Federico Magi
Paolo Sorrentino non è il
primo e non sarà certo l’ultimo, tra gli artisti d’ogni genere ed epoca, a
voler cantare Roma nella sua ambigua e cocente bellezza e nelle sue contraddizioni
che sembrano ancorarla a uno spazio che da sempre sopravvive e che anzi si
rigenera, da che storia è storia, in un territorio immaginato al di là del bene
e del male. Col suo ultimo film, La
grande bellezza, ardua è stata dunque l’impresa di seguire, di là dal tempo
passato e consumato dai decenni di distanza trascorsi nel secolo breve e nel
nuovo millennio, le tracce del capolavoro di Federico Fellini tanto amato e
celebrato, La dolce vita, cui
Sorrentino fa evidente ed esplicito riferimento sia nella struttura che negli
omaggi più o meno diretti, e in qualche modo allo stesso Roma, successiva opera del maestro riminese che chiudeva il cerchio
degli omaggi cinematografici del quattro volte premio Oscar alla città eterna.
Per Sorrentino Roma è infatti
La grande bellezza, in un’accezione
davvero ampia, dai significati plurimi e dai molteplici risvolti pratici ed
emotivi per chi sceglie o si trova a viverla: una città che attrae come una
calamita e respinge come il più orribile mostro metamorfico, qualora le sorti
dei suoi noti e meno noti protagonisti non siano più quelle sognate o sperate.
Ne La grande bellezza, sesto
lungometraggio dell’artista partenopeo, Roma si fa paradigma dell’odierna
italica decadenza, attraverso lo sguardo disincantato del suo novello Virgilio
sceso agli inferi, il giornalista e scrittore (un solo “mitico” libro
all’attivo, ma tanto basta) Jep Gambardella, re della mondanità un po’ annoiata
e decadente degli ex sessantottini arricchiti, delle starlette senza talento,
dei nobili decaduti, e di tutto quel variegato mondo dello spettacolo che
sopravvive a se stesso e ai suoi stanchi riti nelle lunghe notti all’ombra del
Colosseo (dove egli stesso vive, in un attico con vista meravigliosa). Una Roma
che meglio non poteva essere introdotta che dalle parole che aprono uno dei
capolavori più caustici e pessimisti della letteratura del Novecento:
“Viaggiare è proprio utile, fa lavorare l’immaginazione. Tutto il resto è
delusione e fatica. Il viaggio che ci è dato è interamente immaginario. Ecco la
sua forza. E poi in ogni caso tutti possono fare altrettanto. Basta chiudere
chi occhi…”. Le parole d’apertura di Viaggio al termine della notte di Louis-Ferdinand
Céline sono mutuate da Sorrentino per significare il fascinoso inganno e al contempo
la potenza evocativa di un viaggio nell’illusione puramente immaginifico, che
consuma anche i pochi fortunati che hanno creduto di domarla, questa (città)
intensa bellezza, finanche di controllarla, come appunto Jep, arrivato a 65
anni ma stanco e annoiato dal circo rutilante che vive ininterrottamente da
quando ragazzo si trasferì nella capitale. Ha ammesso Sorrentino a colloquio
con lo scrittore Alessandro Piperno: “Sai perché adoro Céline? Perché lui ha
sempre la battuta definitiva. E questo nella vita avviene di rado…”.
D’altronde, l’umanità con cui viene a contatto quotidianamente Jep,
ricco stanco e in vena di bilanci esistenziali, è descritta da Sorrentino senza
soffermarsi troppo sulle psicologie, tracciando più che altro personaggi archetipici
facilmente riconoscibili e delineati dalle loro “battute”. Nessuno o quasi si
salva, in questa grottesca discesa agli inferi, nella quale Roma non è solo
spettatrice immobile, ma partecipa in qualche modo, dall’alto della sua
irraggiungibile bellezza, alla decadenza e al crollo di un mondo
prevalentemente alto borghese che sta a rappresentare l’emblema di un paese
intero in progressivo disfacimento morale. Nel condurre lo spettatore in questo
viaggio lugubre, mortifero e a tratti decisamente disturbante di quasi due ore
e mezza, Sorrentino si conferma fedele ai suoi tratti cinematografici
distintivi, scegliendo di privilegiare la magniloquenza dell’immagine, affidata
a una splendida fotografia di Luca Bigazzi e a una messa in scena tanto
opulenta quanto il contesto che descrive. La macchina da presa spazia ovunque
con estrema disinvoltura, non negandosi traiettorie ardite per il nostro cinema
sovente monodimensionale, con improvvisi avvicinamenti sui volti e soggettive
degne del miglior thriller argentiano. Anche gli attori di contorno a Toni
Servillo sono tutti convincenti (da Verdone alla Ferilli, a Iaia Forte, Galatea
Ranzi e il solito ottimo Herlitzka), ed alcuni talmente azzeccati nei loro ruoli
quanto tragicamente emblematici (lampante è il caso del personaggio vagamente
autobiografico e palesemente ingrato interpretato da una coraggiosa Serena
Grandi, in qualche modo simbolo del disfacimento fisico e morale). Ma come la
grande bellezza che vuol descrivere anche il film sembra contagiato da mali
affini, ovvero sia un’ostentata opulenza cui manca un centro di gravità, ovvero
la scrittura. Se nelle intenzioni, e in parte anche nella resa estetica e
contenutistica, La grande bellezza è
un film che si eleva decisamente dalla media del cinema nostrano (da segnalare
anche alcuni passaggi lirici di notevole livello), è ancora una volta nella
sceneggiatura che Sorrentino (e con lui il co-sceneggiatore Umberto Cantarello)
mostra il suo limite più macroscopico, già riscontrato in tutte le opere precedenti.
La storia in effetti è troppo sfilacciata, e se a sorreggerla non ci fosse un
grandissimo Toni Servillo, vero plusvalore artistico a disposizione di
Sorrentino, qui come ne Il divo e ne Le conseguenze dell’amore, i difetti
evidenti del film sarebbero venuti ancora più a galla. Detto ciò, non si può
negare nemmeno che il regista napoletano avesse un difficile contraltare
artistico di riferimento come La dolce
vita, e che il coraggio e l’ambizione di voler proporre un’opera che
vivesse anche di riconoscibili contaminazioni e citazioni letterarie (Céline,
Proust, Flaiano, Turgenev), ancorché a volte un po’ostentate, gli va
riconosciuto. Come gli va riconosciuta la disposizione a immaginare un cinema
che volta alto e che scruta i mali conclamati del Bel Paese da una prospettiva,
a differenza di altri meno affermati artisti nostrani, più morale che
moralistica. E il citare Céline, a questo proposito, non sembra sia affatto un
caso - seguendo il filo rosso immaginato da Sorrentino, in cui è centrale il
tema del viaggio - considerando cosa ha rappresentato Céline per i benpensanti
del secolo scorso, anche quelli ritenuti illuminati e politicamente corretti.
Certo Céline è in parte stato “sdoganato” dagli artisti e i lettori privi di
pregiudizi, perché proprio il suo ferocissimo e disilluso Viaggio alla termine della notte, scritto ottanta anni fa in un
mondo a cavallo tra due guerre, è un’opera straordinariamente profetica e
sostanzialmente atemporale nel descrivere l’anima umana – in una
realtà-modernità di rapporti mercificati e valori ribaltati in cui apparenza e
realtà sono spesso sovrapposti – e le sue profondissime miserie, adatto a
spiegare la decadenza ancora oggi e soprattutto oggi, quelle macerie morali che
sopravvivono come le braci sotto la cenere del fuoco fatuo e ingannevole che si
nasconde dietro la fuggevolezza dell’incanto. “Basta chiudere gli occhi”,
scriveva Céline, proprio “dall’altra parte della vita”.
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