domenica 30 agosto 2015

Al "libertarismo" preferisco il grido del "libertario"



Mio articolo apparso oggi sulle pagine culturali del quotidiano "il Garantista"

Luciano Lanna

Dovendo scrivere di un –ismo ma collocandomi personalmente all’opposto di qualsiasi ideologia (e quindi di qualsiasi –ismo) proverei a evocare l’orientamento che secondo me corrisponde alla fuoriuscita da qualsiasi interpretazione ideologica e che potremmo farlo coincidere, necessariamente, con quello “libertario”. Preferisco ovviamente l’aggettivo in questione al sostantivo “libertarismo” che di per sé potrebbe condurre a fare, magari inconsapevolmente, un’ideologia anche della stessa opzione anti-ideologica. Non a caso, storicamente si è parlato di libertarismo, nell’Ottocento, per l’anarchismo di Stirner, Bakunin e Kropotkin, in cui a prevalere era una precisa e definita ideologia (“né Dio né Stato né servi né padroni”) e la cui traduzione coincideva o nell’organizzazione (di per sé una contraddizione in termini) di gruppi, gruppuscoli e progetti di cospirazione o nel gesto violento dettato dall’esasperazione e dalla follia. E, più avanti, nel Novecento, si è parlato sempre di libertarismo (“libertarianism”), ma in termini astratti ed esclusivi di filosofia politica e di costruzioni intellettuali, per alcune scuole di pensiero statunitensi orientate verso l’antistatalismo e l’assunzione del mercato come  criterio fondativo (e assoluto) delle relazioni umane. Ma vale su questo quanto affermato da Daniel Cohn-Bendit: “Il mio essere libertario definisce la mia scelta a favore della libertà ma, sia chiaro, non quella delle multinazionali, per le quali continuo a chiedere controlli e regole”. Sia ben chiaro: è indiscutibile che presupposti, pulsioni, aspirazioni sia dell’anarchismo ottocentesco che del libertarianism americano siano a tutti gli effetti di matrice libertaria e che molto di quanto da loro prodotto sia utile per l’elaborazione di un background di riferimento per il libertarismo postmoderno.
Ma è comunque ovvio che l’orientamento libertario che stiamo cercando di delineare (e che propone un nuovo e diverso libertarismo, adeguato al ventunesimo secolo) fuoriesce completamente da qualsiasi prospettiva sistematica e ideologica e si pone in termini esistenziali più che politologici. Si tratta più di una postura esistenziale che di una sistemazione teorica. Da un punto di vista culturale, ad esempio, esso infatti è anzitutto il portato di un attraversamento del Novecento in direzione della libertà così come testimoniato da figure come Albert  Camus, Charles Péguy e Simone Weil, Bruce Chatwin e Hannah Arendt. E alle quali si possono senz’altro accostare anche autori come Ernst Jünger, Arthur Koestler, Ignazio Silone, Bertrand Russell, André Malraux, George Orwell... Personalità del secolo scorso che si sono contraddistinte per il fatto di aver “attraversato” integralmente e criticamente il Novecento, essersi pure in molti casi inizialmente abbeverati alle sue passioni incandescenti, ma che a un certo punto sono riuscite a prendere le distanze da quelle tempeste a cui essi stessi avevano partecipato o che addirittura avevano contribuito a mettere in campo. Jünger, ad esempio, lo dimostrò arrivando a scrivere un romanzo-metafora contro la degenerazione totalitaria di quel nazionalismo che lo aveva visto entusiasta da adolescente come Sulle scogliere di marmo, partecipando al fallito putsch contro Hitler e lavorando teoricamente, nel secondo dopoguerra, per un libertarismo spiritualista. Allo stesso modo di Camus, Koestler, Silone, Malraux e Orwell, che ribaltarono gli entusiasmi giovanili per il comunismo nel più coerente impegno intellettuale libertario e antitotalitario. «L’importante per me resta il Singolo», spiegherà proprio Jünger, già ultracentenario,  intervistato da Gnoli e Volpi ne I prossimi titani (Adelphi). E proprio in nome del Singolo e contro il dilagare di tutte le burocrazie autoritarie spersonalizzanti si espresse quasi tutta la sua produzione a partire dall’apologo anti-totalitario del 1939 sino alla sua teorizzazione della figura libertaria per antonomasia, l’anarca, nel romanzo Eumeswil del 1977.
Chiariamoci subito. Quello che caratterizza la sensibilità libertaria cui facciamo riferimento è innanzitutto il suo porsi ad di fuori e oltre qualsiasi logica di “militanza”, di inquadramento, di aggregazione (nel senso etimologico di formazione di un gregge).  La singola persona, per i libertari, è un valore in sé, la sua tensione esistenziale non può e non deve mai essere annullata o strumentalizzata da logiche superiori, siano esse la Ragion di Stato, la disciplina di partito, l’ortodossia ideologica. Si tratta semmai di ribaltare esistenzialmente tutte le logiche del potere, quelle logiche che connotano tutte le organizzazioni spersonalizzanti e che non possono essere superate rovesciando politicamente la forma assunta dagli assetti di potere vigenti ma impostando le proprie vite sul rifiuto di esercitare e subire ogni forma di dominio e di potere. Vale quanto annota Lucilio Santoni – uno dei più acuti intellettuali e poeti libertari italiani contemporanei – nel suo libro Cristiani e anarchici. Viaggio millenario nella Storia tradita verso un futuro possibile (pp. 140, euro 12,00, edizioni Infinito): “Noi che viviamo ai margini dei grandi giochi di potere abbiamo il dovere di tentare di capirci qualcosa, abbiamo il compito di non essere superficiali nella lettura dei fatti e degli accadimenti, soprattutto per evitare di essere usati come pedine”. Interessante nel libro il percorso di autori che mettono in luce questo orientamento libertario: ci sono, senz’altro, Proudhon e Malatesta, ma anche Tolstoj e Ivan Illich, Pasolini e Bonhoeffer, Camus e Shelley, Leo Ferré e Garcia Lorca e – a sorpresa – don Helder Camara, madre Teresa di Calcutta, monsignor Oscar Romero, don Lorenzo Milani, don Luigi Giussani e papa Francesco… Nel suo essere non ideologico e anti-ideologico l’orientamento libertario più autentico non ha dogmi o punti fissi e non può infatti non essere aperto anche al contributo dei cristiani, di chi – coerentemente, così come ha scritto il poeta Davide Rondoni – “ha patroni in cielo, non padroni in terra. La religiosità, infatti, nel momento stesso in cui riconosce un’autorità ne indica il limite e la radice altrove che nella propria affermazione”.  Precisa ulteriormente Rondoni: “Il desiderio, benzina d’ogni avventura di ricerca del senso, d’ogni avventura religiosa autentica, è anche la freccia che attraversa e supera ogni realizzazione presunta di ciò che presume di rispondergli e di soddisfarlo. La freccia che rompe gli idoli, ogni idolo del potere. Dentro e fuori ogni organismo che per vivere si organizza anche in forma di potere e di autorità”. E questa è un’ulteriore indicazione di una sensibilità libertaria post-ideologica, in quanto tale aperta e mai chiusa in una sistemazione intellettualistica. Non è un caso che, e non paradossalmente, lo stesso Vittorio Messori, lo scrittore cattolico intervistatore di due Papi, quando deve spiegare il suo orientamento politico-culturale a sorpresa ammette: “Sono un libertario, naturalmente senza utopie o illusioni. Mi trovo a mio agio in una open society, una società aperta come la chiamava Karl R. Popper, questa società sempre più meticcia e sempre più complessa. Amo la libertà annunciata dal Cristo e dal suo Vangelo da proporre e mai da imporre... Mi piace la vita come avventura, dive santi e mascalzoni si intersecano, dove si confrontano il bene e il male. Amo le metropoli, le giungle d’asfalto, ben più del controllo sociale del villaggio, amo il ribollire delle grandi città, dove la storia si costruisce attraverso la trama infinita dei liberi rapporti umani…”.
La postura esistenziale libertaria, insomma, non coincide con nessuna chiusura ideologica. Il libertarismo post-militante e post-ideologico fuoriesce, alla luce di quello che abbiamo detto, decisamente da qualsiasi identità culturale scontata e vecchia, sia essa di derivazione laicista o illuminista. Così come la nuova fenomenologia libertaria non si identifica affatto, come vorrebbe la pigrizia del linguaggio da luogo comune, con l’indifferentismo etico, con un facile permissivismo, con l’allontanamento da qualsiasi senso del limite umano ed estetico. Piuttosto, la vera postura libertaria mette in campo un atteggiamento esistenziale istintivamente refrattario a qualsiasi incasellamento, sfuggente a qualsiasi chiusura o censura, caratterizzato da un’opzione contraria a qualsiasi forma di autoritarismo, di razzismo, di militarismo, di burocraticismo, di discriminazione…
Nell’emersione storica di questa sensibilità libertaria post-ideologica ci sarebbe l’intuizione che stava al centro di un bestseller della cultura giovanile a cavallo tra gli anni Settanta e gli Ottanta e che, apparso negli Stati Uniti nel 1974 e proposto in Italia nel 1981, si impose improvvisamente col passaparola, senza nessuna sponsorizzazione mediatica: Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta di Robert M. Pirsig. Nel quale si legge: “Non voglio più entusiasmarmi per i grandi programmi di pianificazione sociale che coinvolgono le vaste masse e che trascurano la qualità individuale. E penso che sia venuto il momento di ricostituire questa risorsa… Abbiamo davvero bisogno di riacquistare l’integrità individuale, la fiducia in noi stessi e l’enthousiasmos…”.
D’altronde è un dato storico che negli anni Sessanta, alla vigilia di quella contestazione studentesca di Berkeley che anticipò il nostro Sessantotto, gli universitari statunitensi tenevano sul comodino due livre de chevet: Sulla rivoluzione di Hannah Arendt e L’uomo in rivolta di Albert Camus. In quel fermento studentesco anglosassone, lontano dal marxismo-leninismo e da vecchie matrici ideologiche e spinto soprattutto sul fronte dei diritti civili, della lotta contro la segregazione razziale e del libertarismo, Camus, l’autore di romanzi come Lo straniero e La peste, il premio Nobel nel 1957, veniva letto come uno scrittore “politico” tout court.




Una sensibilità questa che, comunque, scaturisce da una lunga tradizione, letteraria e non solo, che va da Walt Whitman a Henry David Thoreau e Ralph Waldo Emerson, da Jack Kerouac e Allen Ginsberg a Gary Snyder e Lawrence Ferlinghetti, da Louis-Ferdinand Céline a Henry Miller, da Leonard Cohen e Bob Dylan a Georges Brassens agli italiani Giorgio Gaber, Fabrizio De André e Francesco Guccini… Quello stesso Guccini che, definendosi libertario, ha sempre rifiutato la definizione di cantautore politico: “Le mie canzoni sono esistenziali – ha ammesso – e attraverso di esse ho cercato di raccontare il mio punto di vista sul mondo. Ricordo ancora la polemica del dopoguerra sugli intellettuali organici, quando Elio Vittorini dichiarò che non voleva fare il pifferaio della rivoluzione…”.
Ecco su questo punto, quello del rifiuto della logica dell’inquadramento e della militanza, tutti i libertari sono naturalmente concordi. “Nel maggio del ’68 – ha ricordato lo scrittore Jean-Pierre Chabrol – io rimproveravo a Georges Brassens ciò che chiamavo la sua passività, il suo distacco. Cantautori e intellettuali facevano comizi e barricate, si buttavano nella mischia. Lui restava a casa. Lui, che solo facendosi vedere, avrebbe potuto diventare il profeta o il guru dei sessantottini. Ma ciò che si proclamava alla Sorbona o nelle piazze in fondo era già da molto tempo nelle sue strofe”. E lo spiegherà bene lo stesso Brassens: “In realtà sono uno dei cantautori più impegnati. Solo che normalmente si intende per impegno l’adesione a un partito e si dà il caso che io non riconosco a nessun partito il diritto di avermi…”. E non sarà un caso che Simone Weil, la filosofa libertaria, arriverà alle estreme conseguenze e stilerà il Manifesto per la soppressione dei partiti politici, ipotizzando una democrazia senza il filtro di organizzazioni spersonalizzanti.  Così come Lucilio Santoni, da libertario e intellettuale impegnato, scrive testualmente: “Io non amo la piazza, le manifestazioni e le rivendicazioni..”. Un modo come un altro per dire che il libertario non abbocca più all’amo, nessuno gliela dà a bere, nessuna prospettiva di potere riesce a sedurlo o a ingannarlo, nessuno potrà mai aggregarlo in un progetto eterodiretto, neanche quelli di una piccola politica alienante in mano ad apprendisti stregoni cooptati, ambiziosi amministratori da condominio catapultati ai piani alti del potere o piccoli tribuni della plebe. Il libertario scende in campo, in quanto singola persona, solo quando sente che la libertà è minacciata.

L’esempio migliore resta, a nostro avviso, quello dell’impulso libertario di Camus, il quale non si è mai crogiolato nella santificazione di un comodo individualismo narcisista. «Visto che non viviamo più i tempi della rivoluzione – scrisse – impariamo a vivere il tempo della rivolta». Anche per questo Massimo Fini ha annotato: «Il Sartre che cercava di coniugare esistenzialismo e marxismo non ci finì mai di convincere. Albert Camus, che ebbe la fortuna di morire presto, invece lo amammo sempre. Tutto…». Lo confermava anche il filosofo Bernard-Henry Levy, ribadendo l’attualità del suo libertarismo rispetto all’impegno ideologico organico alla politica: “Storicamente Camus ha avuto ragione su Sartre. E non si dirà, non si ripeterà mai abbastanza, quanto lui ebbe ragione”.

giovedì 20 agosto 2015

Il desiderio di essere inutile: geniale Hugo Pratt



Articolo pubblicato sul quotidiano "il Garantista" giovedì 20 agosto 2015

Luciano Lanna

Pochi autori del Novecento italiano hanno avuto più tributi e omaggi postumi di Hugo Pratt, ormai non considerato solo come un fumettista ma come un artista di levatura internazionale, uno scrittore di particolare qualità, un intellettuale coraggioso e irregolare. A vent’anni dalla sua morte – il 20 agosto del 1995 a Grandvaux, in Svizzera, dove si era ritirato da qualche anno – la sua opera, grafica ma anche scritta, così come il personaggio più famoso scaturito dalla sua fantasia, il marinaio Corto Maltese, godono di una presenza nell’immaginario universale davvero senza precedenti. Solo a contare i siti, le pagine Facebook, i fan club, le mostre, le citazioni, i poster, i capi d’abbigliamento, i gadget basati sui suoi disegni si resta a bocca aperta.
Pratt non è stato infatti solo uno dei più famosi rappresentanti del fumetto internazionale ma è stato un intellettuale a tutto tondo, è riuscito a essere attivo nelle più disparate aree dell’immagine con illustrazioni, raccolte di disegni, acquerelli, port-folio, serigrafie, manifesti, opere pubblicitarie e altro ancora. Così come è stato romanziere e saggista, autore di teatro, musicista e autore di testi musicali, persino attore in quattro film… Non solo esistono in tutto il mondo centinaia di opere a lui dedicate ma negli anni si sono susseguite generazioni di autori, appassionati di fumetto o semplici fan che hanno voluto tributare a Pratt o a Corto Maltese un omaggio, sia quando Pratt era ancora in vita sia dopo la sua morte. Tra questi Le avventure di Giuseppe Bergman, scritte e disegnate da Milo Manara , grande amico e, per sua stessa affermazione, allievo di Prat. Qui, il protagonista Giuseppe Bergman viene istruito all’avventura da un creatore di avventure di nome HP, uguale in tutto e per tutto al Maestro veneziano. E non sono mancati gli omaggi di scrittori e giornalisti come Dino Battaglia e Andrea Pazienza, Vittorio Giardino e Vincenzo Mollica, Umberto Eco e Christian Kracht. Il grande Frank Miller gli dedicò una storia di Sin City dal titolo Notte silenziosa, e anni prima aveva chiamato Corto Maltese un’isola nella miniserie, citazione che è stata ripresa anche nel film Batman del 1989 di Tim Burton. Hugo Pratt in quanto tale è poi il protagonista del libro Un romanzo d’avventura del suo amico narratore Alberto Ongaro. Infine, nel 2014 la casa editrice Sellerio ha mandato in libreria Il Corvo di pietra, un romanzo direttamente ispirato alla sua opera e che racconta la giovinezza del marinaio Corto Maltese. L’autore conobbe Pratt alla fine degli anni ’80 in una maniera molto particolare: era il suo nuovo dentista e parlando di lui di viaggi, di letteratura, di cinema e avventure divenne suo grande amico al punto che il grande Hugo inventò per lui lo pseudonimo di Marco Steiner.  “Avevamo letto – ricorda l’autore del Corvo di pietra – gli stessi libri: da Kenneth Roberts, Stevenson a Jack London, da Conrad, Melville fino a Bruce Chatwin…”.
Perché, infatti, se c’è una cosa da cui partire è che Pratt era un uomo di una cultura sterminata. Con i suoi fumetti era pervenuto, togliendo linee alla vignetta, a un’evoluzione grafica senza precedenti e spinta verso l’essenzialità dei segni. Ma si trattava del frutto di un serio e duro lavoro partito da molto lontano, un percorso difficile e complesso, perché “disegnare in quel modo”, diceva, “è difficile e costa fatica”. Lui era sì veloce nel disegnare, “ma ciò non significa nulla – precisava – perché quando io creo una storia il disegno non è tutto da solo non basta. A me per documentarmi su ciò che vado a raccontare mi occorre molto tempo: devo leggere molti libri, effettuare ricerche, spesso andare sui posti di persona”. Pratt era infatti un lettore instancabile, come racconta Antonio Carboni nel libro-catalogo – una vera e propria enciclopedia prattiana – Hugo Pratt. Tuttifumetti (dalla straordinaria collezione di Fabio Baudino): “Lui, attento, critico, immagazzinava con estrema facilità ciò che leggeva. Possedeva una biblioteca vastissima composta da più di 25mila volumi. Saggistica, poesia, filosofia, storia, geografia, i grandi classici del passato, testi antichi, tomi rari e preziosi. Ma anche romanzi, libri di viaggi, cinema, avventura. Nelle lingue più disparate, ne conosceva cinque-sei, ne masticava altre due-tre…”. Italiano all’anagrafe, ma cosmopolita nel Dna, aveva l’avventura, il viaggio, lo spirito di libertà nel sangue. I suoi miti letterari di gioventù gli erano sempre rimasti dentro: Stevenson, Conrad, Melville, Kipling, London, Haggard, Yeats e Rimbaud. Ma anche i meno conosciuti Zane Grey, James F. Cooper, Frederick Rolfe, Somerset Maugham, “anche se oggi nessuno più li legge”, ripeteva. Tra questi autori, anche Henry de Monfreid, l’avventuriero francese che durante la guerra d’Etiopia si era schierato con gli italiani, morto a 95 anni nel ’74, che Pratt conobbe (e che secondo alcuni ispirò alcuni tratti della figura di Corto Maltese) e di cui Hugo illustrerà le copertine di tre romanzi per l’editore Grasset.


D’altronde la vita stessa di Pratt coincise con l’avventura. I Pratt erano d’origine anglo-normanna, scampati alla rivoluzione del 1688, mentre la famiglia materna era d’origine toledana, ebreo-sefardita, e la moglie del nonno era una Azim turca diventata veneziana. Lui nacque a Rimini durante una vacanza dei genitori il 15 giugno del 1927. Figlio di Rolando, un militare di carriera che aveva lavorato anche alla Bonifica pontina, morto nel 1942 in un campo di concentramento francese dopo essere stato preso prigioniero, e di Evelina Genero, a sua volta figlia del poeta popolare veneziano di origini marrane Eugenio Genero, il fondatori dei Fasci di combattimento a Venezia. La sua vita si sviluppò soprattutto intorno alla città di Venezia; qui sono ambientati ben due suoi fumettiL’angelo della finestra d’oriente e Favola di Venezia.
Allo scoppio della seconda guerra mondiale la famiglia di Pratt si trovava in Etiopia, dove il padre era stato arruolato nella Polizia coloniale. Nel 1941 la famiglia Pratt fu internata in campo di concentramento a Dire Daua dove il padre morì nel 1942. Un anno dopo Pratt poté rientrare in Italia grazie all’intervento a favore dei prigionieri della Croce Rossa e a Città di Castello frequentò fino a settembre un collegio militare fascista. Nel 1943, torna a Venezia e fu per breve tempo marò della Decima Mas militando nel Battaglione Lupo finché la nonna lo costrinse a ritornare a casa. Nell’autunno del ’44, invaghitosi di una bella ausiliaria germanica,  rischiò invece di essere fucilato dalle SS, che temevano fosse una spia sudafricana. Nel febbraio 1945, comunque, Hugo passa la linea del fronte. Prima si imbatte nei partigiani, tra i quali incontra alcuni suoi vecchi amici: “Ma – ha raccontato nel romanzo autobiografico Le pulci penetranti – non ci ho resistito molto tempo, nemmeno una settimana: facevano finta di fare maledettamente sul serio”.   Poi arriva a indossare la divisa degli alleati, facilitato dalla sua perfetta conoscenza della lingua inglese. Il 24 aprile entra a Venezia inquadrato e vestito come giovale militare scozzese, poi, ancora per spirito goliardico e avventuroso, indossa una divisa con la mostrina irregolare su cui spiccano le fantasiose iniziali I.S., “individual soldier”. Una divisa che gli servì, come ha raccontato, soprattutto per rimorchiare ragazze…
Dal 1950 in poi, i suoi spostamenti: prima l’Argentina, quindi Londra, di nuovo l’Italia, tra Milano e Genova, quindi Parigi, di nuovo Venezia e, infine, la Svizzera. E i suoi tanti, tantissimi viaggi, in tutto il mondo. E le sue stsorie a fumetti, apparse, negli anni, su Sgt. Kirk, sul Corriere dei Piccoli, su Linus, sul Corriere dei Ragazzi, su Pif Gadget, su Pilot, su L’Eternauta, su Corto Maltese… E i suoi libri, di letteratura e scrittura: Le pulci penetranti, Aspettando Corto, Avevo un appuntamento, Il romanzo di Criss Kenton, Jesuit Joe, oltre alle versioni narrative (pubblicate e ripubblicate sino alle definitive edizioni Einaudi) delle principali storie di Corto Maltese, Una ballata del mare salato e Corte Sconta detta Arcana, sino alla affascinate autobiografia Il desiderio di essere inutile.
Tra i tanti che ne hanno parlato, il cantautore Bruno Lauzi ha raccontato di quando, nella Pasqua del ’75, lo incontra all’aeroporto di Linate. Aveva una lunga sciarpa rossa e l’aria bonaria. Lo guarda e gli fa in veneziano: “Lu l’è il Lausi”, con la esse. E il musicista: “E lei è Pratt. Io sono un suo ammiratore dai tempi dell’Asso di Picche”. Ne viene fuori un invito a pranzo a Saint-Germain-en-Laye, da lui. E finisce che Hugo disegna un Corto per festeggiare l’incontro: “Mentre lui disegna – rievocava Lauzi – gli registro un samba improvvisato che intitolo Samba per Corto. Quel suo disegno ha sempre vegliato su di noi sulle parti della mia casa, moderno Lare…”.
Del grande Hugo resta infine da precisare il particolare orientamento libertario, che lo ha sempre caratterizzato. Tanto che, paradossalmente negli anni ’70, quando vennero messi al bando gli scrittori d’avventura che avevano alimentato i “sogni di libertà” della sua generazione, finì per venire accusato – contemporaneamente – di “libertarismo” e di “fascismo”. Ricordava lo stesso Pratt che in quegli anni si era quasi costretti “a rispolverare Marx ed Engels, autori – annotava – che dovetti frequentare ma che mi annoiarono immediatamente. Visitai anche Marcuse e qualche altro ma tornai ai classici dell’avventura. Venni allora accusato di infantilismo di edonismo e di fascismo”. Critiche che si ribaltarono in fastidi e rappresaglie. Dopo infatti un anno di lavoro alla rivista di fumetti francese Pif Gadget, Pratt venne licenziato perché l’editore, vicino al partito comunista di Francia e tutto preso da storie di impegno e militanza, giudicava eccessivo il libertarismo che anima i fumetti di Corto Maltese.



In un’intervista a Vincenzo Mollica sarà comunque lo stesso Hugo a chiarire il suo pensiero e il fatto che l’arte è un terreno di per sé irregolare e sfuggente a qualsiasi inquadramento militante: “Il fatto che io sia un libertario, e spero che questo traspaia dalle mie storie, non m’impedisce di leggere Kipling. Ci sono molti che dicono che non leggeranno mai Ezra Pound perché era fascista e perché non appartiene a quella cultura che tendenzialmente è marxista e leninista ma io non credo che Ezra Pound debba per forza essere identificato”. E la sua memoria correva dritta ai vecchi ricordi del poeta americano, che Hugo incontrava per le calli della sua Venezia: “Una volta mi ha guardato, fisso a lungo, si è fermato, poi ha fatto un segno. Come per dire: ‘Ci conosciamo’…”.

Anticonformista nelle idee e nella vita, Pratt avrà in Corto i segni della sua stessa biografia: dall’infanzia tra Venezia e l’Africa ai lunghi anni argentini, dal Brasile a Cordoba, dall’amicizia con profughi tedeschi o russi alla passione non militarista per le divise sino a quella per le donne che gli farà mettere al mondo sei figli da quattro madri diverse. Tutto incuriosiva Hugo: “La mia vita – diceva – è colma di sorprese e di piaceri. Le mie numerose ricerche in ogni campo mi hanno permesso di meglio comprendere il mondo e me stesso”. Ma, sempre, senza mai prendersi troppo sul serio: “Quando ripenso a coloro – sentenziò – che mi accusano di essere inutile, e a quello che giudicano utile, allora, a loro confronto, non solo provo piacere a essere inutile, ma ne sento il desiderio”.