domenica 26 maggio 2013

50 anni fa il libro di Evola sul fascismo. Lettura consigliata ai neofascisti di oggi...




Annalisa Terranova

Rileggere “Il fascismo visto dalla destra” di Julius Evola a cinquant’anni dalla sua pubblicazione (la prima edizione è del 1963) è un esercizio utile. E non solo per la netta presa di distanza dal razzismo biologico del nazionalsocialismo contenuto nell’appendice intitolata “Note sul Terzo Reich” e per la condanna dell’antisemitismo che in Hitler assunse le forme di una “fanatica ossessione”(ma anche sul Manifesto fascista della razza Evola non usa parole tenere). Più ancora vale la pena notare che Evola già all’epoca riteneva necessario superare la “mitologicizzazione” del fascismo ponendosi di fronte al fenomeno da un punto di vista critico e intellettuale, senza quegli aspetti “passionali” e “irrazionali” che si sono via via cristallizzati in un nostalgismo politicamente improduttivo che ancora oggi, purtroppo, perdura sia pure a livello meramente folkloristico e ininfluente.
Com’è noto Evola svolge la sua analisi con l’attenzione rivolta alla dottrina dello Stato e cercando di discernere nel fascismo gli elementi che potevano giustificare l’interpretazione del movimento mussoliniano come aspetto di quella “rivoluzione conservatrice” che per il filosofo tradizionalista equivaleva a un filone di pensiero antitetico all’ideologia della Rivoluzione francese. Ora, se Evola trovava positiva l’idea fascista della preminenza dello Stato rispetto alla società, respingeva poche pagine dopo la degenerazione del totalitarismo. In proposito scrisse proprio ne “Il fascismo visto da destra” parole chiare e inequivocabili: “Il principio di un’autorità centrale inoppugnabile si sclerotizza e degenera quando esso sia affermato attraverso un sistema che tutto controlla, che tutto irreggimenta e in tutto interviene secondo la nota formula ‘tutto nello Stato, niente al di fuori dello Stato, nulla contro lo Stato’. Ove non si precisi in che termini si debba concepire questa inclusione, una formula del genere può valere solamente nel quadro di uno statalismo di tipo sovietico, date le premesse materialistiche, collettivistiche e meccanicistiche di esso: non per un sistema di tipo tradizionale basato su valori spirituali, sul riconoscimento del significato della personalità e sul principio gerarchico. E’ così che nella polemica politica si è potuto concepire un comun denominatore col parlare di un totalitarismo di destra e di un totalitarismo di sinistra, il che è una vera assurdità”. Ne discende che, per Evola, rappresentava una deviazione “tutto ciò che nel fascismo ha avuto il carattere di un pedagogismo di Stato”. Non meno importanti sono le critiche evoliane al partito unico che, definendosi secondo lo schema dei partiti di massa, impose a tutti la tessera del Pnf “donde la fatale conseguenza di innumeri adesioni esteriori, conformistiche o opportunistiche, con effetti che subito si manifestarono al momento della crisi…”. C’è poi un punto centrale di quelle pagine evoliane che costituisce ancora oggi un discrimine interessante anche in relazione ai paragoni incauti che si vanno facendo tra il fascismo e i vari caudilli che sono apparsi sulla scena europea e che tutti si racchiudono nella formula populista dell’ “uomo solo al comando”. Il fenomeno del ducismo viene da Evola considerato come uno degli aspetti indubbiamente negativi dell’eredità del fascismo, uno degli elementi che, in una prospettiva di Destra con la maiuscola (come lui usava scrivere) dev’essere senz’altro rifiutato. La citazione, in questo caso, è d’obbligo: “Diremo che in un sistema tradizionale si obbedisce e si è gregari o sudditi in base a ciò che Nioetzsche chiamò il ‘pathos della distanza’, ossia perché ci si sente di fronte a chi è quasi di un’altra natura. Nel mondo di oggi, col trasformarsi del popolo in plebe e in massa, si sa al massimo obbedire in base ad un ‘pathos della vicinanza’, cioè della uguaglianza; si tollera solo quel capo che, in essenza, ‘è uno di noi’, che è popolare, che è il ‘grande compagno’. Il ducismo in senso deteriore, quale si è affermato soprattutto con l’hitlerismo e con lo stesso stalinismo, corrisponde a questo secondo orientamento, che è antitradizionale e incompatibile con gli ideali e con l’ethos della vera Destra”. 



Infine, proponendo una rilettura di un testo evoliano a torto considerato “minore”, va sottolineato che, visto il punto di vista adottato da Evola, egli spiega che ogni interpretazione “da sinistra” del fascismo dovrebbe essere evitata pena la degradazione del fenomeno oggetto di studio poiché il socialismo, agli occhi dello studioso tradizionalista, rappresentava un fattore inquinante dell’idea fascista come “terza forza” opposta sia al comunismo sia al capitalismo.

Forzando un po’ i termini della questione si potrebbe concludere che, agli occhi di Evola, del fascismo erano più le cose che meritavano l’oblio di quelle che valeva la pena di conservare e dunque che lo stesso autore de Gli uomini e le rovine più che un fascista critico fu un antifascista consapevole dei limiti del Ventennio da un punto di vista dell’“uomo della tradizione”. Ma queste sono solo etichette e nel gioco delle demonizzazioni-rivalutazioni postume ciò che si è perduto è stata proprio un’assimilazione consapevole di quella pagina di storia italiana. Rileggere “Il fascismo” di Evola non è dunque solo, oggi, un vezzo salottiero, ma può aiutare chiunque a capire come già da mezzo secolo i pensatori più illuminati che avevano a destra un pubblico attento consigliavano di depurare le coscienze da nostalgismi infantili e non certo per assumere atteggiamenti concilianti verso la sinistra ma per separare le idee dalla storia. Tutto il resto, come sappiamo, è fascismo commerciale, neofascismo da operetta, abuso intollerabile del fascismo stesso per bassi scopi elettorali.  

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