domenica 30 agosto 2015

Al "libertarismo" preferisco il grido del "libertario"



Mio articolo apparso oggi sulle pagine culturali del quotidiano "il Garantista"

Luciano Lanna

Dovendo scrivere di un –ismo ma collocandomi personalmente all’opposto di qualsiasi ideologia (e quindi di qualsiasi –ismo) proverei a evocare l’orientamento che secondo me corrisponde alla fuoriuscita da qualsiasi interpretazione ideologica e che potremmo farlo coincidere, necessariamente, con quello “libertario”. Preferisco ovviamente l’aggettivo in questione al sostantivo “libertarismo” che di per sé potrebbe condurre a fare, magari inconsapevolmente, un’ideologia anche della stessa opzione anti-ideologica. Non a caso, storicamente si è parlato di libertarismo, nell’Ottocento, per l’anarchismo di Stirner, Bakunin e Kropotkin, in cui a prevalere era una precisa e definita ideologia (“né Dio né Stato né servi né padroni”) e la cui traduzione coincideva o nell’organizzazione (di per sé una contraddizione in termini) di gruppi, gruppuscoli e progetti di cospirazione o nel gesto violento dettato dall’esasperazione e dalla follia. E, più avanti, nel Novecento, si è parlato sempre di libertarismo (“libertarianism”), ma in termini astratti ed esclusivi di filosofia politica e di costruzioni intellettuali, per alcune scuole di pensiero statunitensi orientate verso l’antistatalismo e l’assunzione del mercato come  criterio fondativo (e assoluto) delle relazioni umane. Ma vale su questo quanto affermato da Daniel Cohn-Bendit: “Il mio essere libertario definisce la mia scelta a favore della libertà ma, sia chiaro, non quella delle multinazionali, per le quali continuo a chiedere controlli e regole”. Sia ben chiaro: è indiscutibile che presupposti, pulsioni, aspirazioni sia dell’anarchismo ottocentesco che del libertarianism americano siano a tutti gli effetti di matrice libertaria e che molto di quanto da loro prodotto sia utile per l’elaborazione di un background di riferimento per il libertarismo postmoderno.
Ma è comunque ovvio che l’orientamento libertario che stiamo cercando di delineare (e che propone un nuovo e diverso libertarismo, adeguato al ventunesimo secolo) fuoriesce completamente da qualsiasi prospettiva sistematica e ideologica e si pone in termini esistenziali più che politologici. Si tratta più di una postura esistenziale che di una sistemazione teorica. Da un punto di vista culturale, ad esempio, esso infatti è anzitutto il portato di un attraversamento del Novecento in direzione della libertà così come testimoniato da figure come Albert  Camus, Charles Péguy e Simone Weil, Bruce Chatwin e Hannah Arendt. E alle quali si possono senz’altro accostare anche autori come Ernst Jünger, Arthur Koestler, Ignazio Silone, Bertrand Russell, André Malraux, George Orwell... Personalità del secolo scorso che si sono contraddistinte per il fatto di aver “attraversato” integralmente e criticamente il Novecento, essersi pure in molti casi inizialmente abbeverati alle sue passioni incandescenti, ma che a un certo punto sono riuscite a prendere le distanze da quelle tempeste a cui essi stessi avevano partecipato o che addirittura avevano contribuito a mettere in campo. Jünger, ad esempio, lo dimostrò arrivando a scrivere un romanzo-metafora contro la degenerazione totalitaria di quel nazionalismo che lo aveva visto entusiasta da adolescente come Sulle scogliere di marmo, partecipando al fallito putsch contro Hitler e lavorando teoricamente, nel secondo dopoguerra, per un libertarismo spiritualista. Allo stesso modo di Camus, Koestler, Silone, Malraux e Orwell, che ribaltarono gli entusiasmi giovanili per il comunismo nel più coerente impegno intellettuale libertario e antitotalitario. «L’importante per me resta il Singolo», spiegherà proprio Jünger, già ultracentenario,  intervistato da Gnoli e Volpi ne I prossimi titani (Adelphi). E proprio in nome del Singolo e contro il dilagare di tutte le burocrazie autoritarie spersonalizzanti si espresse quasi tutta la sua produzione a partire dall’apologo anti-totalitario del 1939 sino alla sua teorizzazione della figura libertaria per antonomasia, l’anarca, nel romanzo Eumeswil del 1977.
Chiariamoci subito. Quello che caratterizza la sensibilità libertaria cui facciamo riferimento è innanzitutto il suo porsi ad di fuori e oltre qualsiasi logica di “militanza”, di inquadramento, di aggregazione (nel senso etimologico di formazione di un gregge).  La singola persona, per i libertari, è un valore in sé, la sua tensione esistenziale non può e non deve mai essere annullata o strumentalizzata da logiche superiori, siano esse la Ragion di Stato, la disciplina di partito, l’ortodossia ideologica. Si tratta semmai di ribaltare esistenzialmente tutte le logiche del potere, quelle logiche che connotano tutte le organizzazioni spersonalizzanti e che non possono essere superate rovesciando politicamente la forma assunta dagli assetti di potere vigenti ma impostando le proprie vite sul rifiuto di esercitare e subire ogni forma di dominio e di potere. Vale quanto annota Lucilio Santoni – uno dei più acuti intellettuali e poeti libertari italiani contemporanei – nel suo libro Cristiani e anarchici. Viaggio millenario nella Storia tradita verso un futuro possibile (pp. 140, euro 12,00, edizioni Infinito): “Noi che viviamo ai margini dei grandi giochi di potere abbiamo il dovere di tentare di capirci qualcosa, abbiamo il compito di non essere superficiali nella lettura dei fatti e degli accadimenti, soprattutto per evitare di essere usati come pedine”. Interessante nel libro il percorso di autori che mettono in luce questo orientamento libertario: ci sono, senz’altro, Proudhon e Malatesta, ma anche Tolstoj e Ivan Illich, Pasolini e Bonhoeffer, Camus e Shelley, Leo Ferré e Garcia Lorca e – a sorpresa – don Helder Camara, madre Teresa di Calcutta, monsignor Oscar Romero, don Lorenzo Milani, don Luigi Giussani e papa Francesco… Nel suo essere non ideologico e anti-ideologico l’orientamento libertario più autentico non ha dogmi o punti fissi e non può infatti non essere aperto anche al contributo dei cristiani, di chi – coerentemente, così come ha scritto il poeta Davide Rondoni – “ha patroni in cielo, non padroni in terra. La religiosità, infatti, nel momento stesso in cui riconosce un’autorità ne indica il limite e la radice altrove che nella propria affermazione”.  Precisa ulteriormente Rondoni: “Il desiderio, benzina d’ogni avventura di ricerca del senso, d’ogni avventura religiosa autentica, è anche la freccia che attraversa e supera ogni realizzazione presunta di ciò che presume di rispondergli e di soddisfarlo. La freccia che rompe gli idoli, ogni idolo del potere. Dentro e fuori ogni organismo che per vivere si organizza anche in forma di potere e di autorità”. E questa è un’ulteriore indicazione di una sensibilità libertaria post-ideologica, in quanto tale aperta e mai chiusa in una sistemazione intellettualistica. Non è un caso che, e non paradossalmente, lo stesso Vittorio Messori, lo scrittore cattolico intervistatore di due Papi, quando deve spiegare il suo orientamento politico-culturale a sorpresa ammette: “Sono un libertario, naturalmente senza utopie o illusioni. Mi trovo a mio agio in una open society, una società aperta come la chiamava Karl R. Popper, questa società sempre più meticcia e sempre più complessa. Amo la libertà annunciata dal Cristo e dal suo Vangelo da proporre e mai da imporre... Mi piace la vita come avventura, dive santi e mascalzoni si intersecano, dove si confrontano il bene e il male. Amo le metropoli, le giungle d’asfalto, ben più del controllo sociale del villaggio, amo il ribollire delle grandi città, dove la storia si costruisce attraverso la trama infinita dei liberi rapporti umani…”.
La postura esistenziale libertaria, insomma, non coincide con nessuna chiusura ideologica. Il libertarismo post-militante e post-ideologico fuoriesce, alla luce di quello che abbiamo detto, decisamente da qualsiasi identità culturale scontata e vecchia, sia essa di derivazione laicista o illuminista. Così come la nuova fenomenologia libertaria non si identifica affatto, come vorrebbe la pigrizia del linguaggio da luogo comune, con l’indifferentismo etico, con un facile permissivismo, con l’allontanamento da qualsiasi senso del limite umano ed estetico. Piuttosto, la vera postura libertaria mette in campo un atteggiamento esistenziale istintivamente refrattario a qualsiasi incasellamento, sfuggente a qualsiasi chiusura o censura, caratterizzato da un’opzione contraria a qualsiasi forma di autoritarismo, di razzismo, di militarismo, di burocraticismo, di discriminazione…
Nell’emersione storica di questa sensibilità libertaria post-ideologica ci sarebbe l’intuizione che stava al centro di un bestseller della cultura giovanile a cavallo tra gli anni Settanta e gli Ottanta e che, apparso negli Stati Uniti nel 1974 e proposto in Italia nel 1981, si impose improvvisamente col passaparola, senza nessuna sponsorizzazione mediatica: Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta di Robert M. Pirsig. Nel quale si legge: “Non voglio più entusiasmarmi per i grandi programmi di pianificazione sociale che coinvolgono le vaste masse e che trascurano la qualità individuale. E penso che sia venuto il momento di ricostituire questa risorsa… Abbiamo davvero bisogno di riacquistare l’integrità individuale, la fiducia in noi stessi e l’enthousiasmos…”.
D’altronde è un dato storico che negli anni Sessanta, alla vigilia di quella contestazione studentesca di Berkeley che anticipò il nostro Sessantotto, gli universitari statunitensi tenevano sul comodino due livre de chevet: Sulla rivoluzione di Hannah Arendt e L’uomo in rivolta di Albert Camus. In quel fermento studentesco anglosassone, lontano dal marxismo-leninismo e da vecchie matrici ideologiche e spinto soprattutto sul fronte dei diritti civili, della lotta contro la segregazione razziale e del libertarismo, Camus, l’autore di romanzi come Lo straniero e La peste, il premio Nobel nel 1957, veniva letto come uno scrittore “politico” tout court.




Una sensibilità questa che, comunque, scaturisce da una lunga tradizione, letteraria e non solo, che va da Walt Whitman a Henry David Thoreau e Ralph Waldo Emerson, da Jack Kerouac e Allen Ginsberg a Gary Snyder e Lawrence Ferlinghetti, da Louis-Ferdinand Céline a Henry Miller, da Leonard Cohen e Bob Dylan a Georges Brassens agli italiani Giorgio Gaber, Fabrizio De André e Francesco Guccini… Quello stesso Guccini che, definendosi libertario, ha sempre rifiutato la definizione di cantautore politico: “Le mie canzoni sono esistenziali – ha ammesso – e attraverso di esse ho cercato di raccontare il mio punto di vista sul mondo. Ricordo ancora la polemica del dopoguerra sugli intellettuali organici, quando Elio Vittorini dichiarò che non voleva fare il pifferaio della rivoluzione…”.
Ecco su questo punto, quello del rifiuto della logica dell’inquadramento e della militanza, tutti i libertari sono naturalmente concordi. “Nel maggio del ’68 – ha ricordato lo scrittore Jean-Pierre Chabrol – io rimproveravo a Georges Brassens ciò che chiamavo la sua passività, il suo distacco. Cantautori e intellettuali facevano comizi e barricate, si buttavano nella mischia. Lui restava a casa. Lui, che solo facendosi vedere, avrebbe potuto diventare il profeta o il guru dei sessantottini. Ma ciò che si proclamava alla Sorbona o nelle piazze in fondo era già da molto tempo nelle sue strofe”. E lo spiegherà bene lo stesso Brassens: “In realtà sono uno dei cantautori più impegnati. Solo che normalmente si intende per impegno l’adesione a un partito e si dà il caso che io non riconosco a nessun partito il diritto di avermi…”. E non sarà un caso che Simone Weil, la filosofa libertaria, arriverà alle estreme conseguenze e stilerà il Manifesto per la soppressione dei partiti politici, ipotizzando una democrazia senza il filtro di organizzazioni spersonalizzanti.  Così come Lucilio Santoni, da libertario e intellettuale impegnato, scrive testualmente: “Io non amo la piazza, le manifestazioni e le rivendicazioni..”. Un modo come un altro per dire che il libertario non abbocca più all’amo, nessuno gliela dà a bere, nessuna prospettiva di potere riesce a sedurlo o a ingannarlo, nessuno potrà mai aggregarlo in un progetto eterodiretto, neanche quelli di una piccola politica alienante in mano ad apprendisti stregoni cooptati, ambiziosi amministratori da condominio catapultati ai piani alti del potere o piccoli tribuni della plebe. Il libertario scende in campo, in quanto singola persona, solo quando sente che la libertà è minacciata.

L’esempio migliore resta, a nostro avviso, quello dell’impulso libertario di Camus, il quale non si è mai crogiolato nella santificazione di un comodo individualismo narcisista. «Visto che non viviamo più i tempi della rivoluzione – scrisse – impariamo a vivere il tempo della rivolta». Anche per questo Massimo Fini ha annotato: «Il Sartre che cercava di coniugare esistenzialismo e marxismo non ci finì mai di convincere. Albert Camus, che ebbe la fortuna di morire presto, invece lo amammo sempre. Tutto…». Lo confermava anche il filosofo Bernard-Henry Levy, ribadendo l’attualità del suo libertarismo rispetto all’impegno ideologico organico alla politica: “Storicamente Camus ha avuto ragione su Sartre. E non si dirà, non si ripeterà mai abbastanza, quanto lui ebbe ragione”.

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