giovedì 30 maggio 2013

Cantavamo “Dio è morto” e “Io vagabondo”: cinquant’anni con i Nomadi


Luciano Lanna

È ufficiale. Con il film-documentario L’ultima Thule, co-prodotto dalla moglie Raffaella Zuccari e in cui si racconta l’album che chiude la sua carriera discografica, Francesco Guccini dice addio al mondo dello spettacolo: «Non canto più in pubblico, per gli amici sì, magari dopo una cena...». E l’ultimo atto creativo il Guccio lo regala ai Nomadi, lo stesso gruppo che fece esordire i suoi testi e la sua musica: «Ho scritto una canzone per i loro cinquant’anni, si intitola proprio Nomadi e gioca un po’ sul significato letterale e sul nome della band. Ma non vado oltre, sarà Beppe Carletti a parlarne…».
Questo 2013 d’altronde è un anno di ripetuti e importanti cinquantenari per la musica pop. Non solo per i Beatles e i Rolling Stones che proprio nel 1963 registravano le loro prime incisioni ma anche per i nostri Nomadi che compiono in questi giorni cinquant’anni di vita e di avventura musicale. Il leader della band, Beppe Carletti, ha scelto per il compleanno Cesenatico, nel cui stadio dal 14 al 16 giugno si terrà una kermesse in puro stile Nomadi: con il gruppo in tre concerti, stand, mostre e quant’altro. D’altronde la storia dei Nomadi è iniziata proprio quando Beppe Carletti, a sedici anni, incontra Augusto Daolio, un coetaneo dagli occhiali neri che lavorava nel bancone del bar di famiglia e alla sera cantava, per gioco, a La Pineta. E fu ai tavoli di un altro bar che Beppe e Augusto decisero che avrebbero girato l’Italia con una loro band, I Nomadi. Augusto, la voce della band, è morto prematuramente nel settembre 1992, più di vent’anni fa, ma il gruppo c’è ancora, e anzi è la band più longeva della musica italiana, con alle spalle 300 canzoni e 35 album. Beppe racconta tutto questo, e molto altro, in un bel libro, Io vagabondo. 50 anni di vita con i Nomadi (Arcana, pp. 192, euro 17,50) utile anche per ripercorrere la storia degli ultimi decenni attraverso l’immaginario: “Fino a un istante prima era l’infanzia, poi, improvvisamente, diventammo adulti. Il 13 giugno del 1963 i Nomadi iniziarono la loro estate al Frankfurt Bar di Riccione e qualcosa dentro di noi cambiò per sempre…”.


Il vero e proprio debutto davanti al pubblico del gruppo in quanto tale fu il 22 novembre, la sera dell’omicidio del presidente JF Kennedy. Nel 1966, poi, finisce la fase da balera e inizia quella dell’impegno beat. “In quel momento storico – rievoca Carletti – nel nostro paese c’erano quasi sei milioni di ragazzi tra i quindici e i vent’anni, e il 1967 divenne l’anno con il massimo delle presenze sui banchi di scuola…”. In questo clima un amico, Dado Veroli, arriva a casa di Augusto, dicendo che doveva far ascoltare qualcosa di molto interessante: “Roba forte, ragazzi. Sono canzoni scritte da  un mio amico cantautore che vive a Bologna”. Il suo nome era Francesco Guccini e su quel nastro c’erano le versioni grezze di brani come Dio è morto, Noi non ci saremo, Per fare un uomo, Canzone per un’amica
La prima a venire registrata fu la più forte dal punto di vista emotivo: Dio è morto, che era stata scritta da Guccini nel 1965. Nel titolo si citava Friedrich Nietzsche e nell’attacco faceva il verso a Urlo di Allen Ginsberg, il poeta della beat generation: “Mi han detto / che questa mia generazione ormai non crede / in ciò che spesso han mascherato con la fede / nei miti eterni della patria e dell’eroe / perché è venuto ormai il momento di negare / tutto ciò che è falsità / le fedi fatte di abitudine e paura / una politica che è solo far carriera…”.  La canzone ebbe la strana ventura di venire censurata dalla Rai e trasmessa invece da Radio Vaticana. Pare che nemmeno i discografici all’inizio la volessero, proprio per quel titolo che nella primissima versione da far accettare all’Italia democristiana aveva un prudente punto interrogativo alla fine. I Nomadi, comunque, fecero la furbata di farsi fotografare mentre “regalavano” il disco a Paolo VI durante un’udienza del 1967. E, come racconta Roberta Beretta in Cantavamo Dio è morto (Piemme, 2008, pp. 220, euro 13,50), “di certo dal Sessantotto in poi quelle strofette furono eseguite a suon di chitarra più e più volte nelle chiese di tutt’Italia…”.


Lo attesta lo stesso Beppe Carletti: “I primi a cantare Dio è morto furono proprio i preti, e lo fecero suonare anche in chiesa”.  Diverso l’esito nel circuito della musica leggera, dove quell’anno i Nomadi portarono la canzone al Cantagiro: “Fu più di una sfida, fu un azzardo. La carovana partì da Catania il 21 giugno. Il testo d’altronde non lasciava spazio all’immaginazione e raccontava di una generazione che non credeva più ai ‘miti eterni della patria’ e nemmeno al ‘perbenismo interessato’ e a una ‘dignità fatta di vuoto’. Non riuscimmo a finire la prima strofa che iniziarono ad arrivare i sassi dal pubblico, conditi da qualche insulto. Per farla breve – prosegue Carletti – fummo costretti a mettere un sottotitolo al titolo del brano che diventò Dio è morto (se Dio muore è per tre giorni, poi risorge)…”.

Ma, come dicevamo, la canzone si impose invece tra i giovani tutti, laici e cattolici, di destra e di sinistra. Allo stesso modo in cui, cinque anni dopo, estate del 1972, si impose col solo passaparola Io vagabondo, anche questa poi diventata un must anche nelle parrocchie e nell’associazionismo cattolico di quegli anni: “Io vagabondo che son io / vagabondo che non sono altro /soldi in tasca non ne ho / ma lassù mi è rimasto Dio…”. Tre minuti e dieci secondi di emozioni – si legge in Dio, tu e le rose. Il tema religioso nella musica pop italiana (Il Margine, pp. 360, euro 18,00) di Brunetto Salvarani e Odoardo Semellini – per una pezzo che è diventato leggenda e inno generazionale, pur classificandosi, anche in questo caso, solo al tredicesimo posto al Disco per l’Estate. Il testo della canzone ribadiva la scelta on the road, della libertà esistenziale e spirituale, contrapponendola alle false sicurezze piccolo-borghesi e all’arrivismo come modello sociale. Ancora oggi, vent’anni dopo la scomparsa della voce di Augusto Daolio, ascoltarla e cantarla è senz’altro il modo migliore per restare fedeli allo spirito dei Nomadi e (forse) al meglio degli anni Sessanta e Settanta.


Giuseppe Rensi, il filosofo che negli anni Venti riscoprì lo scetticismo contro tutti gli assoluti



Fabrizio Baleani

La storia del pensiero non sfugge alla sforbiciante inesorabilità delle convenzioni e assegna spesso la scena della notorietà al movimento filosofico ufficiale liquidando le voci anticonformiste. A qualche sconosciuto di valore è concesso d’emanciparsi da un’ultradecennale scorza d’oblio, grazie ad interventi estemporanei, confezionati da alcune celebratissime teste influenti della penisola.
Ma più che alla conclamata nobiltà d’animo degli esponenti dell’establishment culturale italiano, i proscritti d’ogni latitudine debbono la loro riscoperta a chi sa far correre lo sguardo dove s’esercita  la miopia delle maggioranze rumorosissime.
Piccoli editori e curatori d’occasione ricordano, meglio d’un accademico seduto sulla propria celebrità e sulla schiavitù dei suoi subordinati, il senso della parola ricerca.
Ed è stata proprio una casa editrice anconetana, la Gwynplane, a mettersi sulle tracce di un’originale trattazione del concetto di lavoro firmata da Giuseppe Rensi.
Contro il lavoro è il titolo con cui viene riproposto un saggio degli anni Venti, L’irrazionale, il lavoro, l’amore.
Rensi nacque a Villafranca di Verona nel 1871. Dopo la  laurea in Giurisprudenza, si trasferì a Milano e aderì al Partito Socialista. Da giovane giornalista ventitreenne,  assunse la direzione del giornale Lotta di Classe, collaborando al contempo con  Critica Sociale di Filippo Turati. La repressione, seguita ai tumulti del 1893, lo costrinse a riparare nel Canton Ticino. Tornò in Italia, nel 1908, e cominciò a studiare i fondamenti teorici del diritto e dell’etica. Vinse la cattedra di Filosofia Morale presso il Magistero di Firenze. Qui rimase sino al 1918, anno in cui si diresse a Genova per stabilirsi definitivamente, nel capoluogo ligure. Le degenerazioni di quegli anni, culminate con l’esperienza bellica, lo indussero, sulle prime, a cercare nel nascente fascismo, un “socratico” rimedio agli eccessi dell’epoca. Ma la maturazione di un pensiero “antidogmatico”  gli costò l’allontanamento dalle aule universitarie nel 1927. L’attualità del pensatore italiano consiste nell’aver recepito uno dei più stabili connotati d’una certa fase “critica” del pensiero europeo: lo scacco dei grandi sistemi  tradizionali, di stampo positivistico e idealistico, di fronte alla tragicità della guerra e a un “filosofare” non all’altezza dei rivolgimenti del “vivere”. Dopo il primo conflitto mondiale, i guadagni teorici sembravano muti rispetto all’evoluzione  precipitosa e inafferrabile della storia.  Inoltre, i resti di un“ periodo sanguinoso forsennato, pieno di macerie ”, “incomparabilmente sismico”, mal s’adattavano, secondo il pensatore veronese, alle elaborazioni  dottrinarie che pretendevano d’apporre il proprio marchio di vittoria sul desolante panorama di una faticosa ricostruzione spirituale. L’attenzione all’anatomia di un presente lacerato, frammentario, dominato da un “agone fratricida” di motivi e umori parziali convinti d’incarnare “la Ragione Universale”, assurse, nella meditazione del filosofo veneto, a metodo d’analisi consistente nell’opposizione ai fondamenti imperativi e “inconcussi” di tutti i territori del sapere. L’impegno di Rensi fu sempre mosso a educare, nei giovani, quella feconda attitudine critica che rifiuta di riconoscere, a proposizioni consolidate, una validità permanente.  Il mondo ideologico primo-novecentesco gli appare come un “pluriverso”, scisso in inconciliabili antinomie, caratterizzato dal fronteggiarsi di valori e principi contrastanti. Il polemos gli appariva un contrassegno ineludibile sul dorso di quegli anni frenetici. Nello scritto La guerra e l’assolutismo, la follia della devastazione bellica è indicata come il crollo della grandiosa messa in scena razionalistica e come prova dell’inesistenza d’una comunità e universalità di ragione. Le accelerazioni dalla “più compiuta e tragica esperienza di massa” avrebbero condotto “le idee a mutare e involvere in casacche” rispondendo “alla chiamata di un intimo assolutismo della Ragione”. Gli uomini “catturati dall’incantagione dell’idea,” chiusi nell’uso “meccanico” e “metafisico-concettualistico”  della deduzione logica, sono convinti, tutti, di possedere la verità, rappresentare la giustizia e fuggire la contraddizione. Per questo, essi difendono le loro “evidenze intellettive” a ogni costo.  Nel confronto tra singoli individui, gruppi o nazioni intere, si riverbera “l’isostenia delle ragioni” che portò Eteocle e Polinice ad affrontarsi e a uccidersi. Il conflitto, a giudizio del pensatore veronese, è figlio della credenza che esista un solo spirito e non tanti quanti sono gli uomini.  L’assunzione di un valore metafisico da parte della ragione impiglierebbe, dunque, la mente umana, in un invincibile dogmatismo, di matrice idealistica consistente nella contraffazione della conoscenza e nell’opera di dissimulazione del reale sotto l’onnivora telaragna del razionale.
I neoidealisti italiani  benché radicalizzassero il momento negativo in virtù della costante necessità di allontanamento del dato bruto, di una sua rimozione  nel pensato, e “dell’esigenza di far sparire il contraddittorio” si riferivano alle nozioni totalizzanti e rassicuranti del vecchio idealismo  (L’idea della Verità come imperituro moto ascensionale dello Spirito, dell’Io come Io trascendentale, dello Stato come Stato Etico).
L’esaltazione del processo e dello sviluppo diveniente del pensiero sarebbe una sorta di vernice ideologica sotto le cui tinte policrome si celerebbe il dominio dell’opinione comune, la statuizione di sistemi morali originanti dalla forza ma giustificati come razionali, la prevaricazione del gruppo sociale più numeroso e meglio organizzato volto a rappresentarsi come totalità idealmente  superiore in un “progressivo” e “ artificialmente trionfante” procedere. La critica del soggettivismo razionalistico e del progresso, la denuncia delle sue aporie, delle sue “finzioni”, dei suoi inganni, assume la forma di una feroce polemica antigentiliana. La prospettiva di Rensi  recupera la tensione metafisica dei classici e un severo distacco nei confronti di un’albeggiante modernità.



L’avanzare dell’ ”Assoluto” nella negazione e nel superamento delle sue figure storiche, così come è descritto nella riforma dialettica attuata da Giovanni Gentile, conferisce all’intera vicenda umana il moto, ravvisato dal grande pensatore di Castelvetrano,  di un “Eterno Tantalo che stende la mano ai dolci pomi del reale e non ne coglie mai abbastanza da arrestare il suo inestinguibile desiderio”. Secondo il professore veneto  l’idea che la Storia si debba “ svolgere secondo quella  concatenazione causale preesistente al suo accadere e sia dunque destinata a nuove e incessanti vittorie dello Spirito”, segnalerebbe nell’”hegelismo gentiliano” uno sbilanciamento a favore dell’ottimistica irrefrenabilità dell’avanzamento storico e la sostanziale trasformazione dell’attualismo in una “metafisica della privazione” (stereisis).
Infatti, proclamando il carattere “in perpetuo fieri” della “verità” e della “logica dell’atto”,  Gentile capovolge radicalmente la subordinazione della potenzialità all’attualità, del processo alla meta, stabilita da Aristotele.
L’esito di questa nuova impostazione richiede che nessuna attualità si perfezioni più. Qualunque risultato, ente, presente deve essere forzatamente subordinato al suo movimento senza senso.  Pertanto il corso storico sul quale poggiano “i raggi dello spirito” e il dispiegarsi dell’”assoluto” tra i chiaroscuri del divenire moderno, è mero muoversi cui risulta necessaria l’assenza di raggiungimento.
L’intero orizzonte  della scena umana si dimostra, quindi segnato da un “susseguirsi d’incompiutezza”, un muoversi auto-evidente ma incapace di fondare se stesso, difettoso,vuoto, puro mezzo.
Lo scenario che ne risulta è nominato “assurdo”. La filosofia dell’assurdo è una visione della storia come teatro della contraddizione.
Ogni istante della ripida linearità temporale presenta ripetuti crolli, svelati nella loro tragicità non uniformabile da alcun adattamento razionale. Ciascun attimo forza il presente “a venir fuori da se stesso, ad avvertire di vivere per il poi, per il non ancora”.
L’inabissamento perpetuo, privo di “ credibili spegnitoi dialettici”, è il precipizio di ogni filosofia, la morte di ogni “compaginazione di pensieri ” che pretenda un’autonoma verità,  sviluppandosi sulla via della contraddizione  e di un progressivo “cammino sui carboni ardenti”.
L’immagine di un’azione che attende la sua conclusione in un altrove perennemente inavvicinabile, rimanda al tormento di Sisifo e ritrae una meccanizzazione razionalistica dell’esistenza e della vicenda storica
Il potenziamento del robusto “corpo di concetti” che avvolge la vita per renderla tollerabile, può tornar utile a “consolare gli uomini e il presente, giammai a giustificarli”.
L’indagine rensiana sorge  dal desiderio di comprendere il reale e, al contempo, dal rifiuto di accasare la conoscenza “in una delle frenetiche sistematizzazioni vincolanti del concetto” poiché è “impossibile conoscere veramente la vita”.
L’impasse è annodata ai due lembi di un medesimo fondo “senza scopo e ragione”, ovvero “irrazionale”.  Da un lato il mondo bruto, incatenante, dall’altro il desiderio violento di chiarezza, “il cui richiamo risuona, radicalmente, nell’uomo”.  L’assurdo dipende dunque tanto dall’uomo quanto dal mondo e lega gli esseri “come soltanto l’odio può stringerli gli uni agli altri”.  Il “furore” e la “cecità razionale” che sono “determinismo dell’eloquenza delle cose e dell’auto-evidenza” non  sapranno mai appagare “la richiesta di un assenso in grado di dichiararsi onesto”.
In quell’adesione che il saggista di Villafranca qualifica come “onestà” sono contenuti sia il concetto metafisico della filosofia, col suo inevitabile portato d’insoddisfazione e d’angoscia, sia il concetto relativistico del reale.
Nessuna certezza “positiva” è possibile perché tutto è contingente e mutevole.
L’accoppiamento dei due termini in una dialettica antinomica che non prevede alcuna sintesi  costituisce l’originalità di questa particolare variante d’esistenzialismo.
Non sorprende, dunque, come nella “corsa  appassionata verso una prospettiva più sincera” il filosofo veronese si sia scagliato contro “quell’idealismo giocoliero di idee, propenso a condizionare l’uomo, a prendere il suo Spirito e ciò che in esso si manifesta come l’Assoluto, producendo l’ora violenta, torbida, fanatica, dell’epoca nostra.”
L’autore de La filosofia dell’assurdo  esercita qui il suo limpido sospetto  di pensatore “inattuale” , guardando al versante  “oscuro e notturno”  dei soggetti di trasformazione storica che si fronteggiavano nell’appena nata società dei consumi.
Infatti sotto la tenaglia delle opposte fazioni, “chiese  dell’interesse immanente” egli avverte non il trionfo dell’individuo,  ma il sacrificio estremo di quest’ultimo allo Stato, alla Nazione, alla Classe; idola novecenteschi impregnati di razionalismo.
I miti politici dunque, lungi dal liberare i cittadini, favorendo un rapporto responsabile tra costoro e le istituzioni, ammantano reali condizioni di forza e di subordinazione con la promessa di improbabili palingenesi da compiersi sotto il segno delle più diversificate e contrastanti compagini di vincitori.
Contro tutti gli “inganni” Rensi rinnova l’efficacia negatrice della “scepsi antica”. Il suo “relativismo” non è altro che “lo sforzo di fare epochè”, di sottrarsi al gioco “mortale” delle apparenze, ravvisando la costitutiva caducità d’ogni vacua “essenza” che si metta in cattedra a spiegare l’esistenza. Egli è convinto, in linea con tutto il pensiero negativo d’Europa,”che occorra “sopportare e vedere con chiarezza l’indeducibilità del mondo e il carattere finito e limitato dell’esistere” attraverso “la grave angoscia dell’uomo lucido”.
.  Tutta la  scena visibile, assurda e “colma d’illusioni” spinge  a relativizzare fatti e prospettive a dispetto “della tendenza a inculcare entrambi in un mosaico di formulette verbali pieno di tinte etiche, politiche, gnoseologiche.” Di ciascun conformismo della Storia, del cuore, della Società, della Morale, solo “l’eccezione” sembra interessare Rensi.  Non è azzardato  riconoscere in lui un’irriducibile “ribellione”, che ricalca le imprecazioni di Amleto, l’amara aristocrazia di Ibsen, la rivolta dell’uomo contro ogni “reale precostituito”. L’andare oltre le posizioni correnti è il martello che  demolisce tutte le parole bramose d’ergersi al rango di sistema. Il coraggio di chi nega le sue ragioni alla “ragione” e dirige i propri passi nel mezzo del deserto in cui tutte le certezze sono divenute pietre, “deve sapersi mantenere su creste vertiginose” sperimentando “il passo del funambolo” che nel percorso, irto di pericoli quotidiani, impara a vivere “senza  sotterfugi”. Il filosofo è “colui che ha sufficiente piombo ai piedi per tenere gli occhi aperti sul dolore e sul male, gettando via “le stesse impalcature della dottrina filosofica.”
La versione rensiana di scetticismo comporta l’approssimazione a quella vetta che squarcia il velo di Maya d’ogni “farmaco” o “rimedio” intento a “coprire la croce del presente con la rosa della dialettica, della risoluzione, del bene”.



Ricordando Giacomo Leopardi, definito “il maggior filosofo italiano”, Rensi afferma esplicitamente:

Il Leopardi dice che solo è utile la sommità della filosofia perché ci libera e disinganna dalla filosofia. La sommità della filosofia è lo scetticismo che ci affranca dall’idolo vano della filosofia-verità senza privarci però della gioia della filosofia-arte.

Lo scetticismo “vertiginoso” che non “giace” su alcuna posizione teorica o precetto particolare liquida “la filosofia-verità”, la “ testa di serpente dello Zarathustra”, “la frenesia dell’assoluto”, avverte l’inconsistenza “della fondazione d’ogni vero” , accantona l’imperatività d’ogni morale predeterminata rispetto all’azione concreta, e intende restituire il mondo delle azioni e dei saperi  alla meraviglia degli uomini, sfilandolo dalle mani fragili, di carta e inchiostro, delle  determinazioni metafisiche.
Si dischiude dunque  “lo spazio di sabbia dell’esistenza”  ove “ l’ingegno” “l’ars” consiste nel vivere la possibilità di un’adesione, la comprensione dei suoi limiti, delle sue circostanze specifiche e concrete,  il sentimento dei suoi impeti, delle sue intensità, e   nell’azzardare una fermezza nel terreno malcerto d’ogni opzione, tratteggiando e rivedendo percorsi, senza confidare nella stolta volontà d’esaurire i problemi etici nella capienza mutevole delle idee.
Gli uomini rintracciano, infatti,  solo nel “ vivo e disinteressato  gioco creativo che li metta in gioco”,  la loro “ignuda natura”, ovvero la massima sincerità dell’esistere possibile in un mondo finito.
Solo la speculazione, l’arte, la “dedizione” sono  “il gioco”  rappresentano una  poietica del senso “davvero libera” che “genera i frutti spirituali più maturi”, attività finalizzatrice non adeguabile a una norma esterna, non terminabile “nel dogma eteronomo”, ma rivolto all’autonomia e “all’ingegnosità pratica e teorica” della vita individuale.
Questo agire, puramente disinteressato, si scontra, secondo il villafranchese, con un’altra “antinomia sociale”, un nuovo “nemico della libertà”, il lavoro delle società “meccanizzate e massificanti”.

il lavoro suol dirsi nobilita l’uomo:è poi vero?Sarà utile certo lasciarlo credere ma l’esperienza non lo conferma[…]non pochi dei nostri operai siano abbruttiti senza patria senza decoro, senza idealità alcuna che non sia il mangiare e il bere, a me non fa alcuna meraviglia […]i lavori restano con l’effetto di asservire anche le anime dei più liberi.

L'esaltazione dell'homo faber, nobilitato dal lavoro, si inserisce nella creazione di un nuovo mito contemporaneo, quello dello sviluppo incontrollato delle risorse materiali al servizio dei mezzi della vita economica, all’interno della quale l’uomo diviene  “mezzo di nessun fine”. Si tratta di una condizione “perpetuamente alienante” che nella prospettiva rensiana, densa di scissioni, diviene insanabile.
La società fondata sul lavoro adegua l’esistere a una catena d’interessi, riducendolo a una “desolata landa d’opportunismo, affarismo e carrierismo”.


per evitare di esser messi, non diciamo in una fornace ardente ma in una soffitta o in un appartamento troppo modesto, si adorerebbe qualsiasi statua d’oro di qualsiasi Nabucodonsor: l’eros etico è ucciso dalla preoccupazione esclusiva di profittare di qualsiasi situazione per riuscire, per arrivare, per fare strada […] conservarsi, procurarsi o aumentarsi il pane.

Nella dialettica oppositiva che contrappone un’antropologia liquida contenuta negli “alambicchi della tecnica” e l’inquietudine dello scegliersi ogni istante senza tributi ai “determinismi della macchina sociale”, l’uomo tenta l’opzione di rintracciare la propria “ignuda natura”  E nel disagio dello stare al mondo cerca di conservarla, di difenderne il nucleo di verità dal bla bla del circostante, in quel circuito d’automatismi e riflessi pavloviani dove la dignità è solo un aggregato di bisogni indotti appesi a una funzione, a un compito strumentale, a una qualche misera utilità per la quale si contraggono relazioni e contatti. In fondo si tratta di un esercizio di essenzialità: restare fedeli a se stessi, tra fuochi fatui e bagliori interrotti.





mercoledì 29 maggio 2013

Ma il futuro è il neocalcio, lo dimostra anche la finale di Coppa Italia


Giovanni Tarantino

Visto “da sinistra” il mondo della curva deve avere una carica di significati particolari, soprattutto quando l’osservatore e lo studioso è magari un tifoso “laziale”. Avete letto bene: “laziale”, come lo sono, ad esempio, gli Irriducibili, attivi fino a qualche tempo fa, o come l’ex Banda de’ Noantri, oppure come il leggendario “Cml ’74. Lazio über alles”. Ma, come abbiamo già detto, nel caso degli osservatori in questione la sensibilità “politica” è assai differente. Ci riferiamo ad Antonio Smargiasse e Guido Liguori, studiosi rispettivamente di storia del cinema e storia delle dottrine politiche, entrambi laziali e “di sinistra” oltre che firme del quotidiano “comunista” il manifesto. Oltretutto, Smargiasse è stato una delle voci di “Lazio.Net”, la web community biancoceleste meno vicina alle posizioni della Curva Nord, negli anni del dominio degli Irriducibili. Un dato che, tuttavia, non gli ha impedito di analizzare alcuni fenomeni di degenerazione del calcio moderno, ponendosi, di fatto, in sinergia con le istanze del mondo ultras, movimentista per vocazione, e quindi, in fin dei conti non allineato alle vecchie logiche di appartenenza “destra e sinistra”.
Smargiasse e Liguori qualche anno fa intervennero sulla necessità di ridefinire l’intero mondo del calcio nel libro Calcio e Neocalcio. Geopolitica e prospettive del football in Italia (edizioni “manifesto libri”, pp. 175, euro 18,00). I due giornalisti parlavano esplicitamente di “neocalcio”, ritenendo superato il concetto contemporaneo di “calcio moderno”: «Gli ultras, che ne sono oppositori risoluti, usano ­ sostengono i due – l’espressione calcio moderno. A noi sembra invece più appropriata l’espressione neocalcio, in primo luogo perché la fase attuale si configura per taluni aspetti come post-moderna: “moderno” infatti indica un periodo storico iniziato alcuni secoli fa e per taluni ormai superato da tempo… Il prefisso neo suggerisce di concentrare l’attenzione sulle novità del fenomeno in questione. Calcio moderno indica una scansione temporale (peraltro errata), neocalcio sottolinea invece i cambiamenti intervenuti via via nell’universo calcistico». Secondo i due studiosi il passaggio dal vecchio calcio novecentesco al neocalcio sarebbe infatti tuttora in corso e risulterebbe difficile stabilire una precisa data di inizio del processo, ma il neocalcio, in definitiva, sarebbe caratterizzato dall’industrializzazione del calcio, e dalla commercializzazione dello stesso, fortemente connessa alla diffusione del calcio televisivo e al ruolo degli sponsor, che va diventando sempre meno uno sport e sempre più uno spettacolo. Con Antonio Smargiasse abbiamo allora discusso direttamente delle maggiori problematiche legate ai cambiamenti del calcio italiano e non solo…

In diversi ambienti legati al tifo, non necessariamente ultras, e agli appassionati di calcio è riscontrabile un’avversità e un’ostilità verso il cosiddetto calcio degli anni Duemila. Qualcun altro, come il sociologo Pippo Russo aveva parlato dell’invasione dell’ultracalcio, parafrasando L’invasione degli ultracorpi di Don Siegel. Voi lo avete chiamato neocalcio. Definiamolo…

È un problema che investe più soggetti che a loro volta hanno motivi diversi per porsi in opposizione a un’eccessiva industrializzazione del calcio. Una delle ragioni principali è quella che il calcio, e questo da tempo, non viene più concepito come uno sport da varie componenti del mondo del tifo. L’ultras è l’elemento più facile da capire. Nati in Inghilterra negli anni ’60, in forte rottura con il tifo “semplice” e tradizionale delle tribune, i primi ultras erano provenienti dai quartieri periferici, dal sottoproletariato e tra di loro c’era una forte coesione sociale. Il movimento hooligans in Inghilterra, e successivamente quello ultras in Italia, era costituito da bande giovanili, quelle degli anni ’60-’70 che portarono il tema della contestazione negli stadi, non volendo più essere spettatori ma protagonisti degli stadi nella curva: una rottura rispetto al passato.




 E in Italia cosa è successo, invece?

I gruppi italiani furono da subito una imitazione delle organizzazioni politiche (le varie Brigate, ecc.), fenomeno dapprima spontaneo e poi cavalcato fortemente da forze politiche antisistema, di estrema destra ed estrema sinistra. Dagli anni ’80 in Europa il calcio diventa prevalentemente televisivo: i tempi di gioco sono sempre più caratterizzati dalla televisione, ciò che conta è l’immagine. Fino a giungere al modello Sky, ostracizzato all’estremo dalle curve italiane.

Ma il neocalcio, così come voi lo designate, ha un’accezione valoriale esclusivamente negativa? E come vi ponete rispetto al deficit di democrazia che investe i processi di modernizzazione del calcio nostrano?

Noi contestiamo l’avversione al neocalcio in quanto questo rappresenta a nostro modo una possibilità di democrazia. Ci sono diversi presidenti di serie A che devono puntare tutto sul proprio portafoglio che però evidentemente non vale quanto quello di Moratti dell’Inter, giusto per fare un esempio. Così i giocatori migliori delle squadre di seconda fascia, che definiamo subalterne, finiscono per essere ceduti alle grandi. Il problema è passare dalle premesse del neocalcio a una democrazia reale. Il neocalcio punta a una distribuzione equa delle risorse e infatti il modello che indichiamo è quello dell’Nba statunitense dove sono state poste delle regole in maniera tale che anche chi dispone di grandi capitali non li può spendere tutti o quasi per fare la squadra che gli pare. In questo modo il campionato è molto più equilibrato. Allo stesso modo se questo sistema venisse applicato anche in Italia assisteremmo finalmente ad incontri più spettacolari perché imprevedibili e lo scudetto non sarebbe più un affare riservato a tre soli club su venti. Ecco cosa vuole offrire il neocalcio: qualcosa che ridisegni la staticità del nostro calcio. Il neocalcio vuole proporre movimento. Mentre così com’è la nostra industria calcistica sta perdendo competitività.

Lo scandalo di “calciopoli” , che pure sembrò essere da premessa per una riforma del mondo del calcio dalle fondamenta, pare che non abbia contribuito affatto a dei miglioramenti verso una democraticizzazione del movimento.

Con “moggiopoli”, è meglio chiamarla così, non era cambiato tutto ma è cambiato molto. A differenza della Juventus di Gianni Agnelli e Boniperti che disponeva di grandi risorse, quella di Moggi e Giraudo doveva sopravvivere di ciò che produceva. Ma allo stesso modo doveva vincere. Così la struttura criminale architettata da Luciano Moggi serviva a tenere a distanza le milanesi che potevano spendere di più. In parte si sono verificate forme di complicità col Milan, mentre invece chi ne ha fatto le spese è stata l’Inter.

Gli ultras si fanno spesso portatori di un messaggio di autenticità e di valori in un mondo, come quello del calcio, che è sempre più industrializzato. Molti ragazzi delle curve si battono in difesa delle loro maglie, pretendendo che gli sponsor e i partner commerciali non ne modifichino le caratteristiche originali come quelle cromatiche. Altri si battono per il ripristino della numerazione da 1 a 11. Altri ancora vorrebbero la Coppa dei campioni vecchio stile e non l’attuale Champions League. E a questi temi sono sensibili anche molti appassionati e tifosi normali, non necessariamente di curva. Dinanzi a queste problematiche quali sono le possibili soluzioni verso un calcio più a dimensione di tifoso?


Ritengo che gli ultras potevano diventare un soggetto che lavorasse verso forme più democratiche di calcio. Non esistono codici di comportamento e quindi è difficile dire “cosa fare”. Bisogna capire però che il calcio è soprattutto emozione. Pertanto ridiamo spazio alla fantasia, al disincanto e alla gioia. Sviluppiamo il senso dell’identità, la parte più apprezzabile della filosofia ultras. E cerchiamo di andare oltre. È necessario che il calcio cambi, altrimenti si tiferà solo per cinque squadre negli anni a venire. Quindi il mio suggerimento è preciso: manteniamo l’identità ma sviluppiamo coscienza critica.

martedì 28 maggio 2013

Quella regata francese nata come sfida tra giornali


Alberto Pezzini


Questo La regina delle regate (titolo in italiano di “Le rois du large” pubblicato nel 2009 per le edizioni Glenat) è il libro pubblicato dalle Edizioni Mare Verticale e scritto da un giornalista economico del mitico Le Figaro, Fabrice Amedeo, su una delle regate più crudeli al mondo, la Figaro Solitaire. La regata più insonne di tutti mari nasce nel 1969 dentro un ristorante parigino vicino alla Porta Maillot.
In quei giorni Jean Michel Barrault e Jean Louis Guillenard collaborano tutti e due al giornale l’Aurore. A Barrault è stata affidata da pochi mesi una rubrica nautica settimanale. È un uomo di mare. Frequenta marinai come Tabarly e sogna di fare il giro del mondo. Guillenard invece è un diportista ed è il responsabile del servizio esteri per l’Aurore. Ha fatto i Glenan, però,la più grande scuola di vela francese, fondata da un gruppo di reduci e avente come base un arcipelago della Bretagna. Quando Barrault e Guillenard si incontrano, la Francia sta vivendo un momento critico. Si è ripresa dalla guerra, dalla occupazione tedesca e ha dovuto anche regolare i conti all’interno con chi aveva collaborato con i boche: c’è stata anche una sorta di guerra civile. Parigi ha bisogno di sognare e di evadere. L’Aurore è un giornale che ha fama di essere reazionario e di venire letto soltanto da nostalgici del passato, da monarchici e da filo-tedeschi. Ci vuole qualcosa per ridargli una spinta in mare. Nasce così la solitaria Figaro (l’Aurore verrà poi rilevato da Le Figaro, di molto più letto): “Ci siamo detti:perchè non creare una competizione per il grande pubblico. Abbiamo subito pensato a una regata in solitario. Per i velisti è molto eccitante, è più duro ed è impossibile incolpare un compagno di aver fatto delle stupidaggini. Per il grande pubblico, è molto efficace:si identifica molto più facilmente con un uomo di mare solo sulla sua barca. È un po’ l’immagine dell’eroe solo di fronte alla furia degli elementi”.


Nasce così una delle solitarie più dure, più aride di sonno e più adrenaliniche della storia della vela. Le tappe sono sempre diverse ma i mari sono quelli compatti e freddi del Nord: la Manica, l’Irlanda, l’Inghilterra, la Bretagna, il golfo di Guascogna e la Spagna. Coste rocciose e frastagliate come seghe. Le tappe devono essere lunghe, al largo: “Bisogna che i velisti vadano in cerca dell’avventura”, spiega Jean Michel Barrault. La lotta deve essere a mani nude. Niente elettronica, niente telefoni satellitari del tipo Iridium, e tutti possono partecipare, i regalanti da diporto come gli skipper più affermati. La filosofia è un concentrato di libertà alla massima potenza:un uomo, una barca, il mare. Vince il migliore. O come ha detto Pietro D’Alì in un’edizione, vince non chi commette meno errori degli altri, semmai chi non ne commette proprio.
Anche i materiali sono ridotti all’osso, per evidenziare questo momento unico di libertà assoluta, incondizionata: niente carbonio e soltanto kevlar. Quei due giornalisti – e Fabrice Amedeo lo dice bene quando identifica la Figaro Solitarie proprio con un’idea da giornalista – avevano fiutato in quella corsa al largo uno strumento con una straordinaria capacità di ipnotizzare i media e le persone.
L’identificazione con un uomo in mare, che lotta contro gli elementi ed il sonno, e fa tutto da solo come compiere centinaia di manovre in perfetta solitudine, resta il vero cuore di quello sport come di ogni altro.
Potersi identificare con uno skipper ben preciso vuol dire toccare la tela stessa della vela senza dimenticare che equivale anche a farne un argomento buono per i media e le persone affamate di qualcosa capace di sfondare a prua piena la noia mortale del quotidiano.
La testa dei due giornalisti in questo fu di diamante. Ebbero un’idea – lo dice bene Amedeo – che oggi sembra ovvia ma che allora aveva in bocca il sale della novità assoluta (siamo negli anni ’70): “I concorrenti avrebbero avuto l’obbligo di comunicare regolarmente la loro posizione, affinché la gara fosse seguita da terra. In modo che i media potessero raccontare i momenti di suspense o i colpi di scena. Quindi, niente più regate, in cui i velisti sparivano oltre l’orizzonte e il pubblico rimaneva senza notizie, fino al loro arrivo”. Pure Tabarly aveva traguardato gli Stati Uniti nel 1964 in quel modo, senza sapere se era primo oppure ultimo.
Il mondo della vela cambiava in modo radicale, con una strambata bestiale pensata, ideata e piazzata in mare aperto da due giornalisti che sognavano ad occhi aperti grazie a una visione strategica lucidissima.
Nasce così una regata con caratteristiche uniche. Ha già visto quaranta edizioni e tutti quelli che vi partecipano diventano buoni per scalare gli oceani intorno al mondo. È una corsa che assomiglia – più di tutte – a una volata all’ultimo respiro. Non si dorme mai ed il sonno è forse uno dei protagonisti assoluti di quei giorni d’estate attesi fino all’ultimo centesimo di secondo da milioni di persone. Nel 1989 è uscito un libro sulla Solitaria intitolato Vinca chi non dorme di Anne Réale e Thierry Vigoureux (“Que le veilleur gagne”).
Fino agli anni ’80 tutti i partecipanti pensavano che per vincere la gara fosse necessario astenersi dal sonno, tenersene lontani come da qualcosa di dannoso. Tutte le tappe finirono per assomigliare a delle veglie contronatura. Olivier Moussy – intervistato dall’Aurore – esclamò: “C’è da diventare pazzi. Finiremo in manicomio”. C’è una fotografia di Kito de Pavant – vincitore della Figaro nel 2002 – che la dice lunga sullo sforzo soprattutto nervoso a cui gli skipper si sottopongono ancora oggi per partecipare alla regata. Che merita tutto l’appellativo di crudele. Lei, la solitaria del Figaro, spreme i suoi marins, i suoi marinai d’acqua salsa, come limoni.
La mancanza di sonno ha peraltro dato la stura anche al fenomeno delle allucinazioni in mare. Spiegato scientificamente grazie alla lotta tra la voglia dolcissima di cadere nelle braccia di Morfeo da una parte e l’ansia di stare svegli tipica di uno skipper in corsa. In quella zona di metà stanno le allucinazioni che comunque derivano scientificamente dalla mancanza cronica di sonno. Oggi la regata solitaria per antonomasia si gioca e si vince invece grazie a una parcellizzazione intelligente dei ritmi sonno – veglia e il modulo tipico del passato per cui non si poteva dormire per niente è stato buttato da parte come un vecchio tangone scassato.
Un altro pericolo collegato alla mancanza di sonno va visto nei cargo, i mercantili che di notte – soprattutto – possono svettarti davanti, dal buio, come giganti d’acciaio capaci di disalberare un Figaro Solo senza neanche fare una piega. Sono camion d’altura alti come grattacieli, anonimi, bui come cavalieri della morte, il cui radar sembra non coprire mai i navigatori solitari. Il terzo e ultimo pericolo di una corsa del genere sta nella sindrome psicotropa che in qualche modo diventa una specie di abito mentale dei partecipanti. Chi partecipa alla Figaro diventa una specie di reduce che ha provato – almeno una volta nella vita – una simbiosi pura con il mare ma soprattutto con uno stato di grazia assoluta, unica. Stare in mare da soli, senza aiuti, contando soltanto su sé stessi, e giocando con la propria anima e la voglia di arrivare davanti agli altri, sembra che si trasformi in uno stato mentale difficile da sfiorare nei giorni normali della vita quotidiana. La Figaro dà adrenalina liquida ed è come una specie di droga naturale, da assumere una volta all’anno, assolutamente difficile da etichettare.
Inoltre va ancora aggiunto che nei giorni della regata – per quanto gli skipper siano soli – si crea tra di loro una specie di patto di mutuo soccorso silenzioso per cui ognuno aiuta gli altri, in qualunque modo, e gli skipper più famosi non disdegnano di soccorrere o semplicemente consigliare anche l’ultima delle matricole. Radio Cocotier – ad esempio – è lo strumento per mezzo del quale tutti i partecipanti si tastano a vicenda il polso durante la gara.
È quel senso di solitudine per cui tutti navigano come un branco di lupi che cacciano insieme a fare della Figaro una straordinaria prova umana. È per questo che i francesi – purtroppo – sono più avanti di noi italiani sul mare. Hanno capito che il mare – come la montagna – incarna una delle vie di fuga dell’uomo moderno. Ancora.
Per questo motivo tentano di forgiare delle prove capaci di sfruttare le uscite di soccorso dalla noia quotidiana, dalla nausea di Sartre sfruttando ciò che Dio ci ha dato, il mare o le montagne.
Andare in mare da soli, dentro una barca, per vincere o meno è un concetto molto spoglio e semplice. Ma noi facciamo fatica a comprenderlo e ci carichiamo di materiali costosissimi per battere il mare manco fosse anche quello un mondo da isolare in settori.
Da una parte la prima classe e dall’altra la seconda e poi la terza , e ancora avanti così. Che la Figaro funzioni lo dimostrano i milioni di persone che la seguono ed il fatto che anche l’ultimo possa vincerla. Non c’è bisogno di avere tanti soldi perché il mare è di tutti. E la semplicità resta un abito dei re.

Robert Capa, un secolo fa. Torino celebra i suoi scatti


Chiara Coco


Aveva venticinque anni quando la rivista inglese Picture Post lo proclamò “il miglior fotografo di guerra del mondo”, pubblicando undici sue foto scattate durante la guerra civile spagnola. Lui è Endre Friedmann, ma questo nome non è noto a nessuno, tutti piuttosto lo conoscono come Robert Capa, quel nome che scelse assieme alla sua compagna e fotoreporter Gerda Taro, per pubblicare le sue foto in Europa, fingendo che si trattassero di scatti di un fotografo americano di successo, affinché il compenso fosse maggiore. Il trucco, che fruttò ai due un bel gruzzoletto, venne presto scoperto e da allora Endre iniziò regolarmente ad usare quel nome dimostrando di essere all’altezza della sua reputazione, sempre pronto, sempre in prima linea, con quel misto d’incoscienza e di coraggio che contraddistingue i corrispondenti di guerra. Nato a Budapest nel 1913, ancora molto giovane fu costretto a lasciare l’Ungheria perché coinvolto nelle proteste contro il governo autoritario. A poco meno di vent’anni approdò in Germania, da cui dovette fuggire nel ’33 a causa delle sue origini ebraiche. A Parigi, città che in quegli anni attraeva a sé migliaia di fuoriusciti da tutta Europa con il suo fervore artistico e intellettuale, Endre incontra Gerda Taro; i due partono in Spagna per seguire direttamente gli sviluppi della guerra civile durante la quale la fotoreporter morirà a soli ventisei anni, investita da un carro armato amico, mentre con i repubblicani cercava di mettersi al riparo dai bombardamenti.
                                  
Robert continua solo il lavoro iniziato, nel ’38 si stabilisce a Barcellona sotto i bombardamenti, sarà il ’38 appunto l’anno della glorificazione da parte del Picture Post e di altre testate giornalistiche; eppure la fama di Robert Capa resta una trappola che in qualche modo non gli rende giustizia. Dopo la guerra di Spagna, Capa documenterà l’invasione giapponese della Cina, sarà presente durante lo sbarco delle truppe alleate in Sicilia, durante il D-Day, durante la prima Guerra arabo-israeliana e nella Guerra d’Indocina, durante la quale perderà la vita a soli quarantuno anni, quando intento a scattare fotografie finirà su una mina saltando in aria. Egli diventerà famoso per quegli scatti che catturano all’istante la brutalità della guerra, come ad esempio la foto de “miliziano colpito a morte”, foto la cui autenticità è stata a più riprese contestata, che spesso e volentieri è comparsa nelle nostre vite di studenti tra le pagine di un qualche sussidiario, riprodotto in poster e anche in adesivi. Di Capa colpisce il fatto che dietro l’obbiettivo del “più grande fotografo di guerra del mondo”, abbiano sfilato assai più spesso dei morti e dei feriti, i vivi in carne e ossa, gli esiliati, i profughi. C’è qualcosa nell’ineluttabilità della morte che può portare a nulla di più che all’amara rassegnazione in quanto l’uomo può solo immedesimarsi in chi come lui è vivo, non in chi già non c’è più. È nell’uomo, nel bambino che è in vita che ci si può identificare, non nel corpo dilaniato da una bomba. Posso riconoscermi nel volto pieno di paura di una bambina che stringe la mano alla madre mentre corrono verso un rifugio antiaereo, oppure nella testa bassa di una donna francese, costretta a sfilare per le strade di Chartres con la testa rasata per aver avuto un figlio da un soldato tedesco. Il mio disagio, ciò che mi punge, il puntum come lo definisce Roland Barhes, non è la gamba ferita di una bambina ma il fatto che la bambina sia viva nonostante la gamba ferita, non è la gran mole di soldati che sfilano, ma il fatto che quei soldati siano bambini a renderli ancora più terrificanti. Questo Robert Capa l’aveva ben capito, scatti discreti di momenti quotidiani dei paesi in guerra, l’attenzione accordata agli sguardi e ai primi piani dei volti di chi sopravvive, era questo per lui il miglior modo di giungere sino a noi, il miglior monito possibile, per tenere a mente che la guerra c’è ed è vicina anche quando non vogliamo vederla, esiste e non è cosa che non ci riguarda. (twitter@Chiara­_Coco)

Cosa ci spiega l’astensionismo (consapevole) delle ultime elezioni…


Luciano Lanna


La crisi culturale della sinistra e il disorientamento del Pd, la scomparsa (l'estinzione?) politica della destra di derivazione missina, l’eclissi del centro cattolico e laico, l’apparente e temporanea tenuta della lobby politica berlusconiana, la battuta d’arresta dei grillini, il compiacimento rassegnato di chi verrà comunque eletto nei comuni ma con pochi consensi… Mentre i media commentano a suon di luoghi comuni e interpretazioni ad hoc gli ennesimi risultati elettorali, l’equivoco di fondo sul significato della politica continua ad aleggiare in tutta evidenza. Nel momento stesso in cui, infatti, s’affermano in crescendo pulsioni e reazioni almeno apparentemente antipolitiche – dalla disaffezione costante sino all’astensionismo consapevole, quello per cui solo a Roma non ha votato un elettore su due – appare evidente che per i più la lotta politica è ormai percepita solo come una questione “di casta”, come l’insieme delle azioni (propagandistiche, di comunicazione, mediatiche, di mobilitazione attraverso contatti porta a porta o davanti ai mercati) per assicurarsi, conquistarsi e poi mantenere e gestire il potere. Un qualcosa che di per sé è inevitabilmente distante dalle problematiche dei cittadini e di quasi esclusiva pertinenza dei partiti e delle oligarchie di apparato. E questa è purtroppo, una considerazione che, per quanto diffusa e generalizzata, esprime in realtà esattamente l’opposto di ciò che storicamente in Occidente è stata la cosiddetta invenzione della politica.
Vale la pena ricordarlo: la politica, ovvero l’insieme delle attività specificatamente umane che gravitano attorno alla polis (la città), è scaturita nella Grecia del quinto secolo quando s’è verificato lo scarto civile tra il regno della libertà (la polis) e l’intelaiatura dei rapporti di potere consolidati e gerarchizzati tipici della famiglia e delle entità di clan, di gruppo etnico o di corporazione professionale in cui prevaleva la necessità d’ordine biologico e deterministico (regno della necessità). La politica autentica non è insomma la tecnica e la fisiologia dei sistemi di potere. Essa nasce quando nelle città-stato greche al di sotto dell’acropoli, la cittadella fortificata dove aveva sede il potere tradizionale degli arconti, prende corpo l’agorà, la città bassa con il suo intrico di stradine popolate, dove si affacciavano le botteghe degli artigiani, dove i mercanti presentavano le bancarelle con le merci, dove si allestiva il teatro e dove – proprio in quello spazio – si riuniva l’assemblea dei cittadini per discutere e prendere decisioni pubbliche. Cuore pulsante economico, produttivo, commerciale, creativo e partecipativo, l’agorà esprimeva così la libertà e l’invenzione della politica: mercato più teatro, più partecipazione e cittadinanza attiva.
La politica infatti non è, lo ripetiamo ancora, l’esercizio del potere, non è la realpolitik di chi si penserebbe smagato e scafato nella conoscenza delle alchimie per mantenersi al potere. Identificare la politica, come in molti oggi fanno, solo con la lotta per la conquista e la pratica del potere significa infatti perdere di vista l’essenza genetica ed energetica della stessa politica. La politica è semmai la capacità di inventare delle forme, degli spazi, dei tempi dell’azione pubblica in cui i ruoli prefissati dell’ordine dominante cambiano fisiologicamente. Vale infatti quanto sostiene il filosofo francese Jacques Rancière, secondo cui la politica è “il perenne tentativo di dislocamento precario dell’ordine dato che mette ognuno al suo posto sotto il comando di quelli che sono designati a governare per ragioni di nascita, di ricchezza o di competenza. La politica esiste nello scarto che afferma l’uguale capacità di tutti e l’assenza di ogni fondamento per il dominio”.
Ha quindi ragione un “leninista libertario” (non c’è forse ossimoro migliore per definire il suo approccio alla prassi politica) quale Peppe Nanni quando sostiene che il surreale dibattito politico-elettorale italiano degli ultimi tempi riesce a far emergere solo un paradosso di fondo: “La politica, che dovrebbe essere il protagonista, è invece il grande assente delle campagne elettorali celebrate in suo nome: la scena appare infatti vuota, e l’enfasi personalistica che si ripropone stancamente non riesce più a dare corpo al fantasma di un ceto di eletti che i più tendono a non riconoscere…”. L’urgenza del desiderio di politica, aggiunge Nanni, lascia oltretutto come ineludibile “la domanda posta da un insistente desiderio, diffuso molecolarmente, consistente e sempre più consapevole, di partecipazione attiva a una vita pubblica che deve reinventare i suoi spazi, le sue articolazioni istituzionali, il suo inconfondibile linguaggio”. Come a dire: guardate che la politica non è il teatrino mediatico posto in essere dagli eletti e dagli eleggibili e funzionale solo alla conquista e al mantenimento di equilibri di potere e alla geografia delle “casematte” in gioco (la destra, la sinistra, il centro, i partiti, le coalizioni, le liste…) che aspirano a “tenere” compatti presunti elettorati di riferimento e così ottenere legittimazione al fine di occupare il potere.
Ma la politica, senza pervenire agli eccessi da anni Settanta del “tutto è politica”, è infatti qualcosa di più ampio e di più importante dell’orizzonte parlamentare o elettivo: dovrebbe essere la capacità di partecipare attivamente e liberamente alle scelte della polis. Un diritto e un dovere che esprime una prassi di per sé inclusiva, osmotica con la società e la vita delle persone, partecipata e democratica, sempre aperta e in itinere, diffidente e altra rispetto ai recinti, agli steccati, agli apparati chiusi e autoreferenziali. Un diritto e un dovere, quello della politica, che è di ogni singolo cittadino più che dei partiti, degli schieramenti, delle coalizioni, delle parti più o meno surrettiziamente contrapposte e delle stesse presunte appartenenze. Ecco perché, invece di accontentarsi dei risultati dei ballottaggi, tutti – chi vincerà e chi perderà – dovrebbe mettersi in moto soprattutto per riaccendere tra le persone la voglia autentica di partecipazione attiva. Sta qui – e non nella scomparsa (o nella presunta rinascita) della sinistra, del centro o della destra, semplici oligarchie mascherate da coperture ideologiche e d’appartenenza – il cuore profondo della “crisi italiana”.

Perché piace il medioevo? Perché è stato capace di essere cristiano


Marina Maugeri

Il medioevo è un periodo storico di lunga durata pieno di contrasti ma che realizza, paradossalmente, gli opposti mettendoli l’uno accanto all’altro. Non recita la perfezione, proclama invece continuamente la possibilità della vita straordinaria, il cui presupposto, fisicamente impossibile, è in una Fanciulla vergine che rimane incinta del Figlio di Dio. L’uomo medioevale al pari dell’eroe della fiaba sente perciò di essere lanciato in una missione che lo supera. Crede, da cristiano, che Cristo abbia salvato l’uomo non perché l’uomo è giusto, ma perché l’uomo è bello, fatto a immagine e somiglianza di Dio. Pensa, da cristiano, che per fare un santo occorra anzitutto un peccatore, un iroso capace di avventarsi sulla propria mediocrità, un superbo che comunque crede d’essere figlio di Dio. Il medioevo libera il mondo dalla visione ciclica della storia e progredisce nel capire Cristo; procede verso l’avventura della trasformazione, non della ripetizione e va verso la pienezza del colore e l’esplosione della creatività. Nel medioevo gli uomini acquisiscono il senso della libertà, che comporta anche la liberazione della violenza ma, essendo obbligati ad andare d’accordo, inventano la scienza, la tecnica, la cultura, facendo nascere la civiltà più creativa e potente mai esistita e la più vulnerabile e autodistruttiva. Ulteriore paradosso: nel mondo medioevale, diversamente che all’interno degli ordinamenti moderni, esiste un “diritto alla resistenza” che può essere esercitato appellandosi alla sovranità del diritto divino.È  per questa via che San Francesco rompe con le idolatrie paterne, un tipo di stordimento che avrebbe potuto mettere la sua vita al riparo degli agi comodi che il padre gli aveva confezionato. San Francesco è l’esempio cristiano dell’uomo libero da qualunque possesso, fino ad essere “pazzo nel mondo” che nel realizzare la santità riconquista perfino la sua missione di cavaliere, fedele al Re dei Re e chiamato come ogni cristiano ad una via di grandezza. Il medioevo parla perciò ancora oggi all’uomo spirituale e lo fa con il linguaggio del Vangelo e della fiaba. Se per l’uomo comune il vertice della spiritualità è l’anima, il Vangelo e la fiaba parlano all’uomo spirituale, la cui anima è vivente, al pari della carne e dei sensi che si affinano sempre più ad essere sensi spirituali. Lo spiega con un tocco poetico Cristina Campo, chiosando la fiaba de “La Bella – Belinda – e la bestia”: “La metamorfosi del Mostro è in realtà quella di Belinda ed è soltanto ragionevole che a questo punto anche il Mostro diventi Principe. Ragionevole perché non più necessario. Ora che non sono più due occhi di carne a vedere, la leggiadria del Principe è puro soprammercato, è la gioia sovrabbondante promessa a chi ricercò per prima cosa il Regno dei cieli.” Belinda chiese al Padre un dono impossibile: una rosa fiorita nel pieno dell’inverno. “A chi chiede sarà dato.” (Lc 11,1-13). “Qui è la maggiore diversità fra la fiaba e il mito”, suggerisce Ernst Jünger e forse qui è la distanza e al tempo stesso il punto di contatto fra il medioevo e l’epoca contemporanea. La fiaba non conosce l’eroe mitico dell’antichità classica. Il Re della fiaba fonda il proprio rango nell’Essere, mentre il re del mito deve essere sorretto dall’ordine. “Le gesta dell’eroe delle fiabe e di quello del mito sono spesso simili e nei racconti non di rado vengono a confondersi inestricabilmente. Ma a delinearsi sono diversi gradi di coscienza. L’eroe della fiaba comprende la Terra, possiede un intuito naturale, benché sia folle, e proprio per questa sua follia ... L’eroe del mito ha origine solare o per metà solare, spesso è figlio di dèi, ha una genealogia”.L’eroe del mito è qualcuno cui si attribuiscono virtù sovrumane che lo costringono a uno sforzo morale per piegare dolorosamente la natura al proprio ordine e deve spesso fare proprie le armi dell’orrore, mentre l’eroe della fiaba è un personaggio semplice che sa di vivere dentro una realtà caotica e variegata, fatta di gnomi, mostri, predatori e giganti ma accetta con valore il rischio della prova e dell’errore. È  chiamato a entrare dentro la propria Paura per fare i conti con il proprio predatore. Ma è un Eroe innamorato, “che vive per sempre felice e contento” e sperimenta la vita eterna sulla terra. La fiaba diversamente dal mito, infatti, non ne descrive mai la fine. L’Eroe della fiaba conosce solo soglie da oltrepassare, porte da chiudere, principesse da baciare... sepolcri dai quali risorgere. 

domenica 26 maggio 2013

50 anni fa il libro di Evola sul fascismo. Lettura consigliata ai neofascisti di oggi...




Annalisa Terranova

Rileggere “Il fascismo visto dalla destra” di Julius Evola a cinquant’anni dalla sua pubblicazione (la prima edizione è del 1963) è un esercizio utile. E non solo per la netta presa di distanza dal razzismo biologico del nazionalsocialismo contenuto nell’appendice intitolata “Note sul Terzo Reich” e per la condanna dell’antisemitismo che in Hitler assunse le forme di una “fanatica ossessione”(ma anche sul Manifesto fascista della razza Evola non usa parole tenere). Più ancora vale la pena notare che Evola già all’epoca riteneva necessario superare la “mitologicizzazione” del fascismo ponendosi di fronte al fenomeno da un punto di vista critico e intellettuale, senza quegli aspetti “passionali” e “irrazionali” che si sono via via cristallizzati in un nostalgismo politicamente improduttivo che ancora oggi, purtroppo, perdura sia pure a livello meramente folkloristico e ininfluente.
Com’è noto Evola svolge la sua analisi con l’attenzione rivolta alla dottrina dello Stato e cercando di discernere nel fascismo gli elementi che potevano giustificare l’interpretazione del movimento mussoliniano come aspetto di quella “rivoluzione conservatrice” che per il filosofo tradizionalista equivaleva a un filone di pensiero antitetico all’ideologia della Rivoluzione francese. Ora, se Evola trovava positiva l’idea fascista della preminenza dello Stato rispetto alla società, respingeva poche pagine dopo la degenerazione del totalitarismo. In proposito scrisse proprio ne “Il fascismo visto da destra” parole chiare e inequivocabili: “Il principio di un’autorità centrale inoppugnabile si sclerotizza e degenera quando esso sia affermato attraverso un sistema che tutto controlla, che tutto irreggimenta e in tutto interviene secondo la nota formula ‘tutto nello Stato, niente al di fuori dello Stato, nulla contro lo Stato’. Ove non si precisi in che termini si debba concepire questa inclusione, una formula del genere può valere solamente nel quadro di uno statalismo di tipo sovietico, date le premesse materialistiche, collettivistiche e meccanicistiche di esso: non per un sistema di tipo tradizionale basato su valori spirituali, sul riconoscimento del significato della personalità e sul principio gerarchico. E’ così che nella polemica politica si è potuto concepire un comun denominatore col parlare di un totalitarismo di destra e di un totalitarismo di sinistra, il che è una vera assurdità”. Ne discende che, per Evola, rappresentava una deviazione “tutto ciò che nel fascismo ha avuto il carattere di un pedagogismo di Stato”. Non meno importanti sono le critiche evoliane al partito unico che, definendosi secondo lo schema dei partiti di massa, impose a tutti la tessera del Pnf “donde la fatale conseguenza di innumeri adesioni esteriori, conformistiche o opportunistiche, con effetti che subito si manifestarono al momento della crisi…”. C’è poi un punto centrale di quelle pagine evoliane che costituisce ancora oggi un discrimine interessante anche in relazione ai paragoni incauti che si vanno facendo tra il fascismo e i vari caudilli che sono apparsi sulla scena europea e che tutti si racchiudono nella formula populista dell’ “uomo solo al comando”. Il fenomeno del ducismo viene da Evola considerato come uno degli aspetti indubbiamente negativi dell’eredità del fascismo, uno degli elementi che, in una prospettiva di Destra con la maiuscola (come lui usava scrivere) dev’essere senz’altro rifiutato. La citazione, in questo caso, è d’obbligo: “Diremo che in un sistema tradizionale si obbedisce e si è gregari o sudditi in base a ciò che Nioetzsche chiamò il ‘pathos della distanza’, ossia perché ci si sente di fronte a chi è quasi di un’altra natura. Nel mondo di oggi, col trasformarsi del popolo in plebe e in massa, si sa al massimo obbedire in base ad un ‘pathos della vicinanza’, cioè della uguaglianza; si tollera solo quel capo che, in essenza, ‘è uno di noi’, che è popolare, che è il ‘grande compagno’. Il ducismo in senso deteriore, quale si è affermato soprattutto con l’hitlerismo e con lo stesso stalinismo, corrisponde a questo secondo orientamento, che è antitradizionale e incompatibile con gli ideali e con l’ethos della vera Destra”. 



Infine, proponendo una rilettura di un testo evoliano a torto considerato “minore”, va sottolineato che, visto il punto di vista adottato da Evola, egli spiega che ogni interpretazione “da sinistra” del fascismo dovrebbe essere evitata pena la degradazione del fenomeno oggetto di studio poiché il socialismo, agli occhi dello studioso tradizionalista, rappresentava un fattore inquinante dell’idea fascista come “terza forza” opposta sia al comunismo sia al capitalismo.

Forzando un po’ i termini della questione si potrebbe concludere che, agli occhi di Evola, del fascismo erano più le cose che meritavano l’oblio di quelle che valeva la pena di conservare e dunque che lo stesso autore de Gli uomini e le rovine più che un fascista critico fu un antifascista consapevole dei limiti del Ventennio da un punto di vista dell’“uomo della tradizione”. Ma queste sono solo etichette e nel gioco delle demonizzazioni-rivalutazioni postume ciò che si è perduto è stata proprio un’assimilazione consapevole di quella pagina di storia italiana. Rileggere “Il fascismo” di Evola non è dunque solo, oggi, un vezzo salottiero, ma può aiutare chiunque a capire come già da mezzo secolo i pensatori più illuminati che avevano a destra un pubblico attento consigliavano di depurare le coscienze da nostalgismi infantili e non certo per assumere atteggiamenti concilianti verso la sinistra ma per separare le idee dalla storia. Tutto il resto, come sappiamo, è fascismo commerciale, neofascismo da operetta, abuso intollerabile del fascismo stesso per bassi scopi elettorali.