Annalisa Terranova
Rileggere “Il fascismo visto dalla destra” di
Julius Evola a cinquant’anni dalla sua pubblicazione (la prima edizione è del
1963) è un esercizio utile. E non solo per la netta presa di distanza dal
razzismo biologico del nazionalsocialismo contenuto nell’appendice intitolata “Note sul Terzo Reich” e per la condanna
dell’antisemitismo che in Hitler assunse le forme di una “fanatica ossessione”(ma
anche sul Manifesto fascista della razza Evola non usa parole tenere). Più
ancora vale la pena notare che Evola già all’epoca riteneva necessario superare
la “mitologicizzazione” del fascismo ponendosi di fronte al fenomeno da un
punto di vista critico e intellettuale, senza quegli aspetti “passionali” e “irrazionali”
che si sono via via cristallizzati in un nostalgismo politicamente improduttivo
che ancora oggi, purtroppo, perdura sia pure a livello meramente folkloristico
e ininfluente.
Com’è noto Evola
svolge la sua analisi con l’attenzione rivolta alla dottrina dello Stato e
cercando di discernere nel fascismo gli elementi che potevano giustificare l’interpretazione
del movimento mussoliniano come aspetto di quella “rivoluzione conservatrice”
che per il filosofo tradizionalista equivaleva a un filone di pensiero
antitetico all’ideologia della Rivoluzione francese. Ora, se Evola trovava
positiva l’idea fascista della preminenza dello Stato rispetto alla società,
respingeva poche pagine dopo la degenerazione del totalitarismo. In proposito
scrisse proprio ne “Il fascismo visto da
destra” parole chiare e inequivocabili: “Il principio di un’autorità centrale inoppugnabile si sclerotizza e
degenera quando esso sia affermato attraverso un sistema che tutto controlla,
che tutto irreggimenta e in tutto interviene secondo la nota formula ‘tutto
nello Stato, niente al di fuori dello Stato, nulla contro lo Stato’. Ove non si
precisi in che termini si debba concepire questa inclusione, una formula del
genere può valere solamente nel quadro di uno statalismo di tipo sovietico,
date le premesse materialistiche, collettivistiche e meccanicistiche di esso:
non per un sistema di tipo tradizionale basato su valori spirituali, sul
riconoscimento del significato della personalità e sul principio gerarchico. E’
così che nella polemica politica si è potuto concepire un comun denominatore
col parlare di un totalitarismo di destra e di un totalitarismo di sinistra, il
che è una vera assurdità”. Ne discende che, per Evola, rappresentava una
deviazione “tutto ciò che nel fascismo ha avuto il carattere di un pedagogismo
di Stato”. Non meno importanti sono le critiche evoliane al partito unico che,
definendosi secondo lo schema dei partiti di massa, impose a tutti la tessera
del Pnf “donde la fatale conseguenza di
innumeri adesioni esteriori, conformistiche o opportunistiche, con effetti che
subito si manifestarono al momento della crisi…”. C’è poi un punto centrale
di quelle pagine evoliane che costituisce ancora oggi un discrimine
interessante anche in relazione ai paragoni incauti che si vanno facendo tra il
fascismo e i vari caudilli che sono
apparsi sulla scena europea e che tutti si racchiudono nella formula populista dell’
“uomo solo al comando”. Il fenomeno del ducismo viene da Evola considerato come
uno degli aspetti indubbiamente negativi dell’eredità del fascismo, uno degli
elementi che, in una prospettiva di Destra con la maiuscola (come lui usava
scrivere) dev’essere senz’altro rifiutato. La citazione, in questo caso, è d’obbligo:
“Diremo che in un sistema tradizionale si
obbedisce e si è gregari o sudditi in base a ciò che Nioetzsche chiamò il ‘pathos
della distanza’, ossia perché ci si sente di fronte a chi è quasi di un’altra
natura. Nel mondo di oggi, col trasformarsi del popolo in plebe e in massa, si
sa al massimo obbedire in base ad un ‘pathos della vicinanza’, cioè della uguaglianza;
si tollera solo quel capo che, in essenza, ‘è uno di noi’, che è popolare, che
è il ‘grande compagno’. Il ducismo in senso deteriore, quale si è affermato
soprattutto con l’hitlerismo e con lo stesso stalinismo, corrisponde a questo
secondo orientamento, che è antitradizionale e incompatibile con gli ideali e
con l’ethos della vera Destra”.
Infine, proponendo una rilettura di un
testo evoliano a torto considerato “minore”, va sottolineato che, visto il
punto di vista adottato da Evola, egli spiega che ogni interpretazione “da
sinistra” del fascismo dovrebbe essere evitata pena la degradazione del
fenomeno oggetto di studio poiché il socialismo, agli occhi dello studioso
tradizionalista, rappresentava un fattore inquinante dell’idea fascista come “terza
forza” opposta sia al comunismo sia al capitalismo.
Forzando un po’ i termini
della questione si potrebbe concludere che, agli occhi di Evola, del fascismo
erano più le cose che meritavano l’oblio di quelle che valeva la pena di
conservare e dunque che lo stesso autore de Gli
uomini e le rovine più che un fascista critico fu un antifascista
consapevole dei limiti del Ventennio da un punto di vista dell’“uomo della
tradizione”. Ma queste sono solo etichette e nel gioco delle
demonizzazioni-rivalutazioni postume ciò che si è perduto è stata proprio un’assimilazione
consapevole di quella pagina di storia italiana. Rileggere “Il fascismo” di Evola
non è dunque solo, oggi, un vezzo salottiero, ma può aiutare chiunque a capire
come già da mezzo secolo i pensatori più illuminati che avevano a destra un
pubblico attento consigliavano di depurare le coscienze da nostalgismi
infantili e non certo per assumere atteggiamenti concilianti verso la sinistra
ma per separare le idee dalla storia. Tutto il resto, come sappiamo, è fascismo
commerciale, neofascismo da operetta, abuso intollerabile del fascismo stesso
per bassi scopi elettorali.
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