteso Herbert Avraham Haggiag Pagani, era nato a Tripoli italiana nel 1944, prima delle fine della guerra, da una coppia di libici di religione ebraica, italianizzati dall’amministrazione coloniale di Italo Balbo. La separazione dei suoi genitori, che avviene quando lui aveva due anni, lo vedrà in seguito in costante trasferimento in diversi collegi e città, attraverso l’Austria, la Germania, la Svizzera, la Francia e la sua Italia. Mentre frequenta il liceo a Parigi conosce la figlia del poeta Jean Rousselot, ne frequenta la casa e la biblioteca e viene da loro incoraggiato alla ricerca di una sua dimensione artistica. Herbert si diploma e perfeziona la sua tecnica all’Accademia Charpentier di Parigi e successivamente all’Accademia di Brera di Milano. Mentre si trova a Cannes a vendere disegni per strada durante la stagione balneare, viene notato da Pierre Picard che gli propone di esporre nella sua prestigiosa galleria. La sua mostra Les dessins fantastiques et paysages allucinatoires ha un successo clamoroso e i suoi disegni vengono acquistati da privati come Federico Fellini o da importanti istituzioni internazionali come la Collezione Olivetti. È il settembre 1964, Pagani ha vent’anni e viene reclutato dalla rivista Planéte di Louis Pauwels e Jacques Bergier per illustrarla. Poi altre collaborazioni prestigiose, tra cui quella con l’Encyclopédie du fantastique e quelle con editori come Rizzoli (con cui illustra La fantarca di Giuseppe Berto) o il Club des Amis du Livre.


Ma Herbert è inquieto, l’arte figurativa non gli basta. Ama e traduce in italiano le canzoni dei grandi cantautori francesi – Brel, Ferré, Moloudji – e comincia a scriverne di sue. Fino a quando nel 1965 incide il suo 45 giri Lombardia e debutta in un cabaret milanese. Poi s’impone con le sue canzoni: accanto a pezzi come Cin cin con gli occhiali, Ahi le Hawai o Lo specchietto, anche una canzone resa celebre da Edith Piaf come Albergo a ore (per anni “prima nella hit parade della censura italiana”, rideva sempre Pagani) o anche La mia generazione. E soprattutto Amicizia, un ellepì rivoluzionario in cui per la prima volta le canzoni sono legate fra loro da dialoghi, voci di strada, monologhi, rumori… Un vero e proprio concept album censurato, tranne il pezzo più orecchiabile che dava il titolo al disco, dalla solita televisione italiana. Pagani, che piaceva anche ai bambini per certe sue trasmissioni alla tv dei ragazzi, a un certo punto lascia l’Italia e nel 1971 va a Parigi. Qui con i suoi spettacoli diverrà una star. I giornali acclamano il cantautore che “canta con la penna e disegna con la voce”. Il poeta Louis Aragon annoterà: “Ormai è impossibile parlare di canzone contemporanea senza tenere conto della sua esistenza”. Nel 1972 sarà la volta del doppio concept album e dell’omonimo spettacolo Megalopolis, un’opera a sfondo ecologista. Nel 1973 realizza un altro progetto che gli sta a cuore, Venise, amore mio, considerato dall’Unesco il più efficace strumento di denuncia sui pericoli che minacciavano Venezia. Poi, nel 1976, Megalopolis arriva anche in Italia, al festival dei Due Mondi di Spoleto.


Ma la più grande battaglia di Pagani fu quella per il Medio Oriente: libico e italiano, ebreo di nascita ma cosmopolita, fece di tutto per la logica del “due popoli e due Stati”. Il suo sogno era quello di difendere l’esistenza di uno Stato per gli ebrei ma nel contempo cercando la pace con i palestinesi riconoscendo anche a loro tutti i diritti. Morirà il 16 agosto del 1988 in un ospedale di West Palm Beach in Florida a causa di una rarissima malattia del sangue che lo aveva colpito all’improvviso solo qualche mese prima.
Adesso, da qualche mese, Pagani è stato ricordato per iniziativa del suo amico Marco Ferradini con un album intitolato La mia generazione, nel quale le sue canzoni più note sono eseguite da personaggi che gli furono vicini oppure che sono culturalmente in sintonia con la sua sensibilità e il suo percorso. Ci sono Eugenio Finardi e Alberto Favata (in arte Simon Luca), la sorella Caroline Pagani, Shel Shapiro, Anna Jencek e lo stesso Ferradini (per il quale aveva scritto Teorema) che collaborarono direttamente con lui. Ci sono altri, vicini spiritualmente e musicalmente, come Andrea Mirò e Alberto Fortis. Fra le canzoni più leggere, Cin cin con gli occhiali, scritta con Edoardo Bennato, e fra quelle più impegnate Signori presidenti: “E per i panni sporchi lavati troppo tardi / in certe lavatrici intorno al Quirinale / che puzzano d’inganni, di sangue e di miliardi / mentre la lira scende e il terrore sale”.




domenica 16 giugno 2013

Perché è sbagliato imporre per legge la memoria storica




Annalisa Terranova

È di grande interesse l’intervento odierno di Marcello Flores su “la Lettura” (inserto domenicale del Corriere della sera) a proposito della legge che punisce l’apologia dei crimini di genocidio. Vi si fa riferimento a un ddl di modifica dell’attuale legge n.654 del 1975 attraverso un comma che così recita: “È punito con la reclusione fino a tre anni chiunque, con comportamenti idonei a turbare l’ordine pubblico o che costituiscano minaccia, offesa o ingiuria, fa apologia dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità o dei crimini di guerra come definiti dagli articoli 6,7 e 8 dello statuto istitutivo della Corte penale internazionale”. Un intervento che tocca il delicato e cruciale tema della memoria (e che sarà al centro di un congresso internazionale di storici del genocidio che si terrà a Siena dal 19 giugno) ed esprime legittimi dubbi sulla possibilità di imporre dall’alto una sensibilità collettiva rispetto agli avvenimenti storici. Flores si chiede non a torto quali sono i genocidi riconosciuti come tali e come ci si dovrà comportare dinanzi a crimini che nessun tribunale ha sanzionato (i crimini dei Gulag) o su cui esiste una controversia aperta (Srebrenica) o che non sono riconosciuti come tali (il genocidio degli Armeni). È vero che il pensiero corre subito allo sterminio degli ebrei ma fin dove è lecito spingere la repressione antinegazionista? Al di là della doverosa opera di informazione-educazione nelle scuole verso chi scatteranno le denunce? Senza contare che il rischio è quello di far passare per martiri della libertà d’espressione coloro che minimizzano o, peggio, rivendicano la libertà d’indagine storica per supportare la propaganda ideologica di tesi razziste. Leggi contro il razzismo ci sono già, e tali norme non hanno eliminato il problema senza contare la contraddizione lampante tra una legge come quella ricordata e l’ordinamento italiano che ancora non prevede il reato di tortura.
L’aspetto più emblematico della questione è però il rapporto tra verità di Stato e verità degli storici. Quali sono i soggetti deputati a stabilire cosa e come ricordare? Di certo la scelta tra uno Stato che si arroga questo diritto, sia pure sulla base di indicazioni internazionali, e la comunità degli studiosi che vi si oppone (come avvenuto in Francia) cade naturalmente, ovviamente, sulla seconda ipotesi perché appare indubbiamente come quella più idonea a garantire il diritto alla conoscenza e alla separazione tra la stessa conoscenza e le emozioni che essa produce. In altre parole la riprovazione e la condanna morale che i crimini contro l’umanità suscitano sono sentimenti talmente naturali che la loro “imposizione” per legge rischia quasi di legittimare atteggiamenti contrari. La repressione del lato disumano delle società è appunto un connotato riconoscibile nelle società sane e ciò avviene a un livello etico profondo che nessuna norma di legge può determinare.

Il discorso si intreccia con quello, altrettanto complesso, dell’atteggiamento degli Stati deboli, come quello italiano, dinanzi alla storia del Novecento. Ne ha parlato Giovanni De Luna di recente nel suo libro La Repubblica del dolore (Feltrinelli 2011) mettendo in luce come l’idea di una memoria pubblica (o condivisa) nel nostro paese resta un tema ancora sottoposto ad incognite e interrogativi irrisolti. Secondo De Luna – e  non si può dargli torto – più lo Stato ha accentuato la sua separatezza nei confronti della società civile più ha moltiplicato le incursioni sul terreno della memoria e degli universi simbolici ad essa collegati. Tutta una serie di “leggi del ricordo” hanno avuto come scopo il tentativo di proporre “come contenuto del patto fondativo della nostra memoria il dolore e il lutto che scaturiscono dal ricordo delle vittime. Della mafia, del terrorismo, della Shoah, delle foibe, delle catastrofi naturali, del dovere, vittime, sempre e solo vittime… E alla fine la Repubblica del dolore che affiora dall’intricata selva delle leggi memoriali sembra improntata alle narrazioni che scaturiscono direttamente dalla televisione del dolore”. La politica ha gestito questo processo a scapito della verità e della corretta informazione impedendo uno spazio condiviso di confronto e di elaborazione per perpetuare la logica del bipolarismo anche nella memoria. Il paradigma delle vittime posto al centro della memoria collettiva, in altre parole, ha indicato la via dell’emozione condivisa come la strada più comoda per aggirare le verità storiche e assolvere le precedenti generazioni. Ma dietro al paravento le divisioni sono ancora lì, ad impedire ogni reale riconciliazione, a fare scudo a una verità che le leggi non possono imporre per decreto, a bloccare il lavoro degli storici sotto il fuoco incrociato delle demonizzazioni reciproche.  

La fondazione è una questione complessa .... parola di Leonardo


Marina Maugeri

Correva l’anno 1788, quando Goethe visitò «Il Cenacolo di Leonardo» e l’ammirazione fu tale che tornato in patria il sommo letterato aggiunse allo stupore la “vena dell’erudita”, dedicando un’opera intera al dipinto milanese del maestro di Vinci. Il capolavoro divenne quasi un sogno estetico, fatto del substrato di pigmenti decoesi che rimandavano la visione di una materia instabile e caduca, ormai “cadavere” agli occhi dell’illustre visitatore. La suggestione, quasi decadente, minimizzava ogni risvolto religioso e, cedendo allo sforzo psicologico di comprendere il dramma umano, escludeva ogni riferimento sacramentale, presente invece nella critica precedente e indissolubile dalla raffigurazione. Come noto, il degrado della pittura era dovuto al fatto che Leonardo amava sperimentare i colori stesi a secco, mescolandoli con l’olio come medium per ottenere effetti di trasparenza che erano congeniali al suo estro, preferendoli di gran lunga all’uso antico del “buon fresco” che assicura un’eccezionale durevolezza delle superfici pittoriche, ma si deve realizzare con tocchi certi sull’intonaco ancora bagnato.
Spesso i romantici e gli illuministi, sospinti dall’entusiasmo per la grandezza dell’arte del passato, cercarono di spiegare la cultura attraverso l’estetica degli oggetti, offrendo gli “oggetti” a un’Europa che già conosceva il gusto dell’antichità, ma che fino a quel momento aveva ritenuto che fosse la storia a doversi inchinare davanti alle “cose” antiche e non viceversa. L’estetica romantica impose, perciò, alla società del tempo un’immagine del Rinascimento su cui aveva proiettato eccessi e piaceri dettati dai propri impulsi, dal disagio verso la morale borghese, cui contrappose il “condottiero”cinquecentesco, facendone un eroe immorale sprofondato nel lusso e nella cupidigia, che promanava una demoniaca volontà di potenza, tinta con l’oro e la porpora dei grandi ritratti rinascimentali.


Ma il Rinascimento era stato tutto tranne che romantico e non differì affatto, quanto a durezza e spirito pratico, dall’epoca da cui era scaturito. Anche in campo artistico si era posto in connessione con la cristianità medioevale, senza fratture dal Medioevo ai tempi nuovi, i quali sorsero proprio dalle immense energie suscitate dalla spiritualità e dalla cultura cristiane. L’eclettismo, così spesso associato alla specificità del genio rinascimentale, risiedeva nell’attitudine al “mestiere”che era stata una virtù spiccatamente medioevale, ereditata dal Quattrocento e anche l’ascesa degli artisti a livello di poeti e dotti, attribuita alla loro alleanza con gli umanisti, era prevalentemente dettata dall’espansione della ricchezza nelle città e non fu un fenomeno osteggiato dalle antiche corporazioni medioevali, mentre gli artisti inseguirono sempre un’autonomia di pensiero, conquistando una fama e un prestigio di gran lunga superiore agli umanisti, proprio grazie a quest’impulso.
Quando Leonardo giunse a Milano, lasciando Firenze, mosse verso questo obiettivo, ponendosi in aperta rottura con la cerchia neo-platonica che si stringeva intorno a Lorenzo, il quale osteggiando ogni forma di attività politica nella città non poteva che rallegrarsi del “vero” filosofo che moriva alle cose terrene, innalzandosi esclusivamente al mondo astrattamente sublime delle idee. Leonardo amava, invece, talmente l’esperienza concreta della realtà da impastare i colori, confondendovi dentro la sua stessa persona e riteneva la pittura, muta solo per difetto, superiore alla poesia a cui, con uguale diritto, si sarebbe potuto rimproverare di essere cieca. Niente avrebbe potuto perciò segnarlo più di ”eresia” agli occhi di quei neoplatonici che in fondo ambivano sostituirsi alla Chiesa e all’etica del mondo cavalleresco, promuovendo l’arte, ma imponendo le vedute di un’élite illuminata, che intendeva surrogare gli ideali spirituali e quelli improntati all’eroismo e all’umanità cavallereschi, con i nuovi rapporti sociali ispirati ai concetti di signorilità e buona educazione. Fu per questo motivo di fondo che tutti i grandi artisti del Rinascimento, se da un lato godettero della protezione degli umanisti con i quali regolavano i loro rapporti alle necessità di produzione, dall’altro aspirarono sempre a una ricerca espressiva indipendente, ingaggiando nei confronti di queste elite una tenzone che li vide infine vincenti.
L’arrivo del maestro di Vinci nel contesto milanese è intriso, dunque, di questi fermenti e segna l’amaro passaggio personale che si consuma con l’abbandono della Città dove Leonardo si era formato, ma da dove il suo genio creativo era stato progressivamente emarginato. Leonardo che non avrebbe mai nemmeno riconosciuto “laudabile”un artista“ se costui non si fosse fatto “universale”, nel Cenacolo suggella una sua visione, ammettendo, infatti, una chiara identificazione con la propria opera.


“Finalmente, visitatore carissimo, quelli che scorgi son lacerti di me, fattomi, da fiorentino, milanese”. Così, in modo lapidario il Maestro presentava se stesso e la“parete” che conduceva al centro del Mistero di tutta la dottrina cristiana, quello Eucaristico.
Il soggetto stesso del Cenacolo presuppone una“scena” radicalmente storica e trascendente che racchiude un senso sul piano cosmico propria al cristianesimo, che non è una filosofia astratta, né un moralismo, ma poggia sulla Rivelazione di un mistero che si fa conoscere con un’esperienza reale, un fatto realmente accaduto. L’opera osservata inizialmente dal visitatore finisce perciò per scrutarlo, interrogandolo nelle sue più buie profondità, perché se il colore del Cenacolo, appare notevolmente abraso, la composizione mantiene invece intatta la vivezza e la forza espressiva della visione rinascimentale che le deriva dall’unità degli elementi figurativi che si colgono in tutte le parti, spostandosi simultaneamente sia nel tempo che nello spazio. Artista del limite e dell’illimitato, Leonardo concepisce il passaggio della Pasqua come un’immagine che immerge fisicamente il visitatore in un senso scritturale “rivelatore”che non vuole essere affatto rassicurante, perché la Sapienza che muove il suo pennello porta dentro uno scompiglio, percepito perfino dalla critica moderna come un’inquietudine che esprime tutto il senso profondamente anti-romantico della visione rinascimentale e leonardesca. L’opera di Leonardo si lega perciò alla bellezza di un’intuizione profonda che risuona in “un mistero destinato a durare finché durerà l’uomo” e che dice del “carattere unico ed eccezionale della storia divina”, che si riscontra nella storia umana, proprio perché la storia umana ha le sue radici nel divino e gli uomini hanno questo altissimo lignaggio scritto come verità nel loro cuore.
E l’immagine di Leonardo vuole comunicare proprio questa Verità, rivelandola a sua volta al “visitatore”. Veritas in greco è Aletheia, letteralmente il non oblio, le cose che sono rivelate proprio perché non sono più nascoste, il non segreto. E’ la realtà autentica perciò che si rivela, opponendosi a quella apparente, come Aletheia si oppone a Lethe, il fiume infernale dell’oblio che fa scomparire le tracce nella sua corrente e le nasconde con il passaggio delle acque, producendo sonno. Aletheia scorre perciò in una direzione opposta di significato. Le cose nascoste portano al sonno e allo stordimento, le cose che invece non sono più nascoste risvegliano. Aletheia rivela ciò che è stato nascosto sul fondale di un fiume torbido, sul fondo dello scorrere del tempo fin dall’origine del mondo. Che cosa sono queste cose nascoste?


Il “Cenacolo” dà immagine all’episodio dei quattro Vangeli, colto nell’istante spaziale e cosmico in cui Gesù pronuncia la grave frase che riguarda Giuda e che getta l’intera comunità degli apostoli in un immediato stato di sgomento. Ma la raffigurazione di quest’istante ha una potenza che si dilata nel tempo, al punto da contenere già il dramma successivo, diviene un istante che contiene il tutto, quello che è e ciò che deve ancora accadere.
Leonardo inventa una situazione innovativa rispetto all’iconografia con cui la pittura si era cimentata su questo stesso tema, impostando la figura di Gesù al centro della scena e dipingendolo di dimensione sensibilmente maggiori rispetto agli apostoli, facendo partire da questo punto i raggi prospettici che si lanciano all’esterno nella direzione degli altri personaggi, rimarcando in tal modo l’assoluta regalità di Cristo. Gesù è l’Uno isolato, insigne e maestoso, è il Sovrano, da cui emana il silenzio, l’angoscia e l’amore, simultaneamente presenti sul volto nobile dagli occhi lievemente abbassati. Gesù entra con la sua angoscia e la sua umanità nella propria paura per spezzare la morte, ma il “male” non ha alcuna presa sul suo volto da cui non traspare furore, solo l’intensità trasparente di un Amore invincibile. L’angoscia del nulla è spesso toccata dalla visione leonardesca che lascia intravvedere risposte abissali, in cui le sue debolezze e le sue qualità umane si fondono, sottraendo la sua personalità ai pericolosi risvolti dell’idolatria per il genio.
Il cristianesimo non è una religione che si occupa dell’angoscia per spiccata sensibilità umanitaria o come problematica psicologica, né s’identifica in un passaggio di stato che prevede l’annullamento catartico della sofferenza. E’ la religione del Logos incarnato, del Dio che facendosi Uomo ha provato l’angoscia che ciascuno prova nei suoi più tremendi significati, un Dio che la rivela e la assume su di sé per amore dell’uomo. Il tema del dipinto leonardesco rappresenta perciò concretamente il paradosso dell’Uno e del Molteplice, dell’Uno contro tutti, dei poli opposti che si escludono, laddove l’Uno però non è un’entità metafisica o numericamente astratta, ma è una Persona, è il Dio incarnato, la vittima innocente che rivela il vero volto di Dio, nel momento stesso in cui appare il vero volto dell’uomo. Il nulla e la bellezza sono opposti cristianamente tenuti insieme, perché se la Croce è un punto di fallimento dove i sogni interrompono la loro corsa, il nulla è già parte della Resurrezione e annuncia il tempo che precede la pietra che rotola via, ciò che segna il momento in cui accade qualcosa di umanamente inconcepibile: Dio vince il nulla.
La bellezza, dunque, è la trascendenza stessa che si fa visibile nel fenomeno e oltre l’apparenza, è il segreto che costituisce la trama della realtà autentica dell’uomo che si rende presente, riassumendosi tutta nel volto di Cristo, il vero volto di Dio, che è l’Amore di Dio, cui l’uomo somiglia.
Leonardo riesce a rappresentare qualcosa di irrappresentabile che solo la teologia potrebbe adeguatamente commentare, la sua opera dà conto dell’esperienza simbolica e storica che è la vera fondazione di Dio, evento che nel Cenacolo si mostra anche visivamente con la creazione dell’uomo nuovo che il mistero sacramentale sottende.
L’esperienza artistica del Maestro di Vinci, in particolare quella della pittura, è connotata dalla concretezza del simbolo che fa della sua arte un’opera quasi miracolosa, perciò superiore alla poesia. Come pittore Leonardo manifesta l’atteggiamento religioso del suo spirito artistico, aspira e sente d’essere “il signore d’ogni sorte di gente e di tutte le cose”che si riflette nello specchio della riproduzione del mondo ed è, perciò, anche antropologo e filosofo. Quando dispone i discepoli in gruppi di tre, immagina di raffigurare dei campioni a tre teste in relazione fra loro, descrivendo con lucidità una comunità che converge nel suo insieme nella crisi, ciascuno dei presenti con il proprio bagaglio psicologico, simbolicamente richiamato da oggetti o gesti, che sarà scardinato da quanto accadrà successivamente, quando ognuno dei presenti si scoprirà diverso da ciò che credeva d’essere. Da qui, gli oggetti, i volti inquietanti, le espressioni sconvolgenti, tutto un apparato simbolico che conduce al centro dello scompiglio, la Croce, luogo in cui gli apostoli sono sospinti e dove vivranno l’esperienza del fallimento, diventando al tempo stesso inconsapevolmente parte del piano di Redenzione di Dio.
Parlare dell’immagine di Dio, del Logos incarnato, non è perciò possibile senza parlare anche degli uomini. La figura di Giuda, il cui volto è stato purtroppo alterato nella fisiognomica da inopportuni rifacimenti, si dissimula nel terzetto dove Leonardo colloca anche Pietro e Giovanni. Giuda attesta inequivocabilmente la presenza del “male”, il peccato da cui non riuscirà più a svincolarsi e che gli fa ancora impugnare la bisaccia gonfia di denaro, segno del “possesso” e del prezzo del riscatto con cui le Autorità religiose hanno barattato la vita di “uno in cambio della salvezza dei molti,” mettendo in moto il processo a Gesù che dovrebbe attuarsi come la fatalità di un meccanismo nascosto.
L’apostolo è solo una mera pedina di quel “male”che Gesù sta denunciando alla luce del sole. Il sacrificio, simboleggiato dal piatto sulla mensa davanti a Gesù, non è, infatti, mai riconoscibile agli uomini, i quali lo percepiscono solo come un meccanismo naturale, nascosto nel molteplice, negli insiemi, nei gruppi, nelle classi, dissimulato nelle istituzioni sociali, misconosciuto negli ordinamenti in cui la comunità tenta di mimetizzarlo come fosse un funzionamento naturale, da cui trarre un effettivo vantaggio “economico”.
Giuda è in relazione con gli altri, partecipa di quello stesso turbamento che scuote gli apostoli e che fa tutt’uno con la turba che si assieperà davanti a Pilato, manifestando la perturbazione che sradicherà la Ragione, il Diritto, le istituzioni, l’amicizia, le relazioni, gli affetti, lasciando gli uomini privi della loro fondazione violenta e scatenando la loro stessa violenza sul capro espiatorio. Turba significa letteralmente non avere pace, non conoscere tregua. Di lì a poco, il disordine avvolgerà tutta la terra, che precipiterà nel buio dell’eclissi mentre una grande tenebra avvolgerà tutti i presenti. Tutti, infatti, saranno risucchiato in questa turbolenza il popolo, Pilato, Pietro, Giuda, tutti ad eccezione dell’imputato.
L’annuncio di Gesù getta nello scompiglio nella stessa misura in cui conduce l’uomo al centro dei suoi inganni, consentendo che il mondo fondato sull’odio non esista più. Leonardo nel sottolineare la sovranità di Cristo conferma la vera origine della Storia, la sua sovranità di Gesù, infatti, non è solo l’Autorità che si esercita in uno stato ordinario, la sua regalità ha qualcosa di eccezionale, é il miracolo che rivela la vera origine del potere e che si manifesta compiutamente con la potenza della Resurrezione e la rigenerazione dello Spirito.
La geometria del Cenacolo dice di Colui che prima ancora dell’ultimo commiato aveva già affermato senza mezze misure “chi non è con me, è contro di me” e che ora decide gli eventi, attuando un sistematico rovesciamento dei ruoli, a cominciare dal suo stesso arresto nel Getzemani, quando si assiste a una scena quasi grottesca e nonostante Giuda conosca bene il suo Maestro, è Gesù stesso a farsi avanti autodenunciandosi, mentre i militi accorsi in gran numero armati di lampade e spade per catturarlo indietreggiano come impauriti, cadendo perfino a terra. I catturatori diventano i catturati da un Uomo disarmato che non oppone alcuna resistenza. In questo modo Gesù ribadirà a Giuda quello che sta annunciando proprio nel Cenacolo, che non è la paura a decidere la storia. Le parti si rovesciano, il meccanismo dell’accusa s’inceppa, perché il capovolgimento della prospettiva di una rappresentazione umanamente logica rivela una realtà più profonda dell’apparenza, destinata a sconvolgere l’assetto del mondo. Ecco dunque, che Leonardo fa impugnare a Pietro il coltello con cui il discepolo entrerà in azione, recidendo l’orecchio di un esponente della casta sacerdotale, sentendosi perciò un audace difensore del suo Maestro per poi, di lì a breve, scaldarsi allo stesso fuoco dei soldati del sommo sacerdote, dove sarà costretto a vedere se stesso come un discepolo che fa gruppo con gli aguzzini di Gesù. Così, non diversamente da Giuda, dopo il canto del gallo anche Pietro riceverà la sua sentenza: non è il discepolo coraggioso che credeva di essere impugnando l’arma, ma solo un uomo ridimensionato.


Solo dopo queste premesse, il processo prenderà il via e si assisterà ancora al clamoroso rovesciamento dei ruoli. Dopo un lungo silenzio, Gesù risponderà alle domande dell’interrogatorio, ma solo per suggerire di andare ad interrogare coloro che lo hanno ascoltato nel corso della sua predicazione. Ancora un paradosso, l’imputato consiglia agli inquirenti come condurre l’istruttoria.
Nel processo che ha portato alla più infame delle condanne avverrà una cosa assurda, tutti gli accusatori si comporteranno e parleranno come dei veri colpevoli, mentre l’imputato accusato di blasfemia, sarà l’unico innocente. Tutti gli accusatori mostreranno la loro colpevolezza, ma condanneranno ugualmente l’imputato, mettendo in scena un gigantesco inganno che viene svelato. I Vangeli svelano un meccanismo che sfugge alle stesse antropologie antiche e moderne, la frenesia di un contagio di tipo mimetico, secondo il quale le stesse comunità al culmine di una crisi, ristabiliscono l’ordine interno mediante la polarizzazione violenta su una vittima, che appartenendo al sacro lo espelle con la sua stessa espulsione, un pharmakos, che consente l’uscita dalla crisi.
Della triade composta da Giuda, Pietro e Giovanni, quest’ultimo assume nella visione leonardesca la fisionomia gentile che attiene a tutta la tradizione pittorica precedente e che discende dall’intensa riflessione spirituale che caratterizza il quarto Vangelo e dalla capacità dell’apostolo di ascoltare il cuore di Gesù. Giovanni è l’unico a non essere individuato attraverso oggetti simbolici che ne descrivono un’azione precisa ed è anche il solo cui Leonardo non attribuisca un’espressione “scandalizzata”. La sua soavità è anzi sottolineata dalle mani congiunte sul tavolo e da una mancanza di movimento che dice della sua presenza sotto la Croce, quando Gesù prima di esalare il suo Spirito, affiderà il “discepolo più amato”, l’unico che non subirà il martirio, a Maria. «Donna, ecco tuo figlio; figlio, ecco tua madre». “Al momento di morire, Cristo dice la procreazione; parla di una donna e di un figlio, di una madre e di suo figlio. Al momento di morire, annuncia una nascita; recita di nuovo la scena di Natale.”
La fine non giace più davanti, ma dietro di noi. Il sepolcro non è più un punto di arrivo, ma un punto di partenza. La vita dell’uomo non è più in funzione della tomba, non esistono solo vicoli ciechi da ripetere, ma soglie da oltrepassare. Ecco il primo significato, storico e umanissimo della Resurrezione. Dimenticate un corpo morto, la morte ha mollato la presa. La raffigurazione di Giovanni conduce nel cuore del significato antropologico che la pittura lascia intravvedere. Il velo del Tempio che non ha più funzione, il vero volto di Dio è amore. Il centurione che nel buio vede se stesso per quello che è e testimonia “Veramente quest’uomo era il Figlio di Dio.”
Da questo punto in poi nella cultura umana il congegno espiatorio cessa di funzionare in modo misconosciuto, coperto dall’opacità del mito. Il meccanismo sacrificale del religioso arcaico, utilizzato per preservare la collettività dalla sua instabilità s’inceppa. La potestà che Cristo viene a portare è un potere di vita che supera la legge e spezza la tavola di pietra della morte. L’effetto della Resurrezione è questo potere che non ha bisogno di inchiodare qualcuno alla Croce, se non la violenza stessa con cui tutti gli uomini imitano i rispettivi desideri. Se le religioni arcaiche pongono drammaticamente il punto zero di ogni inizio, riconducendolo ad una genesi violenta e distruttiva, dove collocano la fondazione umana, “omicida fin dall’origine”, la fondazione violenta che sorge dalla patina oscura del mito e dall’ignoranza del sacro è tutt’altro che respinta dalla simbologia cristiana, ma è anzi rivelata in piena luce, mostrandola per quello che è, senza giustificazione del male e della violenza, in un modo che Leonardo miracolosamente illumina nella sapienza trasparente del dipinto. Le formidabili risonanze antropologiche del “Cenacolo” sono evidenti non appena si smette di leggere i Vangeli alla luce dei miti. La fondazione violenta, reinterpretata a livello simbolico nella Croce, è il luogo che Cristo illumina, spezzando la morte ed entrando in una relazione diretta con l’uomo, per portarlo fuori dalla Paura e mostrargli il potere del suo cuore.
In questa comprensione profondamente cristiana risiede, almeno in parte, la reale motivazione per cui i geni del Rinascimento si sforzarono di dare compiutezza alla riflessione artistica, riassumendo nella cultura figurativa della loro epoca anche la mitologia pagana, portando alla luce ciò che di autenticamente divino vi era nel mito, alla luce della storia della Rivelazione che libera il divino dall’entità oscura che è la visione di una cosa e la Paura di quella cosa. I miti tornarono a essere rappresentati non quindi perché gli artisti del Rinascimento volessero in modo subdolo riappropriarsi della mitologia in contestazione a Cristo, ma esattamente per il motivo opposto, in quanto sapevano, o per lo meno intuivano, la contrapposizione dei miti pagani e comprendevano che la religione della Croce, demistificando l’intera mitologia e negando il valore positivo alla violenza a giustificazione di un male che espelle il “Male”, andava nel senso diametralmente opposto ai miti, affrancando il sacro dalla dipendenza violenta, al punto che al termine sacro il cristianesimo attribuisce una valenza di inviolabilità dell’uomo, il quale solo a partire da Cristo non é più sacrificabile.
La Croce perciò è gloriosa, perché libera dall’illusione mitica che vuole la violenza un’azione lodevole e sacra in quanto utile alla comunità. Mentre tutti i miti fondano l’ordine del mondo su una violenza dissimulata e sacralizzata che deve ripetersi e perciò devono cancellarne le tracce, i Vangeli agiscono esattamente all’opposto e mettono in luce la violenza nascosta “fin dalla fondazione del mondo” per non doverla ripetere più e per non cancellare la storia dell’uomo, ma farne memoriale.
Avverte, tuttavia, Rènè Girard, antropologo e filosofo che ha dedicato tutta la sua opera allo studio del sacro: “Il capro espiatorio offriva una chiusura sistemica che permetteva al gruppo sociale di rimettersi in funzione, di ricominciare ancora una volta il ciclo e di continuare a ignorare il vero significato di quella stessa chiusura sistemica, vale a dire il credere alla colpevolezza del male assoluto mondato. Tutto questo non può più esistere dopo la rivelazione cristiana. Il sistema non può più essere chiuso da alcun tipo di soluzione farmacologica e il virus della violenza mimetica ha la possibilità di diffondersi liberamente […]. La Croce ha distrutto per sempre il potere catartico del meccanismo del capro espiatorio....” Per Girard, l’assimilazione della rivelazione cristiana, dunque, ha fatto compiere al religioso arcaico un cammino progressivo di affrancamento dell’umanità dalla sua origine cruenta, “omicida fino da principio”, conversione che continua ad avere effetti nella cultura, al di là di tempi come i nostri nei quali l’ateismo e l’incredulità si accaniscono non a caso contro la divinità personale, esercitandosi in modo particolare sul “Cenacolo” con operazioni pseudo-culturali di massa.
Di conseguenza, aggiunge Girard, il Vangelo offre una prospettiva, quella che le ideologie del Novecento non permettevano: la libertà di scelta. Esistono perciò due opzioni, che il Vangelo permette, imitare Cristo, abbandonando la “violenza mimetica”, oppure intraprendere la strada dell’autodistruzione. Il sentimento apocalittico oggi così diffuso si fonda proprio su quest’ultimo rischio. Ma aggiunge ancora l’autore di Portando Clausewitz all’estremo: “L’apocalisse non è la fine del mondo, ma l’annuncio di una speranza; e la speranza è possibile solo per chi osa pensare i pericoli del momento, per chi si oppone ai nichilisti, a quanti negano la verità, ai governi, alle banche, agli strateghi che pretendono di salvarci mentre ci precipitano nel caos”.