domenica 20 dicembre 2015

La Porta Santa: la poesia di Pascoli per il Giubileo 1900



Sandro Consolato

Papa Leone XIII aprì il solenne Giubileo che doveva segnare il passaggio di secolo, dall’Otto al Novecento, il 24 dicembre del 1899; chiuse quindi la Porta Santa un anno dopo, il 24 dicembre del 1900. L’evento ispirò a Giovanni Pascoli uno dei suoi INNI, intitolato LA PORTA SANTA, pubblicato sul “Marzocco” il 6 gennaio 1900. Questo testo rientra tra quelli di Pascoli in cui sono presenti il “tema cosmico” ed un senso indefinito di angoscia collettiva, lo stesso che noi ancor più forte avvertiamo al termine di questo quindicesimo anno del nuovo millennio in cui, tra guerre e migrazioni di popoli, si apre un nuovo Giubileo straordinario, voluto da un Pontefice che si è annunciato come “venuto dalla fine del mondo”. Giustamente Arnaldo Colasanti, curatore dell’edizione Newton Compton di “Tutte le poesie”, per “La Porta Santa” parla di “Poesia di grande fascino”, in cui si affaccia “il dubbio assurdo di un’apocalisse vicina”. Patrizia Paradisi, nel suo studio presente in rete su “La ricerca dell’Assoluto nella letteratura: Giovanni Pascoli”, osserva: “Pascoli stravolge il significato religioso del rito, immaginando che il popolo che vi assiste si senta in qualche modo escluso, tenuto fuori, dalla realtà oltre la porta, la Vita Eterna promessa da Dio e dalla religione, e allora invoca il Papa perché non chiuda questa porta, e lasci che il popolo dei fedeli possa vedere quello che c’è di là”. Forse potremmo leggere questo inno pascoliano anche come un monito a contemplare certi eventi come eventi di portata universale, al di là della nostra appartenenza religiosa, l’apertura e la chiusura della Porta Santa essendo uno di quei gesti sacri che vengono da tempi antichi ma si coniugano con speranze e paure connesse sia allo stesso esistere umano sia al vivere in un determinato tempo. Ed ora, non ci resta che leggere il testo.

Uomo, che quando fievole / mormori, il mondo t’ode, / pallido eroe, custode / dell’alto atrio di Dio;
leva la man dall’opera, / o immortalmente stanco! / Scingi il grembiul tuo bianco, / mite schiavo di Dio: / la Porta ancor vaneggi! / Vogliono ancor, le greggi / meste, passar di là.
O nostro primogenito, / puro tra i bissi puri, / le pietre che tu muri / con la gracile mano, / nel sepolcreto sembrano / chiudere i tuoi fratelli / tutti; con tre suggelli, / tutto il genere umano.
Solo la bianca Morte / chiude così le porte, / che non riaprirà!
Oh! le tue mani tremano! / Dove sarai tu, quando / un secol nuovo, orando, / toglierà le tre pietre?
Dove anche noi. Le candide / culle ch’or vanno e stanno / tra un canto pio, saranno / tombe immobili e tetre.
Avanti quella Porta / chiusa non c’è che morta / gente; un’ombrìa che va. /
O vecchio, è vecchio, al nascere, / del suo morir futuro / anche il bambino, puro / là tra i puri suoi bissi.
Tutti i fratelli tremano / seguendo te che tremi, / come su gli orli estremi / d’invisibili abissi.
Vecchio che in noi t’immilli, / lasciaci udir gli squilli / dell’immortalità!
Di là, di là, risuonano / chiare le argentee trombe / che spezzano le tombe / d’inconcusso granito!
Di là, di là, risuonano / canti or soavi or gravi; / ché c’è di là, con gli avi, / qualche bimbo smarrito!
Tutto il di noi che vive / è ciò che a noi sorvive: / tutto è per noi di là!
Non ci lasciar nell’atrio / del viver nostro, avanti / la Porta chiusa, erranti / come vane parole;
ad aspettar che l’ultima / gelida e fosca aurora / chiuda alle genti ancora / la gran porta del Sole;

quando la Terra nera / girerà vuota, e ch’era / Terra, s’ignorerà.

giovedì 24 settembre 2015

domenica 30 agosto 2015

Al "libertarismo" preferisco il grido del "libertario"



Mio articolo apparso oggi sulle pagine culturali del quotidiano "il Garantista"

Luciano Lanna

Dovendo scrivere di un –ismo ma collocandomi personalmente all’opposto di qualsiasi ideologia (e quindi di qualsiasi –ismo) proverei a evocare l’orientamento che secondo me corrisponde alla fuoriuscita da qualsiasi interpretazione ideologica e che potremmo farlo coincidere, necessariamente, con quello “libertario”. Preferisco ovviamente l’aggettivo in questione al sostantivo “libertarismo” che di per sé potrebbe condurre a fare, magari inconsapevolmente, un’ideologia anche della stessa opzione anti-ideologica. Non a caso, storicamente si è parlato di libertarismo, nell’Ottocento, per l’anarchismo di Stirner, Bakunin e Kropotkin, in cui a prevalere era una precisa e definita ideologia (“né Dio né Stato né servi né padroni”) e la cui traduzione coincideva o nell’organizzazione (di per sé una contraddizione in termini) di gruppi, gruppuscoli e progetti di cospirazione o nel gesto violento dettato dall’esasperazione e dalla follia. E, più avanti, nel Novecento, si è parlato sempre di libertarismo (“libertarianism”), ma in termini astratti ed esclusivi di filosofia politica e di costruzioni intellettuali, per alcune scuole di pensiero statunitensi orientate verso l’antistatalismo e l’assunzione del mercato come  criterio fondativo (e assoluto) delle relazioni umane. Ma vale su questo quanto affermato da Daniel Cohn-Bendit: “Il mio essere libertario definisce la mia scelta a favore della libertà ma, sia chiaro, non quella delle multinazionali, per le quali continuo a chiedere controlli e regole”. Sia ben chiaro: è indiscutibile che presupposti, pulsioni, aspirazioni sia dell’anarchismo ottocentesco che del libertarianism americano siano a tutti gli effetti di matrice libertaria e che molto di quanto da loro prodotto sia utile per l’elaborazione di un background di riferimento per il libertarismo postmoderno.
Ma è comunque ovvio che l’orientamento libertario che stiamo cercando di delineare (e che propone un nuovo e diverso libertarismo, adeguato al ventunesimo secolo) fuoriesce completamente da qualsiasi prospettiva sistematica e ideologica e si pone in termini esistenziali più che politologici. Si tratta più di una postura esistenziale che di una sistemazione teorica. Da un punto di vista culturale, ad esempio, esso infatti è anzitutto il portato di un attraversamento del Novecento in direzione della libertà così come testimoniato da figure come Albert  Camus, Charles Péguy e Simone Weil, Bruce Chatwin e Hannah Arendt. E alle quali si possono senz’altro accostare anche autori come Ernst Jünger, Arthur Koestler, Ignazio Silone, Bertrand Russell, André Malraux, George Orwell... Personalità del secolo scorso che si sono contraddistinte per il fatto di aver “attraversato” integralmente e criticamente il Novecento, essersi pure in molti casi inizialmente abbeverati alle sue passioni incandescenti, ma che a un certo punto sono riuscite a prendere le distanze da quelle tempeste a cui essi stessi avevano partecipato o che addirittura avevano contribuito a mettere in campo. Jünger, ad esempio, lo dimostrò arrivando a scrivere un romanzo-metafora contro la degenerazione totalitaria di quel nazionalismo che lo aveva visto entusiasta da adolescente come Sulle scogliere di marmo, partecipando al fallito putsch contro Hitler e lavorando teoricamente, nel secondo dopoguerra, per un libertarismo spiritualista. Allo stesso modo di Camus, Koestler, Silone, Malraux e Orwell, che ribaltarono gli entusiasmi giovanili per il comunismo nel più coerente impegno intellettuale libertario e antitotalitario. «L’importante per me resta il Singolo», spiegherà proprio Jünger, già ultracentenario,  intervistato da Gnoli e Volpi ne I prossimi titani (Adelphi). E proprio in nome del Singolo e contro il dilagare di tutte le burocrazie autoritarie spersonalizzanti si espresse quasi tutta la sua produzione a partire dall’apologo anti-totalitario del 1939 sino alla sua teorizzazione della figura libertaria per antonomasia, l’anarca, nel romanzo Eumeswil del 1977.
Chiariamoci subito. Quello che caratterizza la sensibilità libertaria cui facciamo riferimento è innanzitutto il suo porsi ad di fuori e oltre qualsiasi logica di “militanza”, di inquadramento, di aggregazione (nel senso etimologico di formazione di un gregge).  La singola persona, per i libertari, è un valore in sé, la sua tensione esistenziale non può e non deve mai essere annullata o strumentalizzata da logiche superiori, siano esse la Ragion di Stato, la disciplina di partito, l’ortodossia ideologica. Si tratta semmai di ribaltare esistenzialmente tutte le logiche del potere, quelle logiche che connotano tutte le organizzazioni spersonalizzanti e che non possono essere superate rovesciando politicamente la forma assunta dagli assetti di potere vigenti ma impostando le proprie vite sul rifiuto di esercitare e subire ogni forma di dominio e di potere. Vale quanto annota Lucilio Santoni – uno dei più acuti intellettuali e poeti libertari italiani contemporanei – nel suo libro Cristiani e anarchici. Viaggio millenario nella Storia tradita verso un futuro possibile (pp. 140, euro 12,00, edizioni Infinito): “Noi che viviamo ai margini dei grandi giochi di potere abbiamo il dovere di tentare di capirci qualcosa, abbiamo il compito di non essere superficiali nella lettura dei fatti e degli accadimenti, soprattutto per evitare di essere usati come pedine”. Interessante nel libro il percorso di autori che mettono in luce questo orientamento libertario: ci sono, senz’altro, Proudhon e Malatesta, ma anche Tolstoj e Ivan Illich, Pasolini e Bonhoeffer, Camus e Shelley, Leo Ferré e Garcia Lorca e – a sorpresa – don Helder Camara, madre Teresa di Calcutta, monsignor Oscar Romero, don Lorenzo Milani, don Luigi Giussani e papa Francesco… Nel suo essere non ideologico e anti-ideologico l’orientamento libertario più autentico non ha dogmi o punti fissi e non può infatti non essere aperto anche al contributo dei cristiani, di chi – coerentemente, così come ha scritto il poeta Davide Rondoni – “ha patroni in cielo, non padroni in terra. La religiosità, infatti, nel momento stesso in cui riconosce un’autorità ne indica il limite e la radice altrove che nella propria affermazione”.  Precisa ulteriormente Rondoni: “Il desiderio, benzina d’ogni avventura di ricerca del senso, d’ogni avventura religiosa autentica, è anche la freccia che attraversa e supera ogni realizzazione presunta di ciò che presume di rispondergli e di soddisfarlo. La freccia che rompe gli idoli, ogni idolo del potere. Dentro e fuori ogni organismo che per vivere si organizza anche in forma di potere e di autorità”. E questa è un’ulteriore indicazione di una sensibilità libertaria post-ideologica, in quanto tale aperta e mai chiusa in una sistemazione intellettualistica. Non è un caso che, e non paradossalmente, lo stesso Vittorio Messori, lo scrittore cattolico intervistatore di due Papi, quando deve spiegare il suo orientamento politico-culturale a sorpresa ammette: “Sono un libertario, naturalmente senza utopie o illusioni. Mi trovo a mio agio in una open society, una società aperta come la chiamava Karl R. Popper, questa società sempre più meticcia e sempre più complessa. Amo la libertà annunciata dal Cristo e dal suo Vangelo da proporre e mai da imporre... Mi piace la vita come avventura, dive santi e mascalzoni si intersecano, dove si confrontano il bene e il male. Amo le metropoli, le giungle d’asfalto, ben più del controllo sociale del villaggio, amo il ribollire delle grandi città, dove la storia si costruisce attraverso la trama infinita dei liberi rapporti umani…”.
La postura esistenziale libertaria, insomma, non coincide con nessuna chiusura ideologica. Il libertarismo post-militante e post-ideologico fuoriesce, alla luce di quello che abbiamo detto, decisamente da qualsiasi identità culturale scontata e vecchia, sia essa di derivazione laicista o illuminista. Così come la nuova fenomenologia libertaria non si identifica affatto, come vorrebbe la pigrizia del linguaggio da luogo comune, con l’indifferentismo etico, con un facile permissivismo, con l’allontanamento da qualsiasi senso del limite umano ed estetico. Piuttosto, la vera postura libertaria mette in campo un atteggiamento esistenziale istintivamente refrattario a qualsiasi incasellamento, sfuggente a qualsiasi chiusura o censura, caratterizzato da un’opzione contraria a qualsiasi forma di autoritarismo, di razzismo, di militarismo, di burocraticismo, di discriminazione…
Nell’emersione storica di questa sensibilità libertaria post-ideologica ci sarebbe l’intuizione che stava al centro di un bestseller della cultura giovanile a cavallo tra gli anni Settanta e gli Ottanta e che, apparso negli Stati Uniti nel 1974 e proposto in Italia nel 1981, si impose improvvisamente col passaparola, senza nessuna sponsorizzazione mediatica: Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta di Robert M. Pirsig. Nel quale si legge: “Non voglio più entusiasmarmi per i grandi programmi di pianificazione sociale che coinvolgono le vaste masse e che trascurano la qualità individuale. E penso che sia venuto il momento di ricostituire questa risorsa… Abbiamo davvero bisogno di riacquistare l’integrità individuale, la fiducia in noi stessi e l’enthousiasmos…”.
D’altronde è un dato storico che negli anni Sessanta, alla vigilia di quella contestazione studentesca di Berkeley che anticipò il nostro Sessantotto, gli universitari statunitensi tenevano sul comodino due livre de chevet: Sulla rivoluzione di Hannah Arendt e L’uomo in rivolta di Albert Camus. In quel fermento studentesco anglosassone, lontano dal marxismo-leninismo e da vecchie matrici ideologiche e spinto soprattutto sul fronte dei diritti civili, della lotta contro la segregazione razziale e del libertarismo, Camus, l’autore di romanzi come Lo straniero e La peste, il premio Nobel nel 1957, veniva letto come uno scrittore “politico” tout court.




Una sensibilità questa che, comunque, scaturisce da una lunga tradizione, letteraria e non solo, che va da Walt Whitman a Henry David Thoreau e Ralph Waldo Emerson, da Jack Kerouac e Allen Ginsberg a Gary Snyder e Lawrence Ferlinghetti, da Louis-Ferdinand Céline a Henry Miller, da Leonard Cohen e Bob Dylan a Georges Brassens agli italiani Giorgio Gaber, Fabrizio De André e Francesco Guccini… Quello stesso Guccini che, definendosi libertario, ha sempre rifiutato la definizione di cantautore politico: “Le mie canzoni sono esistenziali – ha ammesso – e attraverso di esse ho cercato di raccontare il mio punto di vista sul mondo. Ricordo ancora la polemica del dopoguerra sugli intellettuali organici, quando Elio Vittorini dichiarò che non voleva fare il pifferaio della rivoluzione…”.
Ecco su questo punto, quello del rifiuto della logica dell’inquadramento e della militanza, tutti i libertari sono naturalmente concordi. “Nel maggio del ’68 – ha ricordato lo scrittore Jean-Pierre Chabrol – io rimproveravo a Georges Brassens ciò che chiamavo la sua passività, il suo distacco. Cantautori e intellettuali facevano comizi e barricate, si buttavano nella mischia. Lui restava a casa. Lui, che solo facendosi vedere, avrebbe potuto diventare il profeta o il guru dei sessantottini. Ma ciò che si proclamava alla Sorbona o nelle piazze in fondo era già da molto tempo nelle sue strofe”. E lo spiegherà bene lo stesso Brassens: “In realtà sono uno dei cantautori più impegnati. Solo che normalmente si intende per impegno l’adesione a un partito e si dà il caso che io non riconosco a nessun partito il diritto di avermi…”. E non sarà un caso che Simone Weil, la filosofa libertaria, arriverà alle estreme conseguenze e stilerà il Manifesto per la soppressione dei partiti politici, ipotizzando una democrazia senza il filtro di organizzazioni spersonalizzanti.  Così come Lucilio Santoni, da libertario e intellettuale impegnato, scrive testualmente: “Io non amo la piazza, le manifestazioni e le rivendicazioni..”. Un modo come un altro per dire che il libertario non abbocca più all’amo, nessuno gliela dà a bere, nessuna prospettiva di potere riesce a sedurlo o a ingannarlo, nessuno potrà mai aggregarlo in un progetto eterodiretto, neanche quelli di una piccola politica alienante in mano ad apprendisti stregoni cooptati, ambiziosi amministratori da condominio catapultati ai piani alti del potere o piccoli tribuni della plebe. Il libertario scende in campo, in quanto singola persona, solo quando sente che la libertà è minacciata.

L’esempio migliore resta, a nostro avviso, quello dell’impulso libertario di Camus, il quale non si è mai crogiolato nella santificazione di un comodo individualismo narcisista. «Visto che non viviamo più i tempi della rivoluzione – scrisse – impariamo a vivere il tempo della rivolta». Anche per questo Massimo Fini ha annotato: «Il Sartre che cercava di coniugare esistenzialismo e marxismo non ci finì mai di convincere. Albert Camus, che ebbe la fortuna di morire presto, invece lo amammo sempre. Tutto…». Lo confermava anche il filosofo Bernard-Henry Levy, ribadendo l’attualità del suo libertarismo rispetto all’impegno ideologico organico alla politica: “Storicamente Camus ha avuto ragione su Sartre. E non si dirà, non si ripeterà mai abbastanza, quanto lui ebbe ragione”.

giovedì 20 agosto 2015

Il desiderio di essere inutile: geniale Hugo Pratt



Articolo pubblicato sul quotidiano "il Garantista" giovedì 20 agosto 2015

Luciano Lanna

Pochi autori del Novecento italiano hanno avuto più tributi e omaggi postumi di Hugo Pratt, ormai non considerato solo come un fumettista ma come un artista di levatura internazionale, uno scrittore di particolare qualità, un intellettuale coraggioso e irregolare. A vent’anni dalla sua morte – il 20 agosto del 1995 a Grandvaux, in Svizzera, dove si era ritirato da qualche anno – la sua opera, grafica ma anche scritta, così come il personaggio più famoso scaturito dalla sua fantasia, il marinaio Corto Maltese, godono di una presenza nell’immaginario universale davvero senza precedenti. Solo a contare i siti, le pagine Facebook, i fan club, le mostre, le citazioni, i poster, i capi d’abbigliamento, i gadget basati sui suoi disegni si resta a bocca aperta.
Pratt non è stato infatti solo uno dei più famosi rappresentanti del fumetto internazionale ma è stato un intellettuale a tutto tondo, è riuscito a essere attivo nelle più disparate aree dell’immagine con illustrazioni, raccolte di disegni, acquerelli, port-folio, serigrafie, manifesti, opere pubblicitarie e altro ancora. Così come è stato romanziere e saggista, autore di teatro, musicista e autore di testi musicali, persino attore in quattro film… Non solo esistono in tutto il mondo centinaia di opere a lui dedicate ma negli anni si sono susseguite generazioni di autori, appassionati di fumetto o semplici fan che hanno voluto tributare a Pratt o a Corto Maltese un omaggio, sia quando Pratt era ancora in vita sia dopo la sua morte. Tra questi Le avventure di Giuseppe Bergman, scritte e disegnate da Milo Manara , grande amico e, per sua stessa affermazione, allievo di Prat. Qui, il protagonista Giuseppe Bergman viene istruito all’avventura da un creatore di avventure di nome HP, uguale in tutto e per tutto al Maestro veneziano. E non sono mancati gli omaggi di scrittori e giornalisti come Dino Battaglia e Andrea Pazienza, Vittorio Giardino e Vincenzo Mollica, Umberto Eco e Christian Kracht. Il grande Frank Miller gli dedicò una storia di Sin City dal titolo Notte silenziosa, e anni prima aveva chiamato Corto Maltese un’isola nella miniserie, citazione che è stata ripresa anche nel film Batman del 1989 di Tim Burton. Hugo Pratt in quanto tale è poi il protagonista del libro Un romanzo d’avventura del suo amico narratore Alberto Ongaro. Infine, nel 2014 la casa editrice Sellerio ha mandato in libreria Il Corvo di pietra, un romanzo direttamente ispirato alla sua opera e che racconta la giovinezza del marinaio Corto Maltese. L’autore conobbe Pratt alla fine degli anni ’80 in una maniera molto particolare: era il suo nuovo dentista e parlando di lui di viaggi, di letteratura, di cinema e avventure divenne suo grande amico al punto che il grande Hugo inventò per lui lo pseudonimo di Marco Steiner.  “Avevamo letto – ricorda l’autore del Corvo di pietra – gli stessi libri: da Kenneth Roberts, Stevenson a Jack London, da Conrad, Melville fino a Bruce Chatwin…”.
Perché, infatti, se c’è una cosa da cui partire è che Pratt era un uomo di una cultura sterminata. Con i suoi fumetti era pervenuto, togliendo linee alla vignetta, a un’evoluzione grafica senza precedenti e spinta verso l’essenzialità dei segni. Ma si trattava del frutto di un serio e duro lavoro partito da molto lontano, un percorso difficile e complesso, perché “disegnare in quel modo”, diceva, “è difficile e costa fatica”. Lui era sì veloce nel disegnare, “ma ciò non significa nulla – precisava – perché quando io creo una storia il disegno non è tutto da solo non basta. A me per documentarmi su ciò che vado a raccontare mi occorre molto tempo: devo leggere molti libri, effettuare ricerche, spesso andare sui posti di persona”. Pratt era infatti un lettore instancabile, come racconta Antonio Carboni nel libro-catalogo – una vera e propria enciclopedia prattiana – Hugo Pratt. Tuttifumetti (dalla straordinaria collezione di Fabio Baudino): “Lui, attento, critico, immagazzinava con estrema facilità ciò che leggeva. Possedeva una biblioteca vastissima composta da più di 25mila volumi. Saggistica, poesia, filosofia, storia, geografia, i grandi classici del passato, testi antichi, tomi rari e preziosi. Ma anche romanzi, libri di viaggi, cinema, avventura. Nelle lingue più disparate, ne conosceva cinque-sei, ne masticava altre due-tre…”. Italiano all’anagrafe, ma cosmopolita nel Dna, aveva l’avventura, il viaggio, lo spirito di libertà nel sangue. I suoi miti letterari di gioventù gli erano sempre rimasti dentro: Stevenson, Conrad, Melville, Kipling, London, Haggard, Yeats e Rimbaud. Ma anche i meno conosciuti Zane Grey, James F. Cooper, Frederick Rolfe, Somerset Maugham, “anche se oggi nessuno più li legge”, ripeteva. Tra questi autori, anche Henry de Monfreid, l’avventuriero francese che durante la guerra d’Etiopia si era schierato con gli italiani, morto a 95 anni nel ’74, che Pratt conobbe (e che secondo alcuni ispirò alcuni tratti della figura di Corto Maltese) e di cui Hugo illustrerà le copertine di tre romanzi per l’editore Grasset.


D’altronde la vita stessa di Pratt coincise con l’avventura. I Pratt erano d’origine anglo-normanna, scampati alla rivoluzione del 1688, mentre la famiglia materna era d’origine toledana, ebreo-sefardita, e la moglie del nonno era una Azim turca diventata veneziana. Lui nacque a Rimini durante una vacanza dei genitori il 15 giugno del 1927. Figlio di Rolando, un militare di carriera che aveva lavorato anche alla Bonifica pontina, morto nel 1942 in un campo di concentramento francese dopo essere stato preso prigioniero, e di Evelina Genero, a sua volta figlia del poeta popolare veneziano di origini marrane Eugenio Genero, il fondatori dei Fasci di combattimento a Venezia. La sua vita si sviluppò soprattutto intorno alla città di Venezia; qui sono ambientati ben due suoi fumettiL’angelo della finestra d’oriente e Favola di Venezia.
Allo scoppio della seconda guerra mondiale la famiglia di Pratt si trovava in Etiopia, dove il padre era stato arruolato nella Polizia coloniale. Nel 1941 la famiglia Pratt fu internata in campo di concentramento a Dire Daua dove il padre morì nel 1942. Un anno dopo Pratt poté rientrare in Italia grazie all’intervento a favore dei prigionieri della Croce Rossa e a Città di Castello frequentò fino a settembre un collegio militare fascista. Nel 1943, torna a Venezia e fu per breve tempo marò della Decima Mas militando nel Battaglione Lupo finché la nonna lo costrinse a ritornare a casa. Nell’autunno del ’44, invaghitosi di una bella ausiliaria germanica,  rischiò invece di essere fucilato dalle SS, che temevano fosse una spia sudafricana. Nel febbraio 1945, comunque, Hugo passa la linea del fronte. Prima si imbatte nei partigiani, tra i quali incontra alcuni suoi vecchi amici: “Ma – ha raccontato nel romanzo autobiografico Le pulci penetranti – non ci ho resistito molto tempo, nemmeno una settimana: facevano finta di fare maledettamente sul serio”.   Poi arriva a indossare la divisa degli alleati, facilitato dalla sua perfetta conoscenza della lingua inglese. Il 24 aprile entra a Venezia inquadrato e vestito come giovale militare scozzese, poi, ancora per spirito goliardico e avventuroso, indossa una divisa con la mostrina irregolare su cui spiccano le fantasiose iniziali I.S., “individual soldier”. Una divisa che gli servì, come ha raccontato, soprattutto per rimorchiare ragazze…
Dal 1950 in poi, i suoi spostamenti: prima l’Argentina, quindi Londra, di nuovo l’Italia, tra Milano e Genova, quindi Parigi, di nuovo Venezia e, infine, la Svizzera. E i suoi tanti, tantissimi viaggi, in tutto il mondo. E le sue stsorie a fumetti, apparse, negli anni, su Sgt. Kirk, sul Corriere dei Piccoli, su Linus, sul Corriere dei Ragazzi, su Pif Gadget, su Pilot, su L’Eternauta, su Corto Maltese… E i suoi libri, di letteratura e scrittura: Le pulci penetranti, Aspettando Corto, Avevo un appuntamento, Il romanzo di Criss Kenton, Jesuit Joe, oltre alle versioni narrative (pubblicate e ripubblicate sino alle definitive edizioni Einaudi) delle principali storie di Corto Maltese, Una ballata del mare salato e Corte Sconta detta Arcana, sino alla affascinate autobiografia Il desiderio di essere inutile.
Tra i tanti che ne hanno parlato, il cantautore Bruno Lauzi ha raccontato di quando, nella Pasqua del ’75, lo incontra all’aeroporto di Linate. Aveva una lunga sciarpa rossa e l’aria bonaria. Lo guarda e gli fa in veneziano: “Lu l’è il Lausi”, con la esse. E il musicista: “E lei è Pratt. Io sono un suo ammiratore dai tempi dell’Asso di Picche”. Ne viene fuori un invito a pranzo a Saint-Germain-en-Laye, da lui. E finisce che Hugo disegna un Corto per festeggiare l’incontro: “Mentre lui disegna – rievocava Lauzi – gli registro un samba improvvisato che intitolo Samba per Corto. Quel suo disegno ha sempre vegliato su di noi sulle parti della mia casa, moderno Lare…”.
Del grande Hugo resta infine da precisare il particolare orientamento libertario, che lo ha sempre caratterizzato. Tanto che, paradossalmente negli anni ’70, quando vennero messi al bando gli scrittori d’avventura che avevano alimentato i “sogni di libertà” della sua generazione, finì per venire accusato – contemporaneamente – di “libertarismo” e di “fascismo”. Ricordava lo stesso Pratt che in quegli anni si era quasi costretti “a rispolverare Marx ed Engels, autori – annotava – che dovetti frequentare ma che mi annoiarono immediatamente. Visitai anche Marcuse e qualche altro ma tornai ai classici dell’avventura. Venni allora accusato di infantilismo di edonismo e di fascismo”. Critiche che si ribaltarono in fastidi e rappresaglie. Dopo infatti un anno di lavoro alla rivista di fumetti francese Pif Gadget, Pratt venne licenziato perché l’editore, vicino al partito comunista di Francia e tutto preso da storie di impegno e militanza, giudicava eccessivo il libertarismo che anima i fumetti di Corto Maltese.



In un’intervista a Vincenzo Mollica sarà comunque lo stesso Hugo a chiarire il suo pensiero e il fatto che l’arte è un terreno di per sé irregolare e sfuggente a qualsiasi inquadramento militante: “Il fatto che io sia un libertario, e spero che questo traspaia dalle mie storie, non m’impedisce di leggere Kipling. Ci sono molti che dicono che non leggeranno mai Ezra Pound perché era fascista e perché non appartiene a quella cultura che tendenzialmente è marxista e leninista ma io non credo che Ezra Pound debba per forza essere identificato”. E la sua memoria correva dritta ai vecchi ricordi del poeta americano, che Hugo incontrava per le calli della sua Venezia: “Una volta mi ha guardato, fisso a lungo, si è fermato, poi ha fatto un segno. Come per dire: ‘Ci conosciamo’…”.

Anticonformista nelle idee e nella vita, Pratt avrà in Corto i segni della sua stessa biografia: dall’infanzia tra Venezia e l’Africa ai lunghi anni argentini, dal Brasile a Cordoba, dall’amicizia con profughi tedeschi o russi alla passione non militarista per le divise sino a quella per le donne che gli farà mettere al mondo sei figli da quattro madri diverse. Tutto incuriosiva Hugo: “La mia vita – diceva – è colma di sorprese e di piaceri. Le mie numerose ricerche in ogni campo mi hanno permesso di meglio comprendere il mondo e me stesso”. Ma, sempre, senza mai prendersi troppo sul serio: “Quando ripenso a coloro – sentenziò – che mi accusano di essere inutile, e a quello che giudicano utile, allora, a loro confronto, non solo provo piacere a essere inutile, ma ne sento il desiderio”.

domenica 24 maggio 2015

L'italiano nato a Giava e cresciuto in campo di concentramento tra il '40 e il '46



Luciano Lanna

Tra le mie letture preferite ci sono, prima di tutto, le autobiografie, la memorialistica, la narrativa che ripercorre storie personali e familiari. Sono i testi che ci aiutano a conoscere la storia vera, le vite e la vita di persone reali di cui possiamo percepire la scansione autentica senza il filtro di narrazioni ideologiche e filtri di interpretazioni generali spersonalizzanti. Ultimo di questi testi in cui mi sono imbattuto, e assai favorevolmente, è Ombre lunghe di Pier Luigi Giorgi (Cromografica-Gruppo Editoriale L’Espresso, Roma, 2014, pp. 305). Il titolo si ispira a un verso di Vincenzo Cardarelli del 1948, in cui i ricordi di ogni vita vengono paragonati a “queste ombre troppo lunghe del nostro breve corpo”. Il riferimento va quindi ai ricordi, nel nostro caso di Pier Luigi Giorgi, un uomo nato nel 1933 e quindi ora ultraottantenne. Giorgi, oggi pensionato con alle spalle una lunga vita di successi professionali come manager della Olivetti, ha svolto un ruolo importante in molti passaggi fondamentali dell’azienda e dell’economia italiana, è stato amico e collaboratore di personaggi come Dino Olivetti e Pier Luigi Celli, venne assunto da giovane da Furio Colombo, ha conosciuto ed è stimato da Cesare Romiti, ed è stato sicuramente uno dei protagonisti del boom economico. Ma Giorgi, anche per come si racconta, è un uomo che viene da lontano. E la sua storia, come anche le sue idee e la sua sensibilità, sono un esempio centrale per capire la vera storia degli italiani del Novecento.
Pier Luigi nasce nel 1933 a Lembang, un villaggio sull’isola di Giava. Il papà, dopo la partecipazione alla Grande Guerra come Ardito, andò a lavorare, portandosi dietro la moglie, come dirigente nelle piantagioni di gomma delle Colonie inglesi. Ma la sua identità era certa: “Quando venne congedato, avendo militato nel battaglione che più di ogni altro si era distinto sul Piave e appartenendo a una famiglia della modesta borghesia agraria della Bassa Padana, era inevitabile che continuasse a indossare la camicia nera, la stessa che aveva già portato sotto le armi con la divisa degli Arditi”. Nel 1940, dopo quasi dieci anni da italiano cosmopolita all’estero, il mondo si capovolge: all’improvviso la famiglia Giorgi si trovò isolata in campo nemico – la Malesia era dominio britannico – e, inizialmente viene prelevato il capofamiglia, portato in prigione a Singapore e poi rinchiuso per sei anni in un campo di concentramento per civili “nemici” in Australia. Dopo poco tempo, vennero reclusi a Tatura, uno località inospitale del Sud-Est dell’Australia, anche la moglie, il figlio Pier Luigi e la sorellina Gabriella. Lì confluirono tutti i cittadini italiani e tedeschi provenienti da Singapore, dalla Malesia e da Hong Kong. E, ricorda Giorgi, “c’era anche un folto gruppo di italiani provenienti dalla Palestina, molti dei quali, di seconda o terza generazione, avevano sposato donne del posto e si erano convertiti agli usi e costumi locali e parlavano arabo in famiglia. Inoltre, gli ebrei, sia italiani che tedeschi, erano numerosissimi, soprattutto tra questi ultimi, perché erano emigrati dalla Germania per sfuggire alle leggi razziali”.



Tra il 1941 e il 1945 furono ben 18mila i PoW (“Prisoners of War”) italiani ospitati in Australia: “Le autorità militari e politiche si limitavano a controllare i passaporti: hai il passaporto italiano o tedesco? Allora sei un nemico e come tale ti trattiamo…”. Le abitazioni loro riservate erano delle baracche prefabbricate in compensato con il tetto in eternit. Mancava l’acqua corrente: per questo bisognava recarsi in fondo al recinto, dov’erano collocati i servizi igienici comuni, una baracca con le latrine per le donne da una parte, per gli uomini dall’altra. Carta igienica non ce n’era, ci si passavano le pagine dei vecchi giornali. E lì Pier Luigi trascorre anni fondamentali della sua vita, dai sette ai tredici anni di età, con un professore improvvisato e un solo film visto in tutto quel lungo periodo: Fantasia di Walt Disney.
Dopo l’8 settembre 1943 agli italiani fu chiesto se volevano passare con i cooperatori. Ma il papà di Pier Luigi si rifiutò, non firmò l’atto di cooperazione. “You are a true gentleman, Mr. Giorgi”, ammise in compenso l’ufficiale britannico, alzandosi in piedi e mettendosi sull’attenti. Quindi altri tre anni di privazioni e difficoltà anche maggiori per sé e la sua famiglia, ma vissuti sempre con serenità e ottimismo. Giorgi rilegge quel periodo alla luce dell’opera di Viktor E. Frankl l’autore di Uno psicologo nel lager, dove racconta la sua esperienza di ebreo sopravvissuto al campo di Auschwitz: “Fu proprio nel lager che Frankl sperimentò l’importanza di avere una missione, un ideale, una ragione per vivere. Perché soltanto chi si era imposto un compito specifico da assolvere, e che vi si dedicava facendo appello a tutte le proprie risorse fisiche e morali, trovava la forza per superare le situazioni più degradanti e ignobili”. Giorgi spiega, infatti, che anche tra gli internati italiani a Tatura aleggiasse quello spirito e che il sentirsi, sia pure involontariamente, coinvolti in una lunga prova esistenziali abbia rafforzato quegli spiriti e condotti a temprare positivamente il loro carattere.



Buona parte degli italiani di Singapore e di altre provenienze asiatiche, annota ancora Giorgi, erano inoltre di origine o di religione ebraica, ma questi ultimi rimasero pacificamente inseriti nella comunità italiana fino all’ultimo giorno: “L’eco delle leggi razziali e delle discriminazioni antisemite dell’ultimo periodo fascista non fu percepito oltremare, dove molti ebrei continuarono a frequentare i circoli fascisti. In quegli anni, all’estero, bastava essere italiani per essere fascisti e viceversa”. Ma non era così per i tedeschi: “Quelli di loro che si identificavano col regime si trovavano di fronte, anzi decisamente in contrapposizione con altri tedeschi, la folta comunità di ebrei tedeschi fuggiti dalla Germania di Hitler. Nel nostro reparto del campo, infatti, gli ebrei tedeschi costituivano la maggioranza, mentre i tedeschi nazisti erano pochi e isolati. E non sono questi dati di fatto che si darebbero oggi per scontati…”.
Vale la pena leggere, a questo punto, alcune righe di Giorgi: “Gli ultimi due anni a Tatura furono caratterizzati da un’angosciosa sensazione di attesa della fine. All’udire le pur scarse notizie trapelate all’interno del campo – relative a El Alamein e Stalingrado prima, all’invasione della Sicilia poi, alla caduta del Duce, allo sbarco in Normandia, allo scempio dei bombardamenti alleati sulle città italiane e tedesche, allo sbarco e alla lenta risalita della penisola da parte delle truppe alleate – una cupa sensazione d’impotenza, simile a una fitta cappa nera, si era impadronita di tutti noi”. E ancora: “Qualche giorno dopo il 28 aprile del 1945, appena la notizia ci fu comunicata dal capitano di guardia in forma ufficiale, quelli della vecchia guardia fascista organizzarono un rito funebre per la morte di Mussolini: al momento del Vangelo, il padre cappellano recitò la Preghiera del legionario e, al termine della messa, ci fu l’appello al camerata Benito. Tutti, sull’attenti, risposero all’unisono: ‘Presente!’ per tre volte e questo grido segnò la fine di un mito. Avevo soltanto dodici anni ma ero in piedi in mezzo a loro e li ho guardati in faccia a uno a uno: credo di aver capito e condiviso nell’intimo il travaglio di chi, più grande di me, in quel momento sentiva tramontare per sempre le illusioni alle quali era rimasto aggrappato in tanti anni di privazioni e solitudine”.
Ci vollero le bombe di Hiroshima e Nagasaki, a metà agosto, perché le autorità si decidessero ad aprire i cancelli del campo e a smistare i prigionieri in Australia. Poi, a dicembre del 1946, da Sydney la nave per il rientro in Italia. Da Napoli, la risalita della penisola verso Pavia, dove abitavano i nonni: “Papà, mamma e io – ricorda Giorgi – indossavamo ancora i cappotti di lana grigioverde dei prigionieri di guerra, e i ferrovieri ci guardavano diffidenti, stupiti soprattutto per la presenza di una bambina imbacuccata che si guardava intorno con aria stralunata”. A Pavia, sistemata la famiglia con un po’ di difficoltà nella casa dei nonni, Pier Luigi trascorre altri sette anni, di cui gli ultimi tre in collegio. Al liceo tanto studio e ottimi risultati, tranne che agli esami di maturità, dove un professore lo prende di mira e gli abbassa la media: si era accorto che, in attesa dell’interrogazione, lo studente cercava di alleggerire la tensione leggendo Candido, il giornale satirico diretto da Guareschi. D’altra parte, Pier Luigi in quegli anni di liceo era stato attivissimo nell’organizzare manifestazioni studentesche per Trieste italiana: “Ero io che guidavo il gruppo di studenti del classico nel liberare quelli dello scientifico e delle magistrali, dove per entrare dovevamo scardinare degli enormi cancelli; e dove sapevamo di trovare torme di ragazzine che ci aspettavano festanti per sfilare al corteo al nostro fianco; ero io, infine, che attaccavo manifesti e portavo la bandiera ai comizi del Msi”.



Comunque, superata la maturità, Pier Luigi parte in autostop insieme a un suo amico alla volta della Scandinavia. Attraverso Svizzera, Germania, Danimarca, Svezia e Norvegia fu un viaggio di iniziazione che avrebbe segnato la sua vita e il suo spirito. Quindi, l’università, sempre a Pavia. Qui Giorgi fu il promotore della prima lista del Fuan. Le elezioni non andarono bene, soprattutto per alcuni brogli messi in atto dalle altre liste. Giorgi se ne fa una ragione: “Non ebbi bisogno di pensarci su molto: decisi che da quel momento non avrei più sprecato tempo a occuparmi attivamente di politica, né all’università né in altre sedi”. Ma leggendo il libro si comprende bene che il suo orientamento sia rimasto sempre lo stesso e che anche le sue simpatie, anche elettorali, siano andate nella stessa direzione. Solo che Pier Luigi si è occupato d’altro nella vita: della costruzione del suo carattere, della sua curiosità intellettuale, della sua famiglia, del suo lavoro. E a leggere bene tutte le pagine, estremamente interessanti e coinvolgenti che dedica a questo, saltano molti stereotipi e si scardinano molti luoghi comuni. A cominciare dalla descrizione dell’anno che ha trascorso negli Stati Uniti per una borsa di studio di preparazione al lavoro nell’Università di Tulane in Louisiana. Pier Luigi rimase estasiato dalla percezione di una realtà plurietnica. Gli apparvero come meravigliosi i jazz funeral, i funerali con processione e jazz band della gente di colore, con l’ascolto di brani come When the Saints Go Marching In. E non a caso, racconta: “C’era ancora l’apartheid e i bianchi non erano ammessi, ma noi avevamo brigato per ottenere un’autorizzazione speciale in quanto europei e simpatizzanti dichiarati del semiclandestino movimento integrazionista”. E Giorgi ricorda le battaglie, che lui condivideva, di Martin Luther King.
L’altro aspetto interessante è la lettura che, lui e i suoi colleghi di studi, fanno in inglese di On the Road di Jack Kerouac, che soltanto due anni dopo verrà tradotto in Italia: “Era il manifesto di protesta delle correnti di avanguardia giovanili, una tormentata generazione di filosofi mistici che si ribellavano al dilagante conformismo di massa con la loro disperata ricerca di valori, di un nuovo senso della vita: giovani che si esaltavano suonando o ascoltando jazz, passavano da una moto a un’auto schiacciando l’acceleratore fino a bucarsi la suola delle scarpe, sfogando così la loro energia, quella loro avidità di vita che sembrava non potersi placare mai e in nessun luogo…”. E Giorgi, sulla scorta di Kerouac, percorrerà gli States coast to coast, dall’Est alla California, con avventure, conoscenze, entusiasmi e scoperte, dagli homeless all’Ymca. Godibilissime le “pagine americane”, come poi anche quelle delle sue prime avventure professionali.
Al termine del libro, Giorgi spiega come tutta quanta la sua vita sia stata mossa dall’ideale della formazione del carattere, un percorso consapevole in cui ogni occasione è stata utile per mettersi alla prova. “Tutto ciò che non ci uccide ci rende più forti”, ricorda commosso, “erano le parole di Nietzsche che tante volte mi aveva ripetuto il mio professore di tedesco e di filosofia a Tatura”.  Una visione della vita che non si chiude però mai nell’individualismo: “La mia speranza – è il suo messaggio – è che chi legge si renda conto che la formazione personale di ciascuno di noi non è circoscritta ai posti e ai tempi che gli sono toccati in sorte, ma che essa attinge a un forziere ricchissimo e prezioso, pieno di tutte le storie delle persone per noi importanti che ci hanno preceduto e che hanno vissuto in altre epoche e in altri mondi, così lontani e diversi, apparentemente”. 

sabato 16 maggio 2015

Le “occasioni perdute” della politica secondo Venditti




Luciano Lanna

Ancora una volta Antonello Venditti si mostra come un cantautore davvero libero da schemi e automatismi, in piena sintonia con i nostri tempi di rottura dei vecchi sensi di appartenenza. Intervistato da Mario Ajello sul Messaggero alla domanda se lui si considera di sinistra (o di altro) sbotta: “Io non mi pongo questo problema e non me lo ponevo neanche prima. La parola ‘compagno’ non mi ha mai entusiasmato. Io sono Antonello, ragiono con la mia testa e mi schiero per le cose giuste in cui credo…”. E anche quando il giornalista gli chiede se Matteo Renzi è di sinistra, risponde: “Ma perché lei si fa questa domanda? Io a questo interrogativo, posto così, non posso rispondere…”. Alla fine arriva l’unica definizione che riguarda sé stesso: “Il mio cuore è ribelle”.

Proseguendo, Venditti spiega che a lui non interessano le etichette ma la possibilità di creare condizioni per cambiare le cose. E via con le “occasioni perdute” in Italia, a partire da quel ’68 in cui “Nietzsche e Marx si davano la mano”. Una grande occasione per cambiare l’Italia e il quadro politico, dice Venditti, la si è perduta “nel 2010, prima che cadesse il governo Berlusconi…”. Ovvio il riferimento ai parlamentari che avevano “strappato” con l’allora premier e avrebbero potuto determinare un’altra maggioranza e una nuova sintesi… “Poi, nel 2013, dopo le elezioni – prosegue Venditti – se Bersani e il Movimento 5 Stelle, soprattutto quest’ultimo, avessero parlato seriamente, si poteva anche allora cambiare il nostro Paese”. Insomma, abbiamo perduto ben due occasioni. E adesso? “Dopo questi passaggi, l’Italia non aveva alternativa. C’era soltanto Renzi. Gli altri sono stati non soltanto lenti ma inconcludenti. Adesso la speranza è che in il Movimento 5 Stelle, composto in realtà da tante anime e da tante posizioni, sia capace di entrare in un discorso costruttivo, se fosse possibile”. 

venerdì 3 aprile 2015

Addio a Giampiero Rubei, nel suo locale quello strano mix tra Tolkien e Charlie Parker



Luciano Lanna

Quando, nel 1997, ho collaborato a un programma televisivo della Rai che doveva raccontare e spiegare cos’era successo in Italia nel 1977, andai convinto a intervistare, tra gli altri, Giampiero Rubei, lo straordinario personaggio che ci ha lasciato a Roma ieri mattina. Proprio nel ’77, infatti, si era determinata una “rottura” generazionale, anche se non sempre consapevole, nell’immaginario della società italiana secondo cui, sia a sinistra che a destra, nel mondo giovanile si scopriva un nuovo modo di comunicare e partecipare al proprio tempo. E Giampiero Rubei, pur se da una prospettiva difficile e non allora maggioritaria, ne era stato tra i protagonisti, per quanto improvvisati e un tantino inconsapevoli. E il cui lavorio e impegno sarà destinato a durare nel tempo.
Come ha spiegato il compianto Renato Nicolini, “alcuni fenomeni di quell’anno  stavano indicando nuovi modelli di comunicazione politica”. E in effetti l’elemento unificante dei fermenti che trovarono manifestazione in tante cose del ’77 stava probabilmente in un fattore sociologico: la crescita e la consapevolezza sociale di un nuovo ceto medio creativo. E sarà infatti sul filo dell’esperienza esistenziale e della comunicazione che si giocò la novità dei fenomeni emersi in quell’anno e che segneranno nei decenni successivi i nuovi luoghi e i nuovi linguaggi della società italiana. Era la cosiddetta metapolitica, il privilegiare l’immaginario, le idee, la mentalità rispetto a una politica intesa solo come elezioni e acquisizione di spazi di potere. Tra cui, appunto tutto ciò che sperimentò da allora in avanti Giampiero Rubei…

Classe 1940, romano di Roma, cresciuta tra Monteverde e i Palazzi di Donna Olimpia, Giampiero è un bel ragazzone dai tratti da antico legionario, che in loden e Ray-ban frequenta attivamente la destra creativa dell’epoca, quella che si riconosce nel circolo intellettuale di via degli Scipioni, che frequenta il pensatore tradizionalista Julius Evola, che nel 1968, comunque, sta con gli studenti di Valle Giulia nella celebre battaglia contro gli sbirri… Sì, Giampiero era uno di quelli che – sampietrini alla mano – affronta e sfida la repressione dei poliziotti e che consentirà al cantautore Paolo Pietrangeli di celebrare il giorno in cui “non siam scappati più…”. Un “fascio” eretico e curioso, più un “fascista immaginario” che un destrorso, appassionato alla lettura di Céline e Jünger, che agli attivisti duri e puri preferisce la frequentazione degli irregolari. Tanto che si schiererà col centro studi di Pino Rauti e aderirà al Msi solo nel 1969 con l’adesione di quel gruppo al presunto processo di rinnovamento ventilato dal nuovo segretario Giorgio Almirante. Coerentemente Rubei diverrà segretario della sezione romana di Monteverde in quei primi anni Settanta fatti di scontri, equivoci, sangue e lutti… Esilaranti gli aneddoti che raccontava su quel periodo, quando Giampiero insieme agli amici Carlo Carocci, professore di scuola da poco anche lui scomparso, e Virgilio Ilari, oggi accademico di vaglia e uno dei massimi studiosi italiani di geopolitica e storia militare, andavano di notte ad attaccare i manifesti senza dirlo alle rispettive mogli. Come quella volta che per quella affissione si tolsero le scarpe per montare uno sull’altro, e a manifesti attaccati non trovarono più le scarpe e dovettero tornare a casa scalzi subendo i rimbrotti delle consorti…

Bene, proprio nel ’77 Giampiero – che nel frattempo era stato anche il custode dell’ultimo respiro di Evola e l’esecutore testamentario delle volontà del maestro – fu tra gli ideatori e organizzatori del Campo Hobbit, una due giorni di happening dei ragazzi di destra all’insegna non degli slogan e della militanza ma del nuovo modo di essere dei giovani: la grafica, i fumetti, le radio libere, la poesia, l’ecologia, l’alimentazione, i gruppi musicali, i cantautori, in una parola… la creatività. Era l’anno in cui lo hobbit Frodo Baggins diventava il simbolo di una nuova destra giovanile. Nascevano circoli culturali dai nomi tolkieniani, veniva fondata l’associazione La Terra di Mezzo, si inaugurava la rivista d’impegno femminile Eowin…  E si imponeva, anche a destra, un nuovo modo di vivere e praticare l’impegno, oltre i cortei militarizzati, gli slogan e i comizi. Non a caso lo scrittore di sinistra Piero Meldini arriverà a scrivere solo un anno dopo: “Poniamo che qualcuno di noi abbia uno spiccato interesse per la letteratura fantastica. Che farà? La tratterà come una perversione da coltivare in gran segreto o si iscriverà, per amore di coerenza, al Fronte della Gioventù?”.
Giampiero Rubei non si fermerà, comunque. E tre anni dopo realizzerà – insieme a Teodoro Buontempo e Umberto Croppi – il terzo Campo Hobbit, il culmine di un tragitto e di un processo di consapevolezza politica, culturale e, per lui e qualcun altro, anche professionale. Dopo una serie di esperimenti – una manifestazione musicale nel 1982 con le band di tutte le scuole medie superiori romane, qualche concerto musicale – Rubei punta tutto sulla creazione e affermazione di un locale, l’Alexanderplatz di via Ostia, nel quartiere Trionfale, che in breve si affermerà come il migliore jazz club italiano. E a poco a poco, proprio nel jazz, Giampiero troverà la sua vera vocazione umana, metapolitica e professionale. “Nel jazz – ha spiegato una volta – c’è il linguaggio adrenalinico del Novecento, la vitalità dell’improvvisazione, la forza dell’elementare…”. Quel locale diverrà un punto di ritrovo fisso per gente come Chet Baker, per lo scrittore beat Gregory Corso, verrà frequentato da Fausto Bertinotti, da Renzo Arbore, da Nanda Pivano, da Giancarlo Governi, dallo scrittore Filippo La Porta, dal compianto Gianni Borgna. E negli anni Novanta Rubei darà vita a uno dei più importanti festival italiani di musica e sonorità afro-americane: Jazz & Image a Villa Celimontana. Qui si esibiranno i maggiori musicisti sul piano internazionale, da Michel Petrucciani a Wynton Marsalis, da Dionne Worwick a Burt Bacharach, da Sarah Jane Morris a Luis Bacalov. E da Rubei si faranno conoscere italiani come Stefano Di Battista e Ada Montellanico ma anche, gli argentini, Aires Tango. E arriveranno i riconoscimenti da oltre Oceano: Downbeat, la prestigiosa rivista internazionale di jazz, arriverà a celebrarlo in prima pagina con tanto di foto a cinque colonne, coronando così un lungo percorso di una passione autentica. Nel jazz Rubei aveva ritrovato – e individuato – la declinazione creativa di tutto quanto aveva assorbito negli anni dalle sue letture, dalle sue passioni, dal “suo” Sessantotto, da Evola, da Kerouac, da Céline.
Ma tutto il suo percorso venne sempre pensato come coerente e intrecciato. Tanto che nel 1998 a Roma, nel corso di Villa Celimontana, Rubei fece esordire Hobbit/Hobbit, un’opera jazz ispirata al Signore degli Anelli: “Tutto è partito – raccontò – dalla mia intuizione di ritrovare nel jazz la stessa carica di libertà e la stessa creatività del mondo tolkieniano”. E allo stesso modo, nel 2000 e nel 2005 Rubei fece rappresentare, sempre a Villa Celimontana, due lavori teatrali e musicali, ispirati uno a Ezra Pound e l’altro a Céline e realizzati con il contributo del suo amico, jazzista oltre che scrittore, Filippo La Porta.
Personalmente vorrei ricordare la volta – era il 1996 – che Giampiero mi telefonò per propormi di condurre una trasmissione radiofonica quotidiana in Rai insieme a un mostro sacro della critica musicale quale Peppe Caporale. “Giampiero”, gli dissi imbarazzato, “ma non sono un esperto di jazz…”. La sua risposta racconta tutto il suo personaggio: “Ma che te frega, Lucià, sei un giornalista, sai parlare, sai improvvisare… E quindi il jazz lo hai già capito… Poi, prenditi qualche libro e studia. Piuttosto – e concluse – va’ a firmare, che poi è tardi…”. Grazie, Giampiero, te ne sarò sempre grato.

  

domenica 22 marzo 2015

Suite francese, i tedeschi "cattivi" del film e il vero senso del romanzo





Annalisa Terranova

Non è brutto il film di Saul Dibb ispirato al romanzo incompiuto Suite francese. Non è brutto ma poteva essere migliore, con un più onesto finale aperto al posto di quello, scadente, che fa diventare la protagonista un'affiliata della Resistenza. Anziché preoccuparsi di mostrare allo spettatore quanto erano cattivi i tedeschi, bisognava forse preoccuparsi di mostrare l'essenza del capolavoro di Irene Nemirovsky, uccisa dai nazionalsocialisti ad Auschwitz nel 1942. E dove risiede quell'essenza? Nel raccontare la prova dell'umanità piegata dalla sciagura e dalla guerra, quel venir fuori negli uomini e nelle donne, nell'imminenza di un grave pericolo, del lato meschino o più eroico, quel loro farsi esempi di malvagio egoismo o di mirabile dedizione. E provare, ancora, a spiegare la contaminazione con il nemico nel villaggio di Bussy. Quella freddezza con cui vengono accolti al principio i tedeschi che si trasforma in tiepida, complice accoglienza nel riconoscere lo statuto umano che va oltre l'appartenenza a una terra e a una razza. 

La celebrazione dell'essere umano fatta da Irene Nemirovsky è l'affronto letterario più grande che poteva essere fatto all'ideologia della razza, all'esasperazione dei nazionalismi. E all'affronto si aggiunge la sfida di raccontare l'amore tra Lucile, la francese e Bruno, l'ufficiale tedesco. Di mostrarne la bellezza e la purezza, oltre i pregiudizi e le convenzioni. L'archetipo dell'amore impossibile fornisce in letteratura il clima tragico e catartico più soddisfacente (basti pensare a Romeo e Giulietta) ma in questa coppia di Suite francese c'è il contesto della modernità a rendere più commovente la narrazione. Lui è un soldato qualunque, lei una qualunque borghese. Entrambi sono sposati ma non resistono, neanche razionalmente, all'emergere delle reciproche affinità elettive. Una comunione spirituale da cui non nascerà una passionale storia d'amore. 



Si tratta di due individui che soccombono alle legge spietate di un destino che non li calcola e hanno appena il tempo di scambiarsi uno dei più brevi e intensi dialoghi d'amore. " 'Io la prego, in mia memoria, di aver cura per quanto possibile della sua vita'. 'Perché significa qualcosa per lei?', domandò lui ansiosamente. 'Sì perché significa qualcosa per me'. Si strinsero la mano, lentamente". 

Ma un finale che coinvolgesse solo due esseri in preda al tumulto e alla sofferenza non poteva essere il giusto finale di un affresco come Suite francese: c'è quello spiare dei francesi dalle finestre il reggimento tedesco che se ne va verso la Russia, rimuginando sull'occupazione come esperienza che è prima di tutto umana (il piccolo tedesco che aveva imparato le canzoni francesi, il soldato che acquista in un negozio francese il bavaglino per il neonato che lo aspetta a casa, quell'altro che aiuta la donna francese a curare il marito), capace di determinare quello spazio di relazioni da dove scompaiono la morte e il sangue. I francesi guardano il nemico andare via e provano malinconia per quei ragazzi che forse finiranno sepolti sotto la neve della Siberia. Se ne vanno cantando un canto "lento e grave che si perdeva nella notte", un reggimento di ragazzi, di cui resta il ricordo di risate e battute. 



Possiamo leggere la sorte di Lucile e di Bruno come quella di un'antitesi inconciliabile tra la paziente legge dell'alveare e l'urgenza delle libertà individuali, il diritto alla felicità anche quando un mondo va in rovina. L'ufficiale spiega alla donna francese in cosa consiste lo spirito tedesco: "La guerra è opera collettiva per eccellenza, noi tedeschi crediamo nello spirito comunitario, così come si dice che le api hanno lo spirito dell'alveare. Gli dobbiamo tutto: nutrimento, splendore, profumi, amori...". Lei vorrebbe opporre a tutto ciò una ribellione anarchica: "Odio questo spirito comunitario di cui ci riempiono le orecchie. Su una sola cosa tedeschi, francesi, gollisti la pensano tutti allo stesso modo: bisogna vivere, pensare, amare con gli altri, in funzione di uno Stato, di un paese, di un partito. Oh mio Dio, non voglio, sono una povera donna inutile ma voglio essere libera...". Ma tutto questo stridere di pensieri opposti non fa che produrre una fantasia, una celia, una speranza che dura il tempo di una bevuta, di una breve passeggiata nella campagna dorata di giugno, una dichiarazione d'amore: "Signora, dopo la guerra tornerò. Mi permetta di tornare. Tutti questi problemi tra Francia e Germania saranno vecchi... superati... per quindici anni almeno. Una sera suonerò alla porta. Lei mi aprirà e non mi riconoscerà, perché sarò in borghese. Allora dirò: 'Sono l'ufficiale tedesco ricorda? Adesso c'è la pace, la felicità, la libertà. La porto via con me. Venga, partiamo insieme' ". 


sabato 28 febbraio 2015

Salvini, gli antifa e le allettanti promesse




Annalisa Terranova

Pensando alle piazze contrapposte di oggi (i #maiconsalvini e i #consalvini) mi viene in mente la canzone di Lucio Battisti, Le allettanti promesse. Il cui senso è: non posso perdere tempo a parlare di cose che non hanno senso (la politica del curato contro quella della giunta, tutti lì a vedere chi la spunta, non posso parlare solo di calcio e di donne, di membri lunghi tre spanne non posso parlare...) e che pure costituiscono il contesto rassicurante in cui adagiarsi per andare avanti. Pensiamoci un attimo: gli antifa che pensano di fare la nuova Resistenza, i fascistelli che pensano di emulare le gesta dei camerati eroici degli anni Settanta. Tutto per far tenere un comizio a Matteo Salvini, un propagandista di livello mediocre, che dice cose prevedibili, appena appena dignificate dai consigli di un intellettuale oscillante tra anticonformismo da salotto e neofascismo all'acqua di rose. Intendiamoci: è legittimo che Salvini tenga il suo comizio (e in questo, dinanzi all'incredibile sceneggiata violenta degli eredi dell'antifascismo militante ha non solo la mia solidarietà, ma avrebbe dovuto avere la solidarietà di tutte le forze politiche). 

Ma occorre fare un passo indietro e guardare la giornata odierna da una distanza di sicurezza che impedisca coinvolgimenti emotivi. Occorre pensare a quanto le piazze contrapposte siano funzionali a ciò che sta accadendo oggi in Italia e cioè la formazione di un'area di potere post-ideologica, simile ma non uguale alla vecchia Dc (perché non ne possiede la cultura politica), frutto maturo di una finanziariazzazione della politica che lascia mani libere al mercato inserendo nei parlamenti e nelle assemblee elettive personaggi che sono costruiti sulla pura immagine. Per rafforzarsi questo progetto necessita di un'estrema destra lepenista e di un'estrema sinistra radicalizzata i cui leader saranno da un lato Salvini e dall'altro Landini. Salvini, al contrario di un Beppe Grillo (che ha ormai esaurito le sue potenzialità) è molto più controllabile e prevedibile e si adatta allo schema alla perfezione. Le contrapposte mobilitazioni odierne, con le passioni e le emotività che le percorrono, sono anch'esse utilissime al clima di restaurazione neocentrista in atto (non dimentichiamo che il ministro degli Interni è Alfano, legato a Renzi e all'immarcescibile Casini). Uno schema simile agli anni Settanta che potrebbe produrre anche le stesse violenze di quegli anni, magari con un'intensità diversa ma con identico impatto psicologico sull'elettorato moderato. 

Ciò che accade è il frutto di due fallimenti: quello di Berlusconi e quello di Gianfranco Fini. Il primo aveva portato il vento nuovo del bipolarismo e dell'alternanza. C'erano due poli, c'erano due opzioni che però, anziché proporre una visione per il Paese, hanno prodotto un berlusconismo irrazionale e incapacitante e un antiberlusconismo odioso e infantile. Le potenzialità di un assetto politico nuovo (tra cui il superamento delle logica del nemico, l'abbandono dell'antifascismo viscerale, l'archiviazione dell'anticomunismo) sono evaporate in una serie di errori, di immobilismi, di interessi personali che hanno interagito con l'attività politica e di governo. E tuttavia quello scenario è addirittura da rimpiangere dinanzi a quello, tristissimo e plumbeo, che si profila oggi all'orizzonte.

Quanto a Gianfranco Fini, la sua operazione di trasformare la destra nostalgica in una forza matura e di governo è stata supportata (anche grazie alle scelte da lui stesso fatte sui dirigenti chiamati a interpretare tali istanze) solo da slogan e asfittici documenti. Alla prova dei fatti la destra di governo è apparsa meno credibile di quanto ci si aspettava, né ha saputo abbandonare il vizio antico della subalternità (prima a Berlusconi e oggi a Salvini) che nasconde un mero interesse elettorale. E tutto ciò a discapito di comunità (che sono cosa distinta dall'elettorato) che pure con dedizione, onestà e corretto spirito militante hanno cercato di fornire un contributo disinteressato a questo progetto. La destra oggi deve tornare dunque nel suo recinto ghettizzante di forza estremista, protestataria, in ultima analisi inservibile. E meglio se ogni tanto si arriva a qualche scontro fisico con gli avversari. Il renzismo gliene sarà grato. 

mercoledì 25 febbraio 2015

Ma la "sottomissione" di Houellebecq non è una "conversione"


Luciano Lanna


“Se attualmente c’è qualcuno, nella letteratura mondiale e non solo francese, che pensa questa sorta di enorme mutazione che tutti noi sentiamo essere in corso senza avere i mezzi di analizzarla, e che non concerne soltanto la civiltà occidentale ma lo status dell’umanità, questi è lui…”. Il riferimento è a Michel Houellebecq e al suo romanzo Sottomissione (Bompiani) e a sostenerlo è un altro grande scrittore francese a noi contemporaneo, Emmanuel Carrére, autore del recentissimo Il Regno (Adelphi).
Il romanzo di Houellebecq, comunque, a leggerlo (e saperlo leggere) bene non è affatto – come molti pensano o cercano di farlo pensare – una denuncia “à la Fallaci” sull’invasione musulmana o sulla minaccia jihadista in corso ma un libro sulla più complessa e contraddittoria mutazione di civiltà che l’Europa starebbe attraversando.
Che il libro sia la cronaca di una mutazione attraverso le vicende di un personaggio-io narrante è un dato di fatto. Il protagonista è una tipica figura houellebecqiana: docente universitario, specialista di Huysmans, vive solo e sradicato, non vede i familiari e i parenti da decenni, non ha legami affettivi stabili, non crede in nulla. Si scalda, da solo, piatti al microonde,  sperimenta solo rapporti erotici prima con una ragazza ma che la sua onestà patologica gli impedisce di amare. Non aspira che ad andare a dormire verso le quattro del pomeriggio con una bottiglia di alcol forte, una stecca di sigarette, una pila di buoni libri che non molti ormai leggono, e la prospettiva a questo ritmo di morire rapidamente, infelice e solo. Ovvio che la sua esistenza è pensata e descritta da Houellebecq come quella di milioni di persone in una postmodernista società globale sempre più diffusa…
Ma il romanzo, a un certo punto, introduce la trasformazione in corso della percezione pubblica della politica attraverso la descrizione della elezione presidenziale francese del 2020. Nella precedente tornata, quella del 2017, François Hollande era stato rieletto per sbarrare la strada a Marine Le Pen, ma intanto s’era manifestata una nuova forza politica: la Fratellanza musulmana. Il suo leader, Mohammed Ben Abbes, è un musulmano francese, dal fisico rassicurante del “vecchio droghiere tunisino di quartiere”, che non si riconosce nell’antisemitismo, sostiene la causa palestinese ma con circospezione, recluta i suoi seguaci ben al di là delle popolazioni musulmane. La situazione è quindi inedita: i due grandi partiti, di centrodestra e di centrosinistra, attorno ai quali si strutturava la vita politica francese, ma non solo, dalla fine della seconda guerra mondiale, sono ormai fuori gioco, privi di funzione e rappresentanza. Così come perdono di centralità i media e il loro teatrino a buon mercato: “La brutale implosione del sistema di opposizione binario centrosinistra/centrodestra – si legge nel romanzo – aveva inizialmente sprofondato l’insieme dei media in uno stato di stupore ai limiti dell’afasia”. Si potevano vede i più popolari commentatori televisivi “trascinarsi da uno studio tv all’altro, incapaci di commentare una mutazione storica che non avevano previsto…”. Il dibattito pubblico è cambiato, è straordinariamente diverso da quelli visti in Europa negli ultimi decenni, ne sono cambiati gli elementi di discussione. Non più quelli strettamente economici o di logica economici, ma semmai di ordine morale. Non a caso, nella Francia di Mohammed Ben Abbes, riprendono vigore le idee del distributivismo cattolico d’inizio Novecento, l’orientamento prospettato da HIlaire Belloc e G.K. Chesterton: “La sua idea di base – ricorda Houellebecq – era la soppressione della separazione tra capitale e lavoro. La sua forma sostanziale di economia era l’impresa familiare; nel caso si presentasse la necessità, per determinate produzioni, di riunirsi in entità più ampie, si doveva fare di tutto perché i lavoratori fossero azionisti della propria impresa e corresponsabili della sua gestione”. All’inizio del Novecento declinato in versione cattolica, nel 2020 in versione musulmana, il distributivismo spinge la nuova Francia verso una serie di trasformazioni: totale soppressione degli aiuti di stato ai grandi gruppi industriali, adozione di trattamenti fiscali molto vantaggiosi per l’artigianato e l’autoimprenditorialità, sollecitazione ai giovani a “mettersi in proprio” più che a cercare un posto nelle burocrazie. Il passaggio novecentesco al lavoro salariato generalizzato, spiega ancora Houellebecq, aveva necessariamente provocato l’esplosione della famiglia e l’atomizzazione completa della società che, di contro, sarebbe riuscita a rifondarsi solo quando il modello di produzione normale fosse tornato a basarsi sull’impresa individuale e familiare.
Su questo sfondo, nelle pagine di Sottomissione, mentre la mutazione di civiltà avviene, all’inizio, si è leggermente turbati nel non vedere più, da nessuna parte, donne che indossino la gonna né, ben presto, donne che frequentino i luoghi pubblici, ma la Francia ritrova comunque un ottimismo che aveva perso dalle “Trente glorieuses” (i trenta gloriosi anni di crescita economica dalla fine della seconda guerra allo choc petrolifero). Visto che le donne escono dal mercato del lavoro, la curva della disoccupazione si inverte e si ridefinisce una sorta di società tradizionale e organica… Ed è proprio sull’organicismo come alternativa al nichilismo e al disincanto postmoderni che si dipana la trama (come la riflessione filosofica e politica) dell’intero romanzo. La religione e la spiritualità in quanto tali non c’entrano nulla: in gioco entra semmai una certa idea della religione come collante di civiltà, che porta i protagonisti a vivere e praticare l’adesione a una fede come risoluzione ai problemi personali e sociali. E se all’inizio del Novecento l’opzione era quella del cattolicesimo così come prospettato da Charles Maurras e altri autori – progenitori degli identitari e lepenisti di oggi – Houellebecq delinea un analogo processo possibile attraverso l’adozione dell’islam. Non è un caso che, nel romanzo, molti ex identitari di estrema destra passano direttamente all’islam dopo averlo contrastato scoprendo, in realtà, che la prospettiva possibile è assai simile… E il punto culminante del libro è la  conversazione del protagonista con un il nuovo rettore della Sorbona islamizzata che, autore di una tesi su René Guénon, è passato dagli ambienti identitari per approdare all’islam. Tutto sommato, è forse nelle osservazioni condotte sugli scrittori cattolici di fine Ottocento e inizio Novecento – Huysmans e Bloy in primis, ma anche Maurras – si può cogliere l’essenza del romanzo insieme alla sua incomprensione di fondo del vero cristianesimo. È infatti vero che la prospettiva viene prospettata come “sottomissione” a una fede e non come “conversione”, interiore e spirituale. Il narratore alla fine del romanzo si converte. Ma si tratta di una vera conversione o, piuttosto, di una risoluzione ai suoi problemi di vita pratica, tutti umani troppo umani (il posto di lavoro, l’unione e la convivenza con una o più donne, l’alternativa alla solitudine e al non senso, una rete di contatti e amicizie)? Tutto questo emerge chiaramente nella non comprensione della visione e della “conversione” di Charles Péguy, che viene citato come convertito ma di cui, nel libro, non traspare nulla delle pagine speranza e della trasformazione del cuore apportate dall’incontro con Cristo.
Ribadiamo che la “sottomissione” del protagonista del romanzo non ha nulla di spirituale ma viene descritta solo come l’approdo a un orizzonte organico da parte di un soggetto disorientato e vuoto che vi si appiglia – come disperato – quale ultima spiaggia. Niente di diverso, sia ben chiaro, dalla visione del cristianesimo fatta propria da Maurras, una modalità di presentare il cattolicesimo come strumento politico e quale collante organico della civiltà occidentale. Tesi che presentava la presunta identità cristiana non come una prospettiva di fede, di speranza e di carità ma come sovrastruttura ideologica di unificazione politica e di civiltà. Tesi che però già negli anni Trenta del Novecento erano state condannate ufficialmente e sanzionate dalla Chiesa cattolica. Preparata già dal 1913 da papa Pio X – con l’esplicito rimprovero di subordinare la religione alla politica e all’ordine civile – la condanna arrivò infatti il 29 dicembre del 1926 quando papa Pio XI metteva all’indice i libri di Maurras per decreto del Sant’Uffizio e l’8 marzo del 1927 agli iscritti all’Action française venivano interdetti i sacramenti. Ma questi tesi, lo sappiamo bene, hanno ripreso vigore all’inizio del nuovo millennio, attraverso la propaganda teo-con dei conservatori statunitensi e la vulgata catto-identitaria dell’estrema destra europea e sono, fortunatamente, state stoppate e rinviate al mittente dal pontificato di Papa Bergoglio.

È pensabile, allora, quello che profetizza il romanzo di Houllebecq? E cioè che questo approccio “non spirituale” alla religione si riproponga, dopo l’epifania della postmodernità disincantata e secolarizzata, attraverso presunte parole d’ordine delll’islam, magari attraverso la mediazione intellettuale di Guénon, e che gli ambienti identitari possano trovare alla fine il loro cavallo di Troia proprio nell’islam? Come ha commentato Carrére, “non è impossibile che l’islam più o meno a lungo termine non rappresenti il disastro ma l’avvenire dell’Europa, come il giudeo-cristianesimo fu l’avvenire dell’Antichità pagana”. Noi, comunque, non vorremmo che ciò che non è riuscito ai maurassiani possa riuscire, domani, ai neo-guénoniani. Continuiamo infatti a pensare, proprio con Charles Péguy, che la conversione non è affatto una questione di risoluzione di vita pratica così come non è una questione di civiltà, ma un qualcosa che riguarda (e salva) il cuore della singola persona:  “Vi era il cattivo tempo anche sotto i Romani. Ma Gesù non si rifugiò affatto dietro la disgrazia dei tempi. Egli tagliò corto in un modo molto semplice. Facendo il cristianesimo. Che significa che non incriminò, non accusò nessuno. Egli salvò i singoli. Egli non incriminò il mondo. Egli salvò”.