Sandro Consolato
Il 10 giugno del 1994 stavo per terminare di
correggere e stampare il testo del mio libro Julius Evola e il Buddhismo, che sarebbe stato poi pubblicato dalle
Edizioni SeaR un anno dopo. Mi mancavano solo poche pagine, ed ero arrivato
proprio al punto in cui parlavo del destino post-mortem,
quando la stampante del computer improvvisamente cessò di funzionare. Dovetti
aspettare il giorno dopo per terminare il lavoro, con un’altra stampante. E il
giorno dopo, l’11, era quello del ventennale della morte di Julius Evola.
Ogni incontro profondo e fecondo con Evola è
costellato da una o più coincidenze significative, come le chiamava Jung. Ed
Elémire Zolla avvertiva: “Quando avvengono coincidenze, è come scorgessimo
un’orma angelica nel nostro mondo”.
Il mio compianto amico e maestro Salvatore
Ruta così mi narrava il suo primo incontro con l’opera di Evola. Durante la
guerra, mentre egli, a Messina, correva qua e là per il suo servizio di
“protezione civile”, da una libreria sventrata da un bombardamento gli volò
letteralmente tra i piedi un libro dal
titolo Il mistero del Graal, che
raccolse e tenne per sé, certo non immaginando che quel curioso “regalo”
sarebbe stato il suo viatico agli studi tradizionali e all’incontro personale
con un Evola anche lui sopravvissuto, come il suo libro, ad un bombardamento.
Un altro vecchio amico scomparso, il capitato
Pietro Wrann, un uomo di mare degno di un romanzo di Conrad, mi raccontò pure
lui che il suo incontro con Evola fu, tra virgolette, “casuale”: reduce dalla
guerra e dalla prigionia, mentre era in partenza per l’Argentina un amico gli
regalò “un libro qualunque”, e questo libro era La dottrina del risveglio.
“Questo libro – mi spiegava – mi ha accompagnato per tutti gli anni
dell'emigrazione, che si risolse sfortunatamente, e in cui il più grande aiuto
ad affrontare difficoltà di ogni genere mi venne proprio da quest’opera
straordinaria”.
Un discorso a parte meriterebbe l’episodio
che ha raccontato Renato del Ponte nell’introduzione
alla II edizione di Meditazioni delle
vette, legato ai funerali alpestri di Evola e alla stampa di quello stesso
libro: lascio il piacere, a chi non ha ancora letto quella bella antologia, di
scoprire da sé di che si tratti (però chi non possiede l’ed. 1979, che è quella
a cui sono affezionatissimo, non scoprirà un bel nulla…). Incuriosirà comunque
sapere che episodi come quello riferito da del Ponte rientrano nella casistica
che la Chiesa cattolica esamina nelle cause di beatificazione...
Con ciò, sia ben chiaro, non voglio affatto
contribuire ad alcuna agiografia di Evola, ad alcuna beatificazione. E quanto
alla Chiesa, dubito che possieda la chiave ermetica di interpretazione dei
fatti che chiama “miracoli” o “segni della grazia”, che sono più naturali di
quanto si creda e testimoniano solo di un miracolo: quello di un cosmo che,
spezzate le barriere dell'ego, si rivela dotato di una straordinaria armonia e
di una segreta corrispondenza tra tutto ciò che lo abita, giacché “omnia quae sunt lumina sunt”.
Il miracolo di Evola, per chi oggi ha
ottant’anni come per chi ne ha venti, non è che questo: quello di averci
aiutato, con i suoi libri, a rivelarci un mondo che non è il nostro ma che era nostro.
Attenzione, però. Julius Evola, che pure ha introdotto noi tutti nel “mondo
della Tradizione”, ha seminato sul nostro cammino varie trappole. Evola era un
esoterista, un sapiente, e quindi, come Hermes, un tessitore di inganni,
destinati a metterci alla prova.
Ricordate la sua frase: “I giovani li attendo
al traguardo dei trent’anni”? Evola, generalmente, lo si inizia a leggere da
giovani. Lo leggiamo e subito siamo presi come in un vortice: ci sentiamo
ammaliati e trasportati là dove improvvisamente, come in un sole di mezzanotte,
si disvela l’ultima Thule dell’anima. A questa magnifica sensazione originaria
facciamo poi seguire letture e riletture: non vorremmo quasi più leggere altro,
tanto ci pare di aver capito tutto, da come sono andate le cose dall’età
dell’oro fino al “secolo americano” a cosa dobbiamo pensare esattamente sullo
sci o sull’antroposofia, sulla prima guerra mondiale e sui jeans.
La legge dell’ermetismo, così magistralmente
insegnata nella La Tradizione Ermetica,
è quella del “solve et coagula”.
Da giovani spesso non riusciamo a capirla, e se non la capiamo quando giovani
non siamo più, abbiamo perso del tempo; o, più semplicemente, quello era il
tempo del nostro karma.
Solve=sciogli. L’incontro con Evola
è la “soluzione”. Gli alchimisti usano il termine alkaest. Bene, pensate per un attimo all’alka-seltzer. Mettiamo la pastiglia nell’acqua ed ecco che si
scioglie frizzando e spumeggiando. Ciò che si scioglie, nel nostro incontro con
Evola, è la solidificazione del nostro vecchio Io, con le sue abitudini, le sue
visuali limitate. Molto spesso questo incontro avviene provvidenzialmente, dopo
esperienze che ci hanno messo alla prova: una guerra, il carcere, una malattia,
un amore intenso e disperato. Ecco, ora una nuova parola ci viene incontro e
comprendiamo tante cose che non avevamo capito: di noi stessi, degli altri, del
mondo, della storia. Qui però si annida l’insidia. Rileggete, o leggete, quanto
Evola ha scritto in Introduzione alla
Magia su Esoterismo e mistica
cristiana. Lì, evidenziato tutto il bene che ci può venire da una metanoia in senso cristiano (un solve rispetto alla vita profana), poi
l’autore ci avverte del pericolo che la prospettiva liberatoria apertasi si
solidifichi, si coaguli attorno a noi sotto forma di un nuovo conformismo che può
degenerare in integralismo, in limitatezza, in negazione di vedute più ampie, o
semplicemente diverse. Ma questo pericolo è quello stesso che attende al varco
noi tutti lettori di Evola, dopo il dono immenso di liberazione che egli ci ha
offerto.
La scoperta di Evola, dicevo prima, ci induce
ad aderire totalmente alla sua visione del mondo e a cercare in ogni riga dei
suoi libri un modo di essere “retto” e “tradizionale”. Così, se lo vediamo
affermare, come fa ne Il Cammino del
Cinabro, che lui, fosse vissuto in un’altra epoca e in un’altra situazione,
avrebbe fatto tutt’altro che scriver libri; se lo vediamo parlare di “stupidità
intelligente” a proposito degli intellettuali; se lo sentiamo dire che ad un
qualsiasi intellettuale ateo preferisce un prete “regolarmente ordinato”, a
questo punto pensiamo che i libri non valgano il nostro tempo e perfino che il
prete della nostra parrocchia abbia da dirci qualcosa di più di un Leopardi o
di un Nietzsche. Ma stiamo solo coagulando, e male, poiché non abbiamo trovato
l’oro, ma riformato il piombo: il piombo dell’“evolismo” in questo caso. Ed
Evola è lì che ride sornione come il maestro zen che lascia il postulante fuori
dal monastero, sotto la neve. Evola ride dai suoi tanti volumi, che lo rivelano
uno scrittore di razza, uno che lo scrivere lo aveva nel sangue, come una
necessità dell’anima. E poi, mentre noi non leggiamo più che i suoi libri, da
questi, ma noi non lo capiamo, emerge la biblioteca sterminata di un lettore
onnivoro, che conosce Guénon e Bachofen, ma anche Joyce, Baudelaire, Abelardo,
i sessuologi Master & Johnson, Reich e i testi delle operette.
E ancora, leggiamo la sua critica alle arti
moderne, all’influenza dei negri e degli ebrei sulle stesse, e ci pentiamo di
aver, magari una sola volta, battuto il piede al tempo del jazz. Ed Evola è di
nuovo lì a farsi beffa di noi, con la memoria che gli va alla Jazz-band-dada-hall della sua mai
rinnegata gioventù dadaista.
Poi, trasportati nel suo mondo di archetipi
uranici e virili, siamo pronti a negare “l’altra metà del cielo”, come se fosse
possibile, mentre Evola mostra, pur abilmente celandola dietro il dominio di
Shiva, la sua attrazione per la scura Devi, per la Maya-Shakti, e muore – ma
guarda un po’! – nel giorno della dea Mater Matuta.
Da ultimo, senza andar più oltre, a un certo
punto ci lasciamo perfino convincere da certi suoi passi a tornare – come oggi
molti “atei devoti” – al cattolicesimo del Sillabo,
mentre Evola nel suo testamento prescrive per sé funerali senza riti cattolici
e poi la cremazione del corpo, il che per il cattolicesimo del Sillabo vuol dire andar spediti
all’inferno.
Ma allora cosa ci ha veramente insegnato
Evola? E chi era Evola? Noi lo chiediamo ai suoi libri, e lui ci fissa fuori da
essi, da un tabarin in smoking e monocolo e da un monastero carmelitano vestito
col saio, da una corda di alpinista sospesa nel vuoto e da una poltrona sui cui
siede paralizzato ma straordinariamente vitale. Il suo sguardo ha il sorriso
olimpico degli Dei di cui ci ha parlato ne L’Arco
e la Clava. “Non ho avuto maestri”, ci dice come il Buddha ed Eraclito; e
come questi antichi maestri ci invita a cogliere l’eterno fluire della vita, la
precarietà delle cristallizzazioni, siano essi i concetti che le persone,
quindi a scrutare la verità ultima, che è quella della folgore che governa
tutte le cose.
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