giovedì 9 maggio 2013

Leni Riefenstahl e Marlene Dietrich testimoni della Germania anni Trenta. Un libro di Gian Enrico Rusconi






Annalisa Terranova

Un libro da leggere, se non altro per l’originalità dell’idea: comprendere la Germania degli anni Trenta attraverso due donne d’eccezione, due personalità prorompenti, due dive della settima arte. Questo è Marlene e Leni di Gian Enrico Rusconi (Feltrinelli), indagine su due esistenze, quella di Leni Riefenstahl e quella di Marlene Dietrich, che sono state metafora delle contraddizioni del loro tempo. E non si tratta di opporre l’una all’altra in nome dell’adesione o meno al nazismo (Leni Riefenstahl girò per Hitler il famoso film Il triondo della Volontà mentre la Dietrich, oppositrice del regime nazista, otterrà la cittadinanza americana nel 1937) ma di considerare e l’una e l’altra come lo specchio di ciò che la Germania andava vivendo. “In realtà – ha scritto Francesca Sforza su La Stampa – Leni Riefenstahl e Marlene Dietrich sono due inguaribili impolitiche, guidate caso mai da una disperata voglia di emancipazione, di riscatto personale (in questo molto moderne) a cui hanno piegate le loro idee in forme e tempi successivi”. Tra le due peraltro esisteva una persistente e fervida antipatia. Marlene si legherà al regista Joseph von Sternberg che la sceglie per il film L'angelo azzurro. Ebbene nelle memorie di Leni Riefenstahl Sternberg viene descritto come un ammiratore devoto e innamoratissimo, che solo perché respinto si decide a rivolgersi alla Dietrich. Perfidamente, la Riefenstahl descrive la Dietrich come un’attrice sciatta e capricciosa. Sternberg, che lei chiama confidenzialmente Jo, le consente di presenziare alle riprese de L’angelo azzurro. Ecco il racconto di Leni: “La protagonista sembrava innervosita dalla mia presenza; non ascoltava le indicazioni del regista e, annoiata e piccata, giocherellava con le calze, seduta a gambe divaricate, con un’aria spavalda e provocatoria che avrebbe irritato anche un cieco. Sternberg perse le staffe e urlò: ‘Marlene, datti un contegno!’. Con uno sguardo di sfida Marlene abbassò leggermente le calze e ricominciò a recitare; imbarazzata da quella situazione, salutai Sternberg e me ne andai. Quella sera Jo mi raccontò che alla fine delle riprese Marlene aveva fatto una scenata tremenda, minacciando di abbandonare il set se io mi fossi ripresentata nello studio. Il suo comportamento mi sorprendeva. Jo mi aveva detto che era innamorata di lui, ma egli la considerava semplicemente una creatura dalla quale stava cercando di far nascere la sua Lola…”. 



Al di là della rivalità professionale, le due sono molte diverse: intanto Marlene fu l’icona ambigua e seducente della Berlino libertina del periodo precedente al nazionalsocialismo, mentre Leni diventerà la geniale regista di Olympia (1936), il film capolavoro in cui riesce a fondere in un insieme di immagini armoniche la competizione e la bellezza dei corpi, la volontà di vittoria, la tensione della prova, l’entusiasmo del pubblico. Questo per dire che mentre Marlene Dietrich non si eleva al di sopra dell’immagine di diva, Leni Riefenstahl fu artista completa, la cui estetica diviene anche e soprattutto filosofia del cinema.



Controverso il rapporto di Leni Riefenstahl con il nazionalsocialismo la cui natura sulfurea è per lei identificabile con Joseph Goebbels, da lei definito nelle sue Memorie (uscite nel 1987) un uomo volgare e pericoloso. L’Adolf Hitler da lei descritto è invece un uomo che veste di blu, beve tè o succo di mele, si mostra appassionato di libri e di fotografia, interessato al cinema. Sono queste, nelle memorie rivisitate di uno dei periodi più tragici della storia del Novecento, le basi di un sodalizio che l’artista non volle mai rinnegare del tutto, limitandosi a criticare il razzismo dell’ideologia nazista. Quando fu invitata a Roma nel 1997 per una mostra delle sue fotografie sui Nuba, la Riefenstahl si presentò ai giornalisti curiosi e in qualche modo anche affascinati dalla vitalità di questa testimone d’eccezione del nazionalsocialismo come una diva che a 95 anni (era vestita con un inappuntabile tailleur fucsia e sfoggiava capelli biondo platino che le incorniciavano il viso con qualche boccolo appena accennato) non aveva perso affatto il gusto di prendersi il centro della scena, riuscendo a scherzare sull’insistente corteggiamento subìto da Goebbels e sul suo presunto flirt con Hitler come se in mezzo non ci fosse stato il dramma della seconda guerra mondiale con i suoi milioni di morti. 



Il loro essere donne, la loro autoreferenzialità, il distacco da estete cui guardarono agli avvenimenti politici del loro tempo, costiuiscono in fondo la giustificazione più grande di queste due artiste. L’arte era il loro orizzonte e tutto il resto doveva stare fuori. Ciò che riesce perfettamente alla Dietrich non sarà possibile per Leni Riefenstahl. La fine del Reich capovolse il suo destino e la sua carriera: da quel momento diventa l’ex amante di Hitler, degna del più profondo disprezzo, abbandonata da molti dei suoi amici e ammiratori. Imprigionata dagli americani, deve sottostare a interrogatori insolenti: “Vogliamo sapere se Hitler era sessualmente normale o impotente, come si presentavano i suoi genitali?”. Quando al posto delle truppe Usa arrivano in Tirolo quelle francesi, la situazione volge al peggio: Leni viene internata in un manicomio, non per punirla della sua collaborazione con il Führer ma per sottrarle le pellicole dei suoi celebri film. Liberata nel 1947, gli anni del dopoguerra saranno per lei una via crucis tra un tribunale e l’altro per difendersi da diffamazioni e accuse infondate, come quella di avere utilizzato come comparse alcuni zingari provenienti da un campo di concentramento, e per ottenere l’ambito certificato di “denazificazione”.

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