venerdì 28 marzo 2014

Vittoria, un libro per "accarezzare le ferite dei padri"


Seconda presentazione del romanzo "Vittoria" a Roma. Nel giorno in cui Obama ha fatto blindare la Capitale, sono arrivate comunque più di sessanta persone, cui va un ringraziamento particolare. E c'era anche il mio editore Francesco Giubilei, il più giovane d'Italia. Un grazie particolare anche a lui. Siccome non c'è un video, racconto io quello che si è detto, perché merita una riflessione. Giuliano Compagno ha introdotto gli interventi, elogiando "Vittoria" per il racconto fatto con la "necessaria distanza" che fa restare il lettore "agganciato" al libro fino alla fine. Andrea Di Consoli ha a sua volta fatto un intervento molto bello e anche generoso verso "Vittoria". Di Consoli, autore del romanzo "La collera" sul fascista atipico Pasquale Benassia, ha detto che "Vittoria" è un libro doloroso, che con oggettività racconta rituali e situazioni di un'Italia di brava gente che non c'è più. Ha detto che nel romanzo c'è un crescendo: dalla placida tranquillità di una vita domestica persino un po' dolciastra al furore delle pagine finali. "Vittoria trova posto in una scacchiera a lei predestinata, accetta il suo destino, che è stato quello di accarezzare le ferite dei padri...". 

Silvia Giralucci ha detto che un romanzo come "Vittoria" era necessario perché il racconto da destra di quegli anni è utile a far cadere i pregiudizi: "Dall'esterno vi vedono ancora come gli stragisti, gli squadristi, non c'è comprensione". Poi ha parlato del suo film-documentario "Sfiorando il muro" dicendo che ha cercato con quello di esplorare il modo in cui la destra ricorda le vittime e ha sottolineato i limiti del rito del Presente: "Le vittime vengono viste come simboli e non come persone". In "Vittoria", ha detto infine, si vede che i ragazzi erano diversi dai reduci, perché erano rivolti al futuro e non al passato. 

Stefania Paternò ha detto che i fascisti non erano umiliati ma ridotti all'impotenza, che la lezione che ricava da quegli anni è quella della tolleranza. Ha parlato di quella guerra civile strisciante come "una farsa portata avanti sulla nostra pelle". "Per questo sono ancora molto arrabbiata - ha aggiunto - perché a un anno da Acca Larenzia si sapeva che ci sarebbe stato un altro morto e il partito non fece nulla per evitarlo. Io dico qui che quel morto fu forse addirittura cercato...". 

Ed ecco quello che ho detto io: "Vittoria" è un esperimento, partire dal quotidiano per arrivare a spiegare la tragedia. Un'idea che viene anche dalla lettura di alcune pagine del romanzo di Gian Luca Belardi sugli anni Settanta, pagine in cui racconta che sta comprando con la mamma un paio di scarpe da ginnastica in un negozio e sente gli spari di Acca Larenzia e tutti fuggono, non sanno neanche da che cosa. Dunque il mio libro questo vuole essere: il mostruoso che fa irruzione nel quotidiano. E poi vuole essere un saluto, un omaggio, un congedo da un mondo irripetibile (il voler essere "diversamente italiani" dei missini) e che non c'è più, ma senza ideologizzare, senza recriminare. Ci hanno sfruttato? E' andata così. Noi abbiamo fatto quello che si doveva fare. Poi ho ricordato il commento a "Vittoria" dell'ex repubblichino Franco Grazioli che, dopo averlo letto, mi ha detto: "Serviva un racconto morbido su quegli anni, tu sei riuscita a farlo". Ma che cos'è la morbidezza? Ho chiesto. E lui: "Significa che noi potevamo portare la guerra dentro anche dopo, ma per voi non era necessario". Stessa cosa che mi ha detto Antonio Pennacchi: "Avete proseguito la guerra per i vostri padri, non era giusto". Ma "Vittoria" non deve stabilire se era giusto o sbagliato. E' un libro che fa parlare le cose, che descrive e non giudica. Poi ho ripreso il discorso di Silvia sul Presente, una cosa che mi sta a cuore: inquadrare i ragazzini in quel rito è un modo per isolarli e metter loro dinanzi un nemico che sfugge, che non si può definire con certezza. E' il modo più opportuno di coltivare la memoria, una memoria orgogliosamente separata? Quei morti erano persone prima di essere Caduti. Persone che prima c'erano e poi non ci sono state più. Persone che meritavano di vivere. (a.t.)


lunedì 24 marzo 2014

Berlinguer oltre le celebrazioni retoriche: un'analisi sul rapporto tra Pci e movimenti




Di seguito uno stralcio del saggio di Luciano Lanna Enrico Berlinguer e la frattura del '77 che sarà pubblicato nel libro collettaneo in uscita ad aprile dal titolo Prospettiva Berlinguer. Il leader comunista a trent'anni dalla scomparsa (Safarà editore) curato da Ivan Buttignon (16 saggi di vari autori)

Luciano Lanna

Il Pci di Berlinguer dopo essere riuscito a mobilitare milioni di militanti e di persone per almeno un decennio, a metà degli anni Settanta percepisce sia il fatto che la strada della mobilitazione economico-sociale non è percorribile in quanto tale all’infinito sia che non è più possibile poter rappresentare sempre e comunque umori ed esigenze d’opposizione. Ma invece di puntare in via privilegiata a salvare e rinforzare il rapporto con i fermenti della società, magari dentro un diverso paradigma di partecipazione e impegno, il Pci mostrò di tendere ad assimilarsi al quadro politico-istituzionale di potere, lasciando così che gli “esclusi” si avventurassero in ricerche diverse di nuova rappresentanza o di nuove forme di mobilitazione.
È proprio nel 1977 che questa “frattura” diventa evidente in tutte le sue conseguenze. Da questo punto di vista, il ’77 simboleggia in qualche modo il mutamento di segno, “perché è a partire da quel momento che prende forma il fenomeno della secessione rispetto al modo come si era pensato e sistemato il dopoguerra”[1]. In un suo studio sul movimento del Settantasette, Carmine Fotia sostiene che proprio riguardo al Pci di Berlinguer, il ’77 è l’anno di svolta di un intero decennio: “Al culmine della sua forza, il Pci la gioca tutta dentro la dimensione politico-istituzionale, cercando di aprirsi un varco verso il governo attraverso la politica delle ‘astensioni’ e dell’intesa con la Dc. Non si comprende la frattura tra il Pci e il movimento giovanile se non si coglie la complessità di questo passaggio: il ’77 non è, allora, la questione del rapporto tra partito e movimento; o meglio, lo è ma come metafora di un’intera politica, di una strategia lungamente preparata (quella del compromesso storico) che s’invera in una linea (la politica dell’intesa con la Dc)”[2].
Si potrebbe allora sostenere che la strategia del compromesso storico e dell’unità nazionale condusse all’inizio di quell’anno al logoramento politico della prospettiva di sinistra rappresentata sino ad allora dal Pci. Più che altro, l’assillo principale di Botteghe Oscure era quello di far uscire la situazione politica dallo stallo dell’astensione concessa al governo guidato da Andreotti. Proprio Berlinguer, su Rinascita del 10 dicembre 1976, aveva infatti avvertito un “vuoto di linea politica della Dc” e in esso il rischio “che crescano umori, tendenze, manovre di destra, in qualche caso avventuristiche”. E dunque, sollecitava a “far avanzare il quadro politico, isolando tutti coloro che tentano di scatenare la controffensiva di destra”. Tuttavia, concludeva Berlinguer, non si poteva in alcun modo far cadere il governo e contribuire a determinare “un salto nel buio”.
Dal punto di vista strategico e di contenuti politici, la risposta del Pci venne riassunta attraverso un termine preciso, “austerità”, diventato poi lo slogan e il programma lanciato in un convegno organizzato dalla sezione culturale del Pci al teatro Eliseo di Roma, proprio del gennaio 1977.  Una linea politica ovviamente in contrasto totale con la domanda che saliva negli stessi giorni dalle nuove generazioni e dal movimento di contestazione studentesco e che, per il Pci berlingueriano, veniva intesa come un aspetto di rigore connesso al contemporaneo rinnovamento politico. Non si trattava cioè “solo di pagare tasse e di fare più sacrifici, ma anche, nel contempo, di lottare per una trasformazione dell’assetto di questa società”[3].



(...) Salari e liquidazioni vennero tagliati per 800 miliardi, l’aumento dell’Iva e dell’imposta di fabbricazione dei prodotti petroliferi fornirono i mille e quattrocento miliardi di lire necessari a fiscalizzare gli oneri delle imprese. E in qualche modo i comunisti si assunsero in prima persona il peso politico di queste misure. Il politologo Giorgio Galli, già il 19 ottobre del ’76, si interrogava sulla tenuta di una simile politica: “È  realistico questo disegno del quale si fa interprete Andreotti? A me pare di no, nonostante l’attuale acquiescenza della sinistra. I 14 milioni di italiani che vivono bene o discretamente non intendono ridurre il loro livello di vita e non vedo perché dovrebbero farlo i 27 milioni che vivono mediocremente e i 14 milioni di emarginati…”[6].
Mentre infatti il governo Andreotti governa sul tasto dell’austerità, cominciano a esprimersi le prime manifestazioni di insofferenza, soprattutto tra i giovani delle grandi città. Nascono i circoli del proletariato giovanile che praticano autoriduzioni nei cinema e nei teatri in nome del diritto alla vita, emergono gli indiani metropolitani che contestano la prima della Scala il 7 dicembre 1976. E sin dall’inizio il Pci di Berlinguer viene visto come un soggetto avversario, come il “nemico”. Non a caso giovedì 10 febbraio gli occupanti dell’università di Roma prendono di mira un giornalista dell’Unità, Duccio Trombadori, e gli riservano un vero e proprio “processo politico” pubblico. Definito un “provocatore”, viene a lungo fischiato dagli indiani metropolitani, poi condannato ed espulso in malo modo dall’università.
Giovedì 17 febbraio 1977, ultimo giorno di  Carnevale, fu comunque la giornata che fece esplodere tutte le contraddizioni. Fu infatti il giorno in cui nella contrapposizione frontale tra Pci (e sindacato) e movimentismo studentesco (ma non solo) si consumava la frattura irreparabile.



(...) Luciano Lama arriva all’ateneo scortato da un nutrito servizio d’ordine del Pci con il chiaro proposito di dimostrare l’egemonia della sinistra storica sulle nuove frange contestatrici. In mattinata un’altra parte del servizio d’ordine si era premunita cancellando le scritte ironiche contro il leader della Cgil (“I Lama stanno nel Tibet”, “Lama non l’ama nessuno”) e occupando il viale d’accesso al piazzale della Minerva. La situazione diventa immediatamente tesa, prima gli studenti scelgono di disturbare il comizio con sfottò e slogan ironici, poi tutto degenera. E scoppiano gli incidenti. Nella confusione generale Lama fu costretto a scendere dal palco e a scappare scortato dal servizio d’ordine.
Che non si trattasse soltanto di una goliardica rivolta generazionale, ma di qualcosa di più profondo lo attesta in una sua analisi postuma uno dei contestatori, un ex indiano metropolitano: “Nelle motivazioni profonde dell’ala creativa, la più significativa di quell’evento, si profilavano in realtà i nuovi orizzonti della società italiana che avevano le loro radici nella storia del paese. Non a caso l’accusa più contestata a quei giovani fu quella di imitare le componenti irrazional-vitaliste dell’avanguardia futurista. Quel movimento era rivolto innanzitutto contro le involuzioni della politica e soprattutto contro i detriti gruppuscolar-marxisti del ’68. E nessuna nuova nomenklatura ha mai potuto identificarsi con esso. Pacifisti, ambientalisti, femministe e radicali sono tutte esperienze che non hanno il tratto caratteristico del vero Settantasette: il miglior Nietzsche contro il peggior Marx”[8].
Non a caso, la prima reazione del Pci alle manifestazioni della nuova contestazione giovanile passò dalla condanna aperta all’incomprensione totale. 
(...) D’altro canto, la discussione nel Pci sulla natura del movimento fu più che altro di censura e disapprovazione. Ci sono accenni a una discussione su Rinascita e su La Città Futura, il settimanale della Fgci diretto da Ferdinando Adornato, ma generalmente passò la metafora del “diciannovismo” e del “sovversivismo piccolo borghese” delle masse giovanili nella quale era incubato il fascismo delle origini. La Fgci, disse il segretario nazionale Massimo D’Alema, doveva “stare nel movimento” ma per combatterne le componenti squadristiche, “come fosse possibile – rileva Fotia – starci, dopo che il servizio d’ordine del Pci aveva sgomberato le facoltà occupate, è tutto da capire”[9].



(...) A marzo, a Bologna, l’opposizione tra Movimento e Pci diventa simbolicamente ancora più evidente. L’11 marzo restava ucciso uno studente, Francesco Lo Russo, colpito da un  proiettile mentre era in fuga dall’università che veniva sgombrata dalle forze dell’ordine. Il Pci decide di far schierare il suo servizio d’ordine a piazza Maggiore per cercare di tenere sotto controllo la tensione e con l’obiettivo di dare alla città un messaggio inequivocabile: il movimento è composto da provocatori e fascisti. Il sindaco comunista Renato Zangheri, dopo un lungo colloquio con il questore, afferma: “Siete in guerra e non si può criticare chi è in guerra”[11]. All’alba della domenica 13 marzo circa 3mila poliziotti e carabinieri con l’ausilio dei mezzi blindati rimuovono le barricate e sgombrano l’università occupata. Il 16 marzo Piazza Maggiore è colma di manifestanti del Pci che ascoltano Zangheri e rifiutano l’ingresso in piazza del movimento. E a settembre, l’ultimo giorno del convegno del movimento contro la repressione, un grande corteo, un “serpentone”, attraverserà l’intero centro di Bologna proprio sfottendo il Pci e in sindaco comunista al grido di “Zangherì Zangherà zangheriamo la città”, dopo essere passato davanti alle carceri nelle quali erano reclusi, per i fatti di marzo, numerosi militanti del movimento bolognese.
D’altronde non c’era compatibilità possibile tra chi aveva scelto lo slogan dell’austerità e l’asse con la Dc e chi si proponeva all’insegna della rivolta ribellistica e antipartitica del “riprendiamoci la vita”.  È soprattutto sul piano dell’immaginario che avviene la dissociazione definitiva tra il Pci e l’area vasta giovanile di stampo libertario che, paradossalmente, in una inevitabile frammentazione disorganica si dividerà e si riaggregherà paradossalmente tra il riferimento al quotidiano Lotta Continua, le suggestioni creative degli indiani metropolitani, quelle dell’Autonomia operaia, la sintonia con le battaglie dei radicali di Pannella, alcune aperture dei socialisti di Craxi e Martelli ma anche, come annoterà Pasquale Serra, alcuni esperimenti minoritari, ma significativi, che si muovevano addirittura nel movimentismo giovanile a destra[12].
Incapace di interloquire, magari con altri mezzi e modalità nuove che non fossero quelli della politica istituzionale, con i nuovi fermenti della società, è come se il Pci si fosse convinto che l’apertura eccessiva ai bisogni sociali e alla protesta giovanile facesse correre troppi rischi rispetto alle responsabilità strategiche, tanto che il partito assume una posizione legalitaria e di élitismo liberale, posizione quest’ultima che opta sempre per “un sistema in cui al popolo è consentito votare, ma per il potere reale è convogliato lontano da esso verso una élite più liberale e illuminata”[13]. È la via del berlinguerismo che, puntando più alla responsabilità politico-istituzionale che alla sintonia con i movimenti, sacrifica e marginalizza una vasta parte del potenziale di rinnovamento presente nella società italiana, in particolare i bisogni delle giovani generazioni post-sessantottine. 



[1] P. Serra, Individualismo e populismo La destra nella crisi italiana dell’ultimo ventennio, cit., p. 29.
[2] C. Fotia, “Il Pci contro i giovani”, in AA.VV, Millenovecentosettantasette, Manifesto libri, Roma, 1997, p. 77.
[3] In C. Fotia, “Il Pci contro i giovani”, in AA.VV, Millenovecentosettantasette, cit., p. pp. 77-78.
[4] G. Amendola, Coerenza e severità. In “Politica ed economia”, n. 4, luglio-agosto 1976, pp. 3-12.
[5] M. Pirani, “E Amendola dice: sacrificatevi”, in “la Repubblica”, 28 settembre 1976.
[6] In G. Galli, Opinioni sul Pci, cit, p. 150.
[7] M. Grispigni, Il Settantasette, il Saggiatore, Milano, 1997, p. 29.
[8] M. Camiletti, Il canto acerbo del ’77, in “Diorama letterario”, n. 207, ottobre 1997.
[9] C. Fotia, “Il Pci contro i giovani”, in AA.VV, Millenovecentosettantasette, cit., p. 79.
[10] Cfr. G. Dell’Arti, “I giorni delle P38” in 1977-Dieci anni di Repubblica, p. 5.
[11] In M. Grispigni, Il Settantasette, cit., pp. 42-43.
[12] P. Serra, Individualismo e populismo La destra nella crisi italiana dell’ultimo ventennio, cit., pp. 36-38.
[13] M. Canovan, “Il populismo come l’ombra della democrazia”, in Europa Europe, n. 2, 1993, edizioni Dedalo, p. 50.

domenica 23 marzo 2014

E Alfatti Appetiti ci racconta Bukowski come l'erede di Hamsun e Céline


Luciano Lanna


Descritto e passato nell’immaginario letterario come nichilista e provocatore, ubriacone impenitente, donnaiolo senza scrupoli, accanito frequentatore di ippodromi e bar di second’ordine, poeta maledetto e misantropo, postino svogliato e factotum dei bassifondi, chi era davvero Charles Bukowski? A vent’anni dalla morte del poeta e narratore tedesco-californiano, arriva in libreria Tutti dicono che sono un bastardo. Vita di Charles Bukowski (Bietti, pp. 332, euro 1900) di Roberto Alfatti Appetiti, un saggio che si legge tutto d’un fiato come fosse un romanzo. L’autore (classe 1967) è un bukoswiano della prima ora, ne scrive dagli anni Novanta e ha il merito di aver fatto conoscere e rendere popolare Bukowski, come anche il suo maestro John Fante, al di là e fuori del mainstream degli americanisti e dei circoli letterari. Il libro di Alfatti Appetiti ne ricostruisce l’infanzia dolente, gli incontri e gli scontri, i fallimenti e i successi che ne hanno caratterizzato la biografia. Svelando compiutamente per la prima volta la personalità autentica e i veri riferimenti intellettuali e letterari dello scrittore americano.  
Dalla poesia alle birre, dalla religione al cinema, dalla politica alla guerra, dal teatro alla musica, dalle corse dei cavalli ai reading ubriachi, quello tratteggiato da Alfatti Appetiti è un ritratto a tutto tondo dell’uomo a cui si devono capolavori come Panino al prosciutto, Post Office, Storie di ordinaria follia, Taccuino di un vecchio sporcaccione, Pulp
Bukowski, lo abbiamo già scritto in altra occasione, moriva a 74 anni nel marzo del 1994, colpito da una leucemia aggravata da una polmonite, circondato dai fiori coltivati dalla sua seconda moglie, la dolcissima Linda Lee Beighale, e dai suoi tre gatti raccolti qua e là perché non morissero randagi… Come scrisse a caldo la sua amica e corrispondente italiana Fernanda Pivano, Bukowski non era però solo l'eccentrico e il personaggio irregolare spacciato da una certa vulgata mediatica: era soprattutto un grandissimo scrittore, un narratore nato, uno dei più grandi romanzieri americani del Novecento…
Grande e vorace lettore prima ancora di cominciare a scrivere, il vecchio Hank (così preferiva essere chiamato, considerando troppo tromboneschi e paludati i nomi di Charles ed Henry con i quali era stato battezzato), già da adolescente amava passare le sue giornate in biblioteca divorando narratori.. Ma, come racconta Alfatti Appetiti, quasi tutto lo annoiava, a cominciare da Shakespeare, da da Tolstoj, da Cechov… Peggio ancora con Mark Twain, Hawthorne, Faulkner, Thomas Wolfe… Fino a che arrivano le sue scoperte: Céline, Dostoevskji, Pirandello e… soprattutto Knut Hamsun, lo scrittore danese Premio Nobel nel 1920 che finì poi perseguitato e censurato per il suo atteggiamento di simpatia verso i tedeschi nella seconda guerra mondiale.  “Hamsun – confessò Bukowki – non ha mai esaurito le cose da dire perché Hamsun (evidentemente) non ha mai smesso di vivere. Hemingway ha smesso. Hamsun invece ha dovuto vivere la maggior parte delle cose che ha scritto, ha dovuto sentirne l’odore e prendere in mano il rasoio. Sapeva scrivere con un amore per matti. Troppi scrittori hanno invece messo da parte i matti…”.
Ma lo scrittore che lo influenzerà più tutti, e che lui considererà il suo vero maestro, sarà l’italo-americano John Fante. Quasi per caso lo scopre, imbattendosi in biblioteca nel suo romanzo Chiedi alla polvere: “Aprii una pagina aspettandomi il solito, e invece le parole, sì, le parole mi saltarono addosso, proprio così. Balzarono dalla pagina e mi trapanarono. Le parole erano semplici, concise, e si riferivano a qualcosa che stava succedendo in quel preciso momento! Ogni pagina aveva forza. Non riuscivo a crederci. Mi pareva come se le parole potessero saltare fuori dal libro e iniziare a camminare in giro, o spiccare il volo. Avevano una forza straordinaria…”.
Divorato quel libro - lo racconta molto bene Alfatti Appetiti -  Bukowski passa agli altri di Fante, a cominciare da Dago Red, e Aspetta primavera Bandini. E scopre che, come lui, anche John Fante era stato un devoto e a suo modo un discepolo di Knut Hamsun, di Nietzsche, di Dostoevskji, di Spengler… Bukowski vorrà anche contattare Fante, che nel frattempo era ammalato ed era stato dimenticato da decenni. E sarà Hank a far ripubblicare i romanzi dell’italo-americano e ad avviare quella “Fante renaissance” che sarà forte – soprattutto in Europa e in Italia – negli anni Ottanta e Novanta.

Di questo e molto altro apprendiamo dalla bella biografia di Alfatti Appetiti. E nel momento stesso in cui la riponiamo soddisfatti sul nostro scaffale di testi di e su Bukowski, auspichiamo di affiancarle tra non molto un analogo lavoro su John Fante. Perché è soprattutto questo, a nostro avviso, il notevole merito critico dell’autore: aver riproposto tutta una sensibilità letteraria e poetica attraverso la scoperta e la proposizione di autori – come Bukowski e Fante, ma non solo – che a loro volta hanno saputo ritradurre e attualizzare, oltre la traumatica e divisiva grande cesura della guerra civile del Novecento, la grande lezione di scrittura e poesia dei grandi del secolo scorso: Cèline, Hamsun, Cioran, Ezra Pound… 

Roma vista da Parigi: la grande decadenza





Annalisa Terranova

Sull'ultimo numero di Internazionale viene ripreso un articolo di Philippe Ridet da Le Monde che descrive in modo veritiero come la decadenza di Roma vada rintracciata negli errori gestionali che l'avvicendarsi di sindaci di diverse estrazioni politiche non ha saputo o voluto curare. Scrive Ridet: "Il debito di Roma è un pozzo senza fondo. Tenendo conto anche degli interessi, il debito è di circa venti miliardi di euro. Una cifra che spiega in parte questo fallimento: l'amministrazione cittadina impiega direttamente o attraverso l'intermediazione di società municipalizzate 56mila persone. L'Atac, l'azienda che gestisce il trasporto urbano, perde circa 1,6 miliardi di euro. L'azienda capitolina ha anche un altro record: nel suo organico ci sono più dirigenti che controllori. Costantemente sul filo della bancarotta, Roma ha da tempo rinunciato ad aver cura del suo patrimonio. L'azienda di scarpe Tod's restaura il Colosseo, la casa di moda Fendi restaura la fontana di Trevi. Sono ancora gli sponsor privati quelli che si occupano del restauro della piramide Cestia  e della fontana del Bernini a piazza di Spagna. I milioni di turisti che ogni anno visitano Roma pensano di vedere nelle facciate piene di crepe di alcuni palazzi un fascino supplementare, un segno di autenticità. In realtà, però, spesso si tratta di un segno di abbandono". Il sacco di Roma è stato sistematicamente portato avanti dalla politica. In modo trasversale. Dunque non sarà l'alternanza dei sindaci a salvare la Capitale, e neanche l'elezione diretta può bastare a garantire la selezione di un primo cittadino credibile. Si può immaginare allora che l'aula Giulio Cesare diventi una piccola assemblea costituente e che stili un decalogo etico e pratico cui gli eletti dovranno attenersi pena la decadenza e che stronchi sul nascere ogni focolaio di clientele magari abolendo del tutto gli inutili Municipi (che potrebbero tranquillamente svolgere le sole funzioni di uffici anagrafici decentrati)?

Il capitalismo favorisce solo chi nasce ricco



La società capitalistica attuale non favorisce l'ascesa sociale: la concentrazione dei patrimoni nelle mani di pochi fa somigliare l'economia dei paesi occidentali a quella dell'Ottocento. Il dinamismo del libero mercato non favorisce il merito ma l'accumulazione di patrimoni nelle mani di pochi individui. Quest'ultima legge del capitalismo è stata enunciata in un saggio che fa discutere da Thomas Piketty (Le Capital au XXI siècle). Così ne riferisce Mark Schieritz su Die Zeit: "Piketty ha raccolto per anni i dati economici di molti paesi e li ha studiati individuando uno schema stupefacente: i patrimoni si sono sempre moltiplicati a un ritmo molto più rapido del Pil. Secondo lo studio, le rendite delle azioni, dei crediti o degli immobili, oscillano in media tra il 4,5 e il 5 per cento all'anno, mentre nel lungo periodo la crescita del Pil si aggira tra l'1 e l'1,5 per cento. Il reddito da lavoro non può tenere il passo di quello prodotto da patrimoni già accumulati. Inoltre, dal momento che i patrimoni sono ereditati dai figli dei proprietari, la disuguaglianza esistente si riproduce per generazioni, vanificando la promessa liberale per cui il libero mercato garantirebbe benessere a tutti. In un mondo in cui le dinastie familiari controllano buona parte delle risorse economiche, la nascita determina la condizione sociale". E la diffusione del sapere, al contrario di quanto si ritiene comunemente, non favorisce la parità sociale. Piketty propone, per porre rimedio a tutto ciò, un'imposta patrimoniale internazionale. (a.t.)

domenica 16 marzo 2014

Signore e signore, la baby prostituzione fa schifo. Cerchiamo di dirlo invece di parlare della nipote del Duce...





Annalisa Terranova

Leggo da "Repubblica" l'sms di un cliente delle baby prostitute dei Parioli: "Domani devo portare mia figlia a una festa, ma tu dì alla tua amica se ha voglia di vedermi". L'ho trovato assai raccapricciante. Questo padre che fa per un pezzo di giornata il padre e poi fa il maschio arrapato con una che potrebbe essere sua figlia (perché le ragazzine li sceglievano "vecchi" i clienti...). Dice: che vuoi, la pena di morte? No, certo che no. Pretendo però la riprovazione sociale su questi depravati. Non ho alcun moto di compassione, lo confesso, per il dramma di Alessandra Mussolini (anche se questo non vuol dire che comprendo gli insulti a lei indirizzati). Il dramma rimane per me circoscritto alla prostituzione minorile e non lambisce le mura domestiche della famiglia Floriani-Mussolini. Lei ha scoperto che il suo partner aveva una doppia vita. Succede a tante donne. Se la caverà. Lui, forse perché stanco di essere il signor Mussolini, ha preso la scorciatoia più degradante. Magari riuscirà a trovare ancora un equilibrio nella sua persona decentrata. Dice: allora vuoi la gogna? Ma che vuol dire la gogna? Che cos'è il suo opposto più tollerante? La comprensione, il silenzio, la censura? Se un uomo perde la sua rispettabilità la perde, e basta. E qual è l'alternativa? Considerare le quindicenni delle sex workers (tesi aberrante, anche se applicata alle maggiorenni, secondo me)? Evitare ogni moralismo, anche quel senso di schifo che il normale buon senso fa affiorare? Mi spiace ma questo dibattito non lo capisco. E neanche lo voglio seguire.  E non vorrei che in questa fiumana di solidarietà all'incolpevole Alessandra Mussolini si celasse un desiderio di rimozione. E del resto si è già fatto finta che le escort delle cene eleganti non fossero escort, e si è scambiato il traffico di ragazze nella residenza di un ex premier per vita privata da non scandagliare, e si è strombazzato che Ruby era un'aspirante estetista e che sembrava a tutti maggiorenne e ci sono state paginate sui giornali di destra per magnificare la libera prostituzione e persino per dire che la Minetti era certo donna più degna delle mogli che si fanno mantenere dai mariti (prostitute mancate, anche loro), come se il sommo bene del genere femminile risiedesse proprio là, in quel fattore fisiologico. Nel fattore F. E quanti si aggrappano a questa mentalità, pensando di averla desunta da bravi uomini colti, magari per aver letto "Metafisica del sesso" di Evola, e invece forse sono ancora fermi, bloccati al "viva la fica" di quando erano adolescenti. Lasciamo da parte tutto questo chiacchiericcio. Alla fine trovo che sia normale e giusto che anche un ambiente che si teneva la pancia dal ridere per Marrazzo e i suoi trans, che puntava l'indice contro Lerner per le immagini pedopornografiche sul Tg, che rimane scandalizzato dalle parolacce della Littizzetto e che insomma è ancora molto simile al protagonista bigotto del film "Scusi, lei è favorevole o contrario?" debba guardare con naturale sdegno all'sms di quel cliente, debba evitare ogni forma di tacita comprensione per questi ricconi che trasudano sporcizia. 

martedì 4 marzo 2014

Bukowski vent'anni dopo: il "maledetto" americano che fece fortuna in Italia



Luciano Lanna

«Quante sgridate mi sono presa per il mio caro, dolcissimo Hank tanti anni fa…» scriveva a suo tempo la compianta americanista Fernanda Pivano rievocando la sua passione – del tutto incompresa in Italia – per Charles “Hank” Bukowski, lo scrittore scomparso vent’anni fa, il 9 marzo del 1994. E questo – sottolineava – avveniva ancora nel 1978, quindici anni dopo che il Berkeley Barb e altri giornali dell’underground intellettuale Usa le avevano mandato ritagli con le pagine bukowskiane che sembravano troppo farneticanti per essere vere, in un ritratto della gioventù che però stava esplodendo… Quelle pagine farneticanti le aveva raccolte Lawrence Ferlinghetti nella sua libreria City Lights e le aveva spedite alla Pivano come se fossero l’argomento più naturale e importante di quegli anni. E forse, in quel 1972, lo erano: «Individualistiche e dissacratrici e anarcoidi, disimpegnate in qualsiasi direzione, intrise di disgusto per la realtà del mondo….».


D’altronde, quando in Italia la Feltrinelli aveva pubblicato la prima traduzione di un romanzo di Bukowski, se ne erano accorti davvero in pochi. E quei pochi lo avevano forse confuso con un altro scrittore, quasi omonimo: il dissidente russo Vladimir Bukovski. L’identità fonetica e la quasi identità grafica – una sola “w” di differenza – avevano creato un equivoco e una confusione che forse, nonostante tutto, sottendevano pure qualche affinità. Anche Henry Charles Bukowski junior – nato Heinrich Karl Bukowski, da padre tedesco – era in fondo un dissidente. Viveva negli Stati Uniti, ma nessuno come lui è stato impietoso con il sogno americano e con tutti i suoi luoghi comuni. Naturale che risultasse indigeribile a un certo benpensantismo intellettuale.
Come dimostra un episodio riferito dall’americanista Beniamino Placido. «Ho incontrato sul treno Goffredo Fofi e mi sono preso una bella lavata di testa», confessava. «Bella roba, tu con il tuo Bukowski”, gli fa infatti Fofi. «Perché, non va bene?» replica Placido, preoccupato di quello che potessero pensare di lui i lettori delle riviste di Fofi… «Lo sai come lo leggono i ragazzi? Come la legittimazione letteraria di ogni disgregazione, di ogni dissociazione, di ogni disgusto esistenziale”, lo rimprovera il critico…
Che si trattasse di Solgenitsin o di Bukowski, d’altronde, i dissidenti e i “maledetti” non godevano del favore del mainstream negli anni Settanta. «Il Bukowski di Los Angeles – spiegava proprio Placido – è un cronista, disgustato e critico, della vita quotidiana. Come tutti i grandi dissidenti russi. Non a caso il primo libro che abbiamo conosciuto e apprezzato di Solgenitsin si intitolava Una giornata di Ivan Denisovic. E che giornata. Che vita. Che grigiore. Che quallore…». Lo stesso squallore, aggiungeva Placido, «delle Los Angeles, delle Chicago, delle New York che Charles Bukowski conosce e ci fa conoscere…». Ancora nel diario dei suoi ultimi due anni di vita, Bukowski non riuscirà a trattenersi dall’esprimere tutto il suo disprezzo per lo squallore della quotidianità di un’esistenza condotta sull’onda del consumismo e dell’utilitarismo: «La cosa terribile non è la morte, ma le vite che la gente vive o non vive fino alla morte. Non fanno onore alla propria vita, la pisciano via… Dopo un po’ dimenticano anche come si fa a pensare, lasciano che sia gli altri a pensare per loro. Hanno il cervello imbottito di ovatta. Sono brutti, parlano male, camminano male…».
Fortunatamente, in quegli anni Settanta in Italia Bukowski era stato scoperto e promosso da un editor non conformista come Gigi Buffarini Guidi – suo nonno fu il ministro di Mussolini finito ucciso nei tragici giorni del ’45 – che lo propose al suo editore, il socialista libertario Massimo Pini, per le edizioni SugarCo. E nelle  librerie italiane comparvero quindi capolavori come il romanzo Factotum e i racconti A Sud di nessun Nord. E poi l’operazione procede fino al 1980 e 1981, quando la SugarCo dà ancora retta a Buffarini Guidi e fece uscire Donne e Post Office, e Compagno di sbronze, e Storie di una vita sepolta



Per restare in Italia, ma negli anni Duemila, un bukowskiano dichiarato, il narratore Gino Armuzzi, classe 1960, ha dedicato un esilarante romanzo di formazione, Sognavo di essere Bukowski (Sperling & Kupfer) proprio allo scrittore statunitense. Nel libro di Armuzzi – uscito nel 2004, dieci anni fa – si raccontava però la Milano degli anni Ottanta vissuta da un personaggio d’eccezione, il Guzzi, sempre un bocconiano doc che in seguito a una sorta di crisi ideologico-esistenziale passa dallo status di figlio di papà a studente fuori corso, da studente fuori corso a irregolare esistenziale, e poi più giù ancora, fino a vero border line, il tutto tra colonne sonore di prima e anche di seconda scelta, derive esistenziali, feste a imbuco e concerti. Erano i postideologici anni Ottanta e tra Sex Pistols e Duran Duran, Rambo e Conan, punk e paninari, ermerge il protagonista di una storia che voleva «vivere come Miller, morire come Mishima e sognava di essere Bukowski…». Un giorno c’è la scoperta di Bukowski e da allora cambia tutto: «Cominciai ad alternare la giacca e cravatta ad abiti più informali. Alle Timberland e alle Church sostituii prima le più alternative Clark, poi le truvide Doc Martens...». E agli amici che lo sfottevano – «che ti succede, Guzzi, non è che diventi comunista?» – lui rispondeva rassicurando: «Chi, io? Ma sei scemo? Piuttosto milanista che comunista». E poi tornava in libreria a cercare i libri di Bukowski e degli altri maledetti. E l’elenco è davvero significativo della trasformazione della sensibilità culturale che irruppe proprio negli anni Ottanta: «C’erano gli alcolizzati come Kerouac, gli alcolizzati come Bukowski, i suicidi come Hemingway... gli oppiomani come Quincey e Baudelaire, i fascisti come Evola e Céline, i nazisti e suicidi come Mishima, quelli come la Rochelle... i pazzi come Nietzsche…». 


Se la fama di Bukowski a metà dei Settanta sarà soprattutto europea, negli States raggiungerà la meritata popolarità soltanto molto tempo dopo e soprattutto grazie alla traduzione cinematografica delle sue opere. E buona parte del merito sarà ancora di un italiano, Luciano Vincenzoni, famoso sceneggiatore – autore di Giù la testa, Il buono il brutto e il cattivo per Sergio Leone, La grande guerra per Monicelli, Il Conte Tacchia per Sergio Corbucci – oltre che appassionato bukowskiano (sulla scorta della sua antica passione per i libri di Céline). È stato lo stesso Vincenzoni a rivendicare, nel suo Pane e cinema (Gremese Editore), il fatto di essere stato il primo a parlare dello scrittore negli ambienti hollywoodiani e a far scoppiare nella mecca del cinema una vera e propria bukowskimania: «Fu una scoperta, nessuno di loro conosceva questo autore underground…».
Un rapporto, quello di Hollywood per Bukowski, che d’altronde non era ricambiato: «Al cinema ci vado poco, il mio tempo lo so ammazzare per conto mio e non ho bisogno di aiuto». E ancora: «Il cinema fa schifo, non riusciranno mai a fare Céline…». Eppure il successo di Bukowski sarà suggellato nel 1981 proprio sul grande schermo. Il film è Storie di ordinaria follia (dal nome della celeberrima raccolta di racconti) ed è stato diretto da un altro italiano, il regista Marco Ferreri. Accanto a una splendida Ornella Muti, c’era Ben Gazzarra a interpretare Chinaski-Bukowski. Ma la grande popolarità negli Stati Uniti arriva, però, solo nel 1987 con il film Barfly, adattamento cinematografico di un racconto dei suoi «dieci anni da ubriaco». Bukowski, comunque, non fece mai nulla per farsi apprezzare dagli americani. I suoi conclamati maestri erano autori europei come Céline, Dostoevskji, Hamsun…. O come John Fante, americano sì ma di origine italiana. Lui, che lo venerava, lo definiva «il nostro mentore, il nostro Dio…”.



Una volta, prima di lasciare questa vita nel 1994 a 74 anni, intervistato da Fernanda Pivano, Hank si lasciò andare a un esplicito canto d’amore per il Vecchio Continente: «Credo che l’Europa sia di un paio di secoli in anticipo sugli Stati Uniti. Credo che la gente sia più percettiva, sappia di più, credo che la cultura sia stata lì più a lungo. Gli europei afferrano la realtà più in fretta degli americani…».