Francesco De Palo
Ciò che sta accadendo in Turchia, con almeno due morti secondo
Amnesty, è la plastica raffigurazione di come un processo verso la democrazia
si scontri con scogli atavici e drammaticamente immobili. Che forse fino a oggi
sono stati mascherati e chiamati con un nome diverso da quello reale. Il no
alle politiche filo-religiose del governo Erdogan, sfociate poi nella protesta per
la costruzione di un megacentro commerciale, non possono trovare sulla propria
strada violenza e repressione. Come se anziché nella civile e moderna)
Istanbul, ci trovassimo in Siria o in Libia: perché questo è il piano delle
cose, piaccia o meno. Sotto gli occhi di un'Europa (tanto per cambiare)
attonita ecco le enormi contraddizioni che affliggono la Turchia moderna, l’elite
che non riesce a districarsi tra il ricambio generazionale di un premier giunto
alla scadenza del suo mandato e la voglia di occidentalizzarsi senza se e senza
ma.Dove una certa tradizione islamica e la falange (costituzionale,
dai tempi di Ataturk) rappresentata dai militari sono due zavorre forse troppo
pesanti per essere trasportate anche per un solo miglio. La repressione crudele
e sanguinosa andata in onda in questi giorni non è accettabile da chi si
professa moderno, laico e desideroso di essere guardato con altri occhi. Perché
violenza genera violenza, perché non è con lacrimogeni o con getti di acqua
negli occhi che si insegna il rispetto per le regole o che si consente la libera
manifestazione di pensieri e opinioni. La reazione delle forze dell’ordine
altro non è che l’ennesimo passo compiuto da Erdogan verso l’attuazione di un’agenda
islamica tout court, che vuole imporre uno status religioso e un proibizionismo
inaccettabile. E lo dimostrano le restrizioni al consumo di alcool o
all'abbigliamento andate in sena nelle ultime settimane: provvedimenti che un
governo è libero di adottare, ma a patto che un attimo dopo non pretenda di
essere epitetato come moderno, democratico ed europeo.La società turca oggi appare frammentata nelle sue viscere, e
accusa un desiderio di concretezza sociale che le parole e gli slogan di una
classe dirigente forse troppo presa dalla foga di mettersi in mostra e di dare
lustro al boom economico, non ha gli strumenti per realizzare. E la piazza
Taksim, con i millesettecento manifestanti arrestati, è lì a dimostrarlo.
La rapida espansione dell'economia turca, con la notizia della costruzione del
terzo ponte sul Bosforo e del secondo mega aeroporto della capitale, non può
portare automaticamente un progresso sociale e intimamente politico se non sarà
accompagnata da una profonda trasformazione della stessa classe dirigente. Più
pil e più volume di affari non sono sinonimi di miglioramento della qualità della
vita o di più diritti.A prima vista, la “primavera di Turk”, così come è stata
ribattezzata, può essere un’occasione, forse l'ultima, per fare chiarezza su
Europa, allargamento e progresso sociale di un pezzo di Medio Oriente che ha
vissuto in una contraddizione di fondo. Dove quei cittadini si sentono europei,
moderni e vogliosi di diritti, mentre una classe dirigente pigra e dalle voglie
espansionistiche, come dimostrano i continui e provocatori sconfinamenti di
fregate militari turche in acque greche, dimostra di aver recitato un copione.
Sbiadito e non più credibile. (twitter@FDepalo)
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