domenica 28 settembre 2014

Mario Tronti e l'insensatezza oggi di definirsi di sinistra (o di destra)




“La Storia è diventata piccola, prevale la cronaca quotidiana: il chiacchiericcio, il lamento, la banalità…”. A parlare è Mario Tronti, filosofo e uomo politico. È stato negli anni Sessanta il teorico dell’operaismo, dirige la Fondazione Centro per la Riforma dello Stato, ha da poco terminato un libro sulla sua biografia intellettuale. Ormai ama frequentare soprattutto il pensiero di Simone Weil, Aby Warburg, Walter Benjamin, Rosenzweig: “Una costellazione – dice – anomala, e irriferibile alla tradizione ortodossa, uomini postumi”. Lo confessa a Antonio Gnoli, che gli dedica la consueta intervista domenicale su “la Repubblica”. Interessante e profondo il passaggio in cui Tronti risponde alla domanda se “si sente ancora un uomo di sinistra” (sia ben chiaro che la stessa cosa, specularmente, si porrebbe, con un analogo intellettuale coerente e coraggioso, con l'essere e il definirsi "di destra").
La risposta è significativa, non solo pensando che viene da un senatore del Pd ma anche perché esprime compiutamente la banalità di ridurre i conflitti e le dinamiche dell’epoca dentro l’orizzonte destra/sinistra “Ma come potrei essere di sinistra – ammette Tronti – con il pessimismo antropologico che ricavo dal mio realismo? Dichiararsi illuministi, storicisti, positivisti, come fa in qualche modo la sinistra, è illudersi che i problemi che abbiamo di fronte siano semplici”. Invitato, comunque a “collocarsi” il pensatore confessa: “Sto, per così dire, su una specie di confine che ha ben descritto Simone Weil: non attraversare, ma non tornare neppure indietro. Al tempo stesso penso che il legno storto dell’umano per sopravvivere abbia bisogno di qualche forma di fede”. E per finire: “Il progressismo  taglia corto Tronti  è oggi la cosa più lontana da me. Respingo l’idea che quanto avviene di nuovo è sempre meglio e più avanzato di ciò che c’era prima”. 

sabato 27 settembre 2014

Bernard Marie Koltès, l’ultimo maledetto della letteratura francese



Fabrizio Baleani

Per Cèline lo stile è voce, talvolta è petit musique e il suo solido corpo sonoro vibra nell’emissione di un solo fiato, un unicuum d’armonie impetuose che schiva le minacce d’interruzione immaginabili in un lucido, emotivo, lirico getto di parole. Un esempio di partitura musicale-letteraria intensa, concitata, ininterrotta, sgorgante da timbri vocali caldi, ruvidi e profondi al contempo, è il monologo La notte poco prima della foresta (Gremese editore, pp. 62, euro 10,00), del drammaturgo francese Bernard Marie Koltès. Egli, indimenticabile collaboratore di Patrice Chereaux, è forse l’ultimo e più radicale maledetto della letteratura francese. Della maledizione s’infestò il suo corpo, divorato, nel 1989, dal più atroce e assurdo morbo della fine del Novecento, quel lembo di tempo senza direzione adatto al suo nomadismo inquieto diviso tra l’attrazione del futuribile degrado newyorkese, i segreti dell'Africa nera e lo smarrirsi nei meandri desolati di una potenza in rovina, l’Unione Sovietica.

Di questo istinto girovago sono pervase le sue pagine migliori tese tra la tentazione dell’oscurità e l’obbligo di eluderla, di emarginarla sul dorso insicuro d’una vitalità disperata, diretta, notturna. Dell’essenziale disagio dell’esistere protetto e isolato dal bla-bla delle schiere di professionisti marcianti in attesa di marcire, Koltes è un cantore sublime. Ne scruta la ripida e fatale illegalità s’accorge di come, in fondo, in quel crudo ed elementare atto di universale compravendita cui si riducono i contatti tra gli esseri umani, c'è solo minaccia e fuga, “l'affare per se stesso, senza un oggetto da vendere e un oggetto da comprare, senza moneta valida e neppure un listino dei prezzi, soltanto tenebre di uomini che s'afferrano, s’annusano, s’intuiscono nella notte”. S’invaghisce di questa ibrida purezza, peculiarità e sorte di quanti riescono a vivere sottratti alla legge e all'elettricità, di quanti si cercano senza pagare il fio della propria ricerca con una stabilità forzata e con una “temperatura d’aria filtrata” o con accomodanti e mesti tributi all'orgoglio. Lo scrittore alsaziano, ricorderà in seguito, in una fase più matura della sua produzione letteraria, che la vera crudeltà, “nell’ora autentica del crepuscolo” consiste nel non riuscire più a perdersi, raggomitolandosi nel comodo labirinto delle convenzioni, loculi costosi dove parcheggiare la propria indifferenza. Infatti: “Non è grave che un uomo ferisca l’altro o lo torturi o anche lo faccia solo piangere, il tormento vero e terribile è quello dell’uomo o dell’animale che rende l'uomo o l’animale incompiuto, che l’interrompe come i puntini di sospensione in mezzo a una frase, che gli volta le spalle dopo averlo guardato e lo riduce a un errore dello sguardo, un errore del giudizio, un errore, come una lettera appena iniziata e brutalmente stracciata...”. Nel monologo La notte poco prima della foresta il vagabondaggio dignitoso e supplice, affamato di sguardi e complicità diviene invocazione profana, incisa nelle viscere, diario intimo di un abbordatore di sbandati, manifesto che promulga, in consonanza autentica con la schiuma della terra, un Sindacato Internazionale per la difesa dei Ragazzi Non Troppo Forti (“figli diretti delle loro madri, con la camminata dondolante da maschi tutti un fascio di nervi”). Una prosa da poema contemporaneo raccoglie in un visionario affresco la babele dei linguaggi, il crogiuolo delle speranze disattese, le appartenenze etniche calpestate nel feroce e sregolato agòne delle identità. Vi si cantano “le vecchie, gli arabi, i mendicanti, i controllori, i teppistelli tirati a lucido, lo schifo di odori, lo schifo di rumori, litri di birra, la voglia di una stanza”. S’inveisce contro la ghettizzante geografia delle città, accuratamente scisse in zone di lavoro settimanale, zone per le moto o per rimorchiare, per avvilirsi nei pressi della tristezza o lasciarsi adescare dagli occhi vivi d’una puttana. Questo delirio teatrale intenso e acre, dal fraseggio lungo, pieno di battute controtempo, è un fluire di pioggia e di vento, di camminate sui marciapiedi, di rifiuto d'ogni specchio o simulacro incapace di riflettere vertigini. Un inno all’eros, al viaggio, alla latitanza. Uno stillicidio d’invocazioni non abbracciabili dai pietismi messi in posa o dall’esibizione di misericordie spettacolari e avente il suono impercettibile di un precipitare piovano schiodato da nubi di promiscuità e solitudine.

domenica 21 settembre 2014

La profonda saggezza delle persone anziane



Una lettera molto bella che Enrico Vanzina riporta oggi sulla sua rubrica “Che ci faccio io qui?” sul “Messaggero”
L'autrice è Regina Brett, una novantenne di Cleveland



“La vita non regala niente, ma vale comunque la pena di essere vissuta. La vita è corta, quindi approfittane. Ricordati che non c’è bisogno di avere sempre ragione. Mai. L’importante è semmai essere (e poter essere) se stessi. Se hai voglia di piangere, fallo con qualcuno, perché ti darà più conforto che piangendo da solo. Non è vietato piangere davanti ai tuoi figli o ai tuoi cari. Non è vietato prendersela qualche volta con Dio, lui ha le spalle grosse. Non fare mai paragoni con la vita degli altri, perché in realtà non sai mai com’è la vita degli altri. Se hai una relazione segreta, meglio troncarla. Ogni tanto respira profondamente, calmerà la tua mente e il tuo spirito. Sbarazzati di tutto quello che non ti serve. E sappi che tutto quello che non ti uccide ti rende più forte. Non è mai troppo tardi per essere felice e questo dipende solo e soltanto da te, non dagli altri. Da nessun altro. Soffia sulle candeline, dormi tra lenzuola pulite, indossa qualcosa di sexy, non farlo solo nelle occasioni speciali, l’oggi è sempre speciale. Cerca di essere eccentrico, libero, non convenzionale. L’organo sessuale più importante è il cervello. Di fronte a un apparente disastro chiediti: “Tra cinque anni mi importerà ancora?”. Scegli sempre la vita. Quello che gli altri, tutti gli altri, pensano di te non ha nessuna, propria nessuna, importanza. Il tempo, poi, aggiusta sempre tutto, quindi dai tempo al tempo. Cerca di credere nei miracoli. Perché accadono. Ogni giorno. Dio ti ama a prescindere, anche se tu combini guai. Diventare anziano batte sempre l’opzione morire giovane. I tuoi figli e i giovani che conosci avranno una sola giovinezza, fai in modo che sia allegra e spensierata. Se buttassimo i nostri problemi in un secchio e poi guardassimo quelli degli altri, i nostri li riprenderemmo subito dal secchio. L’invidia, infine, è solo una perdita di tempo: accetta e ama quello che hai, non sognare inutilmente quello di cui tu pensi di aver bisogno. Ricordalo sempre: il meglio deve ancora venire. Anche se qualche volta ti senti al capolinea, alzati, vestiti, esci e fatti vedere in giro. Alla fine di tutto, quello che conta veramente è amare e aver amato”.

venerdì 12 settembre 2014

Clint Eastwood, il libertario


articolo apparso sul quotidiano "Cronache del Garantista" martedì 26 agosto

Luciano Lanna

Non molti lo sanno ma uno dei film più incisivi nella battaglia contro la pena di morte è stato firmato e interpretato da Clint Eastwood, lo stesso attore e regista che negli anni ’70 veniva considerato “fascista” per aver interpretato i film polizieschi di Don Siegel con l’ispettore Callagan come anche i primi western “violenti” di Sergio Leone. Si tratta di Fino a prova contraria (titolo originale: True Crime), una pellicola del 1999 diretta appunto dal nostro Eastwood e tratta dal romanzo Prima di mezzanotte di Andrew Klavan. In Italia il film è uscito il 30 aprile 1999 ma non è stato molto pubblicizzato o commentato, al punto di trasformarlo in un cult movie e vederlo citato nella cinematografia anti pena di morte. Eppure, a ben vederlo, per alcuni tratti potrebbe risultare anche più efficace di pellicole stracitate come Dead Man Walking o Il miglio verde
Veniamo alla trama, comunque. Steve Everett, un giornalista di lungo corso appena uscito dal buco nero dell'alcolismo, ha il compito di scrivere un pezzo sull’esecuzione alla sedia elettrica di Frank Beechum, un nero di trent’anni che è stato condannato per l’assassinio di una giovane donna bianca. E il film sembrerebbe dipanarsi inizialmente solo intorno alla storia personale di Everett, il quale è costretto improvvisamente a sostituire una sua collega di lavoro, morta in un incidente d’auto la sera prima, nel compito di scrivere un articolo umano sulla condanna a morte e prossima esecuzione, allo scadere della mezzanotte, di Frank Beechum.
Il personaggio con il volto di Clint trova però tutta una serie di circostanze e dettagli importanti che non erano stati considerati né approfonditi dalla polizia come dal pubblico ministero. E così Everett diventa consapevole che Frank Beechum non è affatto il vero colpevole. In particolare, il giornalista viene colpito dal fatto che sulla scena sia presente un altro giovane, e che questo non sia stato minimamente preso in considerazione nella lista dei sospetti.Dopo tutta una serie di colpi di scena,  cinematograficamente molto efficaci, compreso il licenziamento dello stesso Everett e la decisione di divorziare presa dalla moglie, il nostro giornalista riesce a risalire all’identità dell’altro giovane e infine a provare l’innocenza di Beechum. È un particolare pendente appeso al collo della nonna del giovane, che nel frattempo è stato ucciso, e che apparteneva precedentemente proprio alla vittima. A questa rivelazione segue una lunga scena divisa tra il tentativo di Everett di raggiungere il governatore, per poter fermare l’esecuzione, e quindi l’esecuzione alla sedia elettrica stessa.
La scena finale vede un Everett licenziato, “senza casa”, ma candidato al Premio Pulitzer, comprare un regalo di Natale per la figlia e incontrare appena uscito dal negozio lo stesso Frank Beechum, salvato proprio all’ultimo secondo, anche lui con i familiari pronto alla festività. La scena chiave del film, la corsa contro il tempo mentre l’esecuzione sta per iniziare, è un vero e proprio remake filologico di una scena classica della storia del cinema, il salvataggio all’ultimo minuto di Intolerance di Griffith. Oltretutto Eastwood non è certo un seguace della strizzatina d’occhio citazionista tipica di un certo cinema d’autore. “Ma perché – si è chiesto il critico Christian Viviani – ottant’anni dopo Intolerance Eastwood crea un remake virtuale di quella scena nel finale palpitante di True Crime? Si tratta di un  gesto passatista che, tutto sommato, non si è inventato niente? O di una nostalgia regressiva verso una forma superata di cinema? Niente affatto. Lo spettatore sarà in realtà emotivamente coinvolto a fondo nella scena, indipendentemente da una scena referenziale del montaggio alternato che probabilmente ignora. Quello che s’impone è semmai l’aplomb stilistico di Eastwood, che ragiona con una logica sconvolgente allo scopo di provocare una reazione viscerale: l’indignazione nei confronti della pena di morte…”.
Anche questo film, purtroppo come abbiamo detto poco conosciuto in Italia, rivela comunque la vocazione libertaria di Clint Eastwood, la stessa che sta all’origine di suoi film come Million Dollar Baby, Lettera da Iwo Jima, Gran Torino, Invictus o J.Edgar… “Sono – ha ammesso lo stesso Clint – un libertario, amo l’indipendenza, venero lo stato mentale di chi rimane indipendente, in politica e nella vita”. Tutto questo Eastwood lo sostiene senza rinnegare nulla della sua stessa biografia politica, le stroncature degli anni ’70 – quando la critica liberal Pauline Kael lo bollò addirittura come “fascista” per via della particolare connotazione antropologica di tanti suoi personaggi – e anche la sua esperienza diretta, nel 1986, come sindaco repubblicano della cittadina californiana di Carmel. Tanto è vero che lui – e non tanti presunti progressisti – ha affrontato nei film che ha diretto temi spinosi come la pena di morte, nel caso di Fino a prova contraria, oppure il “fine vita” in Million Dollar Baby, i diritti degli immigrati e il rifiuto della xenofobia in Gran Torino, la lotta al razzismo in Invictus. E intervistato Eastwood ha spiegato e declinato fino in fondo la sua visione libertaria delle cose: “Sono cresciuto a Oakland, in California, con una vasta popolazione di neri. Amavo la musica jazz, ma non capivo perché i musicisti neri non potessero suonare nelle band dei bianchi. Mia moglie, poi, è in parte di colore, anche lei cresciuta in California e da piccola sentiva la gente che le diceva: ‘Ehi tu, non bere da quella fontana’. Certo, abbiamo fatto passi avanti da allora, ma c’è ancora del pregiudizio nella nostra società…”. E oggi, sostiene il libertario Eastwood, la frontiera della libertà passa attraverso la capacità di “scavalcare le linee di partito”. Tanto che sul piano politico lui prende ormai le distanze dal vecchio bipolarismo a stelle e strisce: “Non credo più nel partito repubblicano ma nemmeno in quello democratico”. Più libertario di così…

Occhio all'etichetta/2. La scelta del latte




Il latte del supermercato è di diversi tipi: quello fresco intero che deve avere circa il 15% di sieroproteine, quello pastorizzato (11% di sieroproteine), quello parzialmente scremato (massa grassa compresa tra 1,50% e 1,80%), scremato (massimo 0,50% di massa grassa). 
Un’ulteriore classificazione è quella che riguarda i latti “modificati”:
• Latte delattosato (ad alta digeribilità): con ridotto tenore di lattosio – cui molte 
persone sono intolleranti. Il lattosio si presenta già scisso, lasciando inalterato il valore 
nutrizionale del latte.
• Latte desodato: con ridotto tenore di sodio (per diete iposodiche).
• Latte arricchito: con fibra vegetale e fermenti lattici vivi (Bifidobacterium e 
Lactobacillus acidophilus).
• Latte vitaminizzato detto anche “latte fortificato”: con aggiunta di vitamine oppure 
calcio, ferro ed altri sali minerali.
• Latte parzialmente disidratato e latte totalmente disidratato: mediante 
trattamento termico di sterilizzazione oppure trattamento UHT seguito da 
confezionamento asettico, disidratazione ed aggiunta di zuccheri.
• Latte aromatizzato: addizionato di aromi diversi, naturali e non, come frutta, cacao o 
vaniglia. 
Cosa prevede la legge sull’etichettatura
Per la legge le etichette delle confezioni di latte devono riportare le seguenti indicazioni:
• trattamento subìto: 
• data del trattamento;
• temperatura alla quale deve essere conservato (per il latte crudo, pastorizzato e 
microfiltrato);
• data di scadenza o termine minimo di conservazione. 
• quantità netta.
Inoltre l’etichetta deve riportare l’indicazione della provenienza del latte o della zona di 
mungitura. 

Attenzione alla scelta della mozzarella! E' il formaggio più consumato dagli italiani ma anche il più "taroccato". La mozzarella ha quattro ingredienti: latte, sale, caglio, fermenti lattici vivi. Quelle con il "correttore di acidità" sono meno pregiate. La falsa mozzarella è invece prodotta con acqua e proteine del latte. 
Leggete bene anche le etichette dello yogurt: ci sono yogurt i cui unici ingredienti sono latte e fermenti lattici vivi, yogurt cui sono aggiunti preparati di frutta e yogurt con un gran quantità di coloranti e additivi. Sulla qualità influisce il numero di fermenti lattici vivi: al momento della produzione sono almeno 100 milioni di bacilli per grammo che col passare del tempo scenderanno fino a 1-5 milioni. E' importante dunque la data di scadenza. Verificare poi che lo yogurt non contenga gelatina o addensanti. 

Il Conte di Montecristo siamo noi. Una storia di ingiustizia e ribellione



articolo pubblicato sul quotidiano "Cronache del Garantista" giovedì 11 settembre


Luciano Lanna

“Pochissimi hanno traversato le rivoluzioni, in mezzo alle quali siamo nati, senza che qualche macchia di fango o di sangue abbia lordato loro l’uniforme da soldato o la toga da giudice…”. È una citazione che proviene non da un testo di diritto o di filosofia politica ma che sta al centro di un testo narrativo nato come feuilleton a puntate sui giornale e diventato col tempo il romanzo popolare per eccellenza: Il Conte di Montecristo di Alexandre Dumas. Fin dal suo primo apparire, in quella Francia degli anni Quaranta dell’800 che era il più effervescente laboratorio delle rivoluzioni europee e dei diritti emergenti, la storia di Edmond Dantès, eponimo dell’ingiustizia e dell’errore giudiziario che si trasforma in titolare di fortuna e di giustizia, fu accolta dalle migliaia e migliaia di avidi lettori di feuilleton come la più coinvolgente e appassionante incarnazione dello spirito dell’epoca. Un successo fulmineo, per il romanzo, che fu subito sancito dall’immediato passaggio all’edizione in volume e da un vorticoso numero di ristampe e traduzioni.
Diciamo subito che, in Italia e nel ’900, Benedetto Croce confessava, dopo averlo letto, di non provare “il rossore di cui altri sentirebbero inondato il volto nel dire che mi piace” e che Antonio Gramsci nei suoi Quaderni del carcere ne faceva il prototipo di una “letteratura nazional-popolare” di cui la cultura italiana sarebbe stata priva. E che, infine, Bettino Craxi, costretto all’esilio per la furia giustizialista che colpì il nostro paese nei primi anni ’90, sceglierà proprio il nome di Edmond Dantès come pseudonimo col quale vergare i suoi scritti dall’esilio tunisino di Hammamet, e questo dal 1993 sino al giorno della sua morte, il 19 gennaio 2000. Scelta non certo casuale e oggettivamente connessa alla carica garantista e antigiustizialista del romanzo di Dumas.
Pubblicata a puntate per ben due anni, dal 1844 al 1846, come romanzo d’appendice, trama del romanzo, vuoi per sentito dire o per i molti adattamenti cinematografici e tv, è nota, patrimonio dell’immaginario occidentale. La vicenda si snoda durante gli anni tra il 1815 e il 1838, dalla fine del regno di Napoleone Bonaparte al regno di Luigi Filippo. Edmond Dantès è un giovane che sta per vedere i suoi sogni realizzati: a breve diventerà capitano sul bastimento Pharaon a soli 19 anni ed è destinato a sposare la bellissima Mercedes della quale è innamorato da sempre. Ma questa fortuna fa invidia a molti: Danglars, scrivano del Pharaon si vede soffiare la possibilità di una promozione e Fernand Mondego – più avanti conosciuto come conte de Morcerf – che è il suo rivale in amore, non sa rassegnarsi alla perdita di Mercedes. I due ordiscono così un complotto contro Dantès: con una lettera anonima accusano il giovane di essere una spia bonapartista che trama per il ritorno di Napoleone dall’Elba. Edmond viene così ingiustamente imprigionato il giorno stesso del suo matrimonio e lasciato in una segreta per 14 lunghi anni nel Castello d’If, terribile carcere su una roccia in mezzo al mare.
Gli effetti politici del complotto? Danglars, lo scrivano di bordo della nave dove lavorava Edmond, verrà invece promosso capitano della nave Pharaon. Dopo poco tempo abbandona l’incarico e si trasferisce in Spagna dove lavora presso un banchiere. E  in seguito a una serie di speculazioni e investimenti diventa milionario e sarà, oltreché barone, il più ricco banchiere di Parigi. Poi c’è Villefort: il suo nome originario è Noirtier, sostituto Procuratore del re e, in seguito, procuratore del re, figlio di un bonapartista, arriva a rinnegare il padre (e a cambiare cognome in Villefort) per garantire la sua fedeltà alla monarchia ed entrare così nelle grazie del re e di tutto l’entourage monarchico, compresa la famiglia Saint-Méran sarà lui il responsabile materiale dell’incarcerazione di Edmond.
Nella vicenda c’è però una variabile impazzita. In carcere Edmond incontra però il sapiente abate Faria che gli regala tre cose: l’idea e la possibilità di una evasione, un tesoro nascosto all’isola di Montecristo col quale ricrearsi un’identità, e l’ispirazione e farsi giustizia. Quel compagno di cella, avanti con l’età e malato terminale, gli rivela infatti l’esistenza di un tesoro nascosto sull’isola italiana. Dopo aver recuperato il tesoro Edmond, assumendo le finte spoglie del Conte di Montecristo, ma anche di altri personaggi, come l’abate Busoni e Lord Wilmore, con intelligenza e sempre all’insegna del motto “aspettare e sperare” riesce a vendicarsi di coloro che un tempo, amici suoi, lo avevano tradito e fatto condannare ingiustamente. Dantès agisce al di sopra e oltre il sistema giudiziario ordinario, convinto come è del sistema ufficiale di giustizia criminale.
I complici del complotto contro di lui sono infatti tutti arrivati ai vertici del potere: Morcerf rappresenta il potere militare, Danglars il potere finanziario. Villefort il potere giudiziario. Non c’è idolatria dei “tre poteri” montesquiani che regga nella visione “politica” del garibaldino Dumas (che come sappiamo seguì e raccontò l’avventura dei Mille non solo per giornalismo). All’origine di ciascun potere, secondo l’autore del Conte di Montecristo, sia questo potere di spada, di denaro o di toga sta un atto di forza illegittimo, un crimine o un’ingiustizia. Il credo o il colore politico contano poco nella società borghese post-rivoluzionaria: legittimisti reazionari o liberali orleanisti i personaggi della storia appaiono tutti colpevoli. Morcerf è legittimista, Danglars, barone per grazia di Carlo X, milita nell’opposizione dinastica. E Villefort, ex Bruto realista e antibonapartista, è un arrivista pronto a tutto che, aristocratico d’origine e di sentimento, ha ormai un solo desiderio, conservare la sua posizione di potere, e un solo modello: l’ordine.
Come ha annotato Enzo Siciliano il quadro socio-storico è la chiave intima del successo del Conte di Montecristo: qui più che la Storia lo scrittore ha descritto la sua contemporaneità e la sua tendenza all’ingiustizia e agli errori giudiziari: “La facilità del guadagno, dello sperpero di denaro, delle corse irrefrenabili su per la scala sociale di affaristi spregiudicati e funzionari di mezza tacca che sanno sfruttare la politica, le amicizie di qualità a unico profitto personale; quindi il precipizio in cui tante improvvise fortune finanziarie piombavano a terra con la velocità del suoni, e travestimenti conseguenti, lacrime per alcuni e per altri gioie: questa la sostanza del romanzo”.
La vicenda, comunque, è ambientata non solo in Francia ma anche nelle isole del Mar Mediterraneo e in Italia. E qui ci sono le pagine indimenticabile sul Carnevale di Roma ma, soprattutto, sui briganti italiani amici del Conte. In particolare emerge la figura di Luigi Vampa, un bandito laziale che aiuterà Dantès nei suoi piani di giustizia. Si parla, nel romanzo, dei briganti laziali di Palestrina e di Valmontone – nella storia furono quelli di Montefortino, centro lepino che poi cambierà il nome in Artena, “paese di delinquenti nati” secondo un’opera del sociologo Scipio Sighele.

Ecco, da questo punto di vista il romanzo di Dumas contribuirà più di altri a definire quella del brigante come icona libertaria. Lo scrittore Raffaele Nigro, che alla figura e alla metafora del bandito ha dedicato uno studio comparato – Giustiziateli sul campo. Letteratura e banditismo da Robin Hood ai giorni nostri (Rizzoli, 2006) – individua proprio in libri come Il Conte di Montecristo la matrice di questa connessione: “Un vento pericoloso invase nell’800 le città d’Europa. I giovani credono in Schiller, nella forza contestatrice assegnata ai banditi e ai briganti, molti si sono votati alla macchia e a un rischioso sovvertimento di valori. La filosofia del masnadiero impregna di ideali libertari della nuova società, è importante uscire dal contesto borghese e intervenire all’esterno per mutarne le regole. Quella del brigante è una figura di contestatore ante litteram contro la quale si scatenano la società civile e la Chiesa…”. 

mercoledì 10 settembre 2014

Occhio all'etichetta/1. L'acquisto delle uova




Prima puntata del nostro viaggio tra le etichette alimentari con l'aiuto di una guida scritta da Pierpaolo Corradini, "Quello che le etichette non dicono" (Emi, 2011)

Avvertenze per l'acquisto delle uova...

Dal 1 gennaio 2004 le uova devono avere sul guscio un codice che indica il tipo di allevamento. 0 indica l'allevamento biologico (le galline razzolano all'aperto per alcune ore al giorno in uno spazio di almeno 43 metri quadrati ciascuna). 1 indica l'allevamento all'aperto: le galline vivono in un pollaio e possono razzolare in un ambiente esterno con un minimo di 4 metri quadrati ciascuna. 2 è l'allevamento a terra, le galline si muovono liberamente ma in un ambiente chiuso. 3 indica infine l'allevamento in batteria, vietato con direttiva Ue entrata in vigore dal 1 gennaio del 2012. Le vecchie gabbie (18 galline in un metro quadro) hanno dovuto essere sostituite con gabbie modificate in cui l'animale usufruirà di 750 mq di superficie... Nel codice stampato sul guscio il tipo di allevamento è indicato dalla prima cifra, seguito dalla sigla del paese di produzione delle uova. 

La sinistra in bianco? In fondo è il colore più azzeccato




Dovrebbe stupire l'approdo alla camicia bianca della sinistra italiana ed europea? Non troppo, a pensarci bene. L'abbandono del sanguigno e rivoluzionario colore rosso per il più pacifico e neutro bianco (colore che è anche segno di resa e di rinuncia) fotografa in effetti molto bene quella che è la condizione di un'area politica tormentata da aspettative tutte post-ideologiche. Il bianco, spiega lo storico dei simboli Michel Pastoureau, come "grado zero" del colore. Come assenza. Come ripartenza della politica dove globalizzazione, spettacolarizzazione e politicamente corretto hanno cancellato le sfumature, tutte le sfumature. E dunque il bianco è la scelta cromatica, alla fine, più azzeccata. Nella sua neutralità, infatti, indica mancanza di profondità, l'obbligo di restare in superficie.

Ecco tutti i significati del bianco secondo Pastoureau: castità e innocenza, colore della pulizia e del freddo (gli elettrodomestici, non a caso, sono bianchi così come i detersivi), colore del freddo, della semplicità e della discrezione, delle stanze da bagno, colore della vecchiaia. Ma soprattutto nella gerarchia dei colori il bianco sta sempre al livello più basso: la cintura bianca nel Judo, la pista bianca nello sci... Il bianco si caratterizza infine come "assenza di colore": i fantasmi, le apparizioni, la paura si associano ad esso. Poi, è vero, il bianco è anche il colore del divino, ma solo in quanto associato alla luce e opposto al nero. Non è il caso delle camicie bianche esibite dai leader della sinistra europea.
(a.t.)

martedì 9 settembre 2014

Un re andò nel suo giardino...





Un re andò nel suo giardino e trovò che alcuni alberi e delle piante stavano morendo, mentre alcuni fiori erano quasi appassiti. La quercia disse che stava morendo perché non poteva essere alta come il pino. Osservando il pino il re lo trovò sofferente perché non poteva portare grappoli come la vite. E la vite stava morendo perché non poteva fiorire come la rosa. Infine trovò una pianta, la viola, fresca e fiorente come sempre. E quando il re le chiese la ragione della sua prosperità in mezzo a quel giardino di mestizia, essa rispose: "Ho dato per scontato che tu desiderassi una viola. Se avessi voluto una quercia, un pino o una vite avresti piantato quelle. Allora ho pensato: visto che non posso essere altro che una viola cercherò di manifestarmi al meglio di me". 

lunedì 8 settembre 2014

Filippo La Porta svela il segreto di Roma "bugiarda"







Di seguito una pagina tratta dall'interessante reportage capitolino di Filippo La Porta, "Roma è una bugia" (Laterza). Un libro pieno di fascino come la città di cui vuole svelare il segreto...


Filippo La Porta

"Roma assomiglia a un lungo crepuscolo artico che si tinge di infiammati colori barocchi, al chiarore artificiale di una una interminabile e dolcissima agonia recitata. Scrive Cristina Campo che Roma è tutto 'un crollo: di rovine, di palazzi, di nuvole gonfie', una città che ha fatto propria l'estetica del disastro, quella che Piranesi ha inciso come nessun altro mai. Qui sentite che la fine si avvicina e che pur tuttavia non viene mai, perché Roma più che città eterna mi appare eternamente terminale...  Tutto ciò che arriva qui - idee, fedi, ideologie - finisce, diventa rovina e archeologia, si devitalizza poco a poco (Raffaele La Capria ha definito Roma 'Pantheon di idee defunte') e però non smette di finire. Da qui Roma trae la sua vitalità stregata e un po' guasta. Come una fine continuamente differita, un decesso probabile ma posticipato sine die. Una apocalisse continuamente rinviata, che non ci riguarda del tutto ma è ineludibile, e che potrebbe avere un contenuto paradossalmente salvifico. Una impermanenza che si trattiene ancora per un istante. Le idee defunte continuano la loro esistenza postuma e si mescolano a quelle ancora in vita. Quando Carlo Levi, appena arrivato a Roma nel dopoguerra, chiama l'idraulico per un guasto di poco conto, quello si affretta a commentare, rassegnato ma un po' compiaciuto: 'A dotto', qui bisogna sfascià tutto!'. Perché i romani sono attratti dal teatro della catastrofe, che li emoziona e rassicura. E anche da un'idea regressiva - la meridiana pennica - alla fin fine da quella non troppo dissimile, un'idea molto poco calvinista della felicità: assenza di tensioni e quiete estatica". 

domenica 7 settembre 2014

Ernst Jünger, un autore da rileggere oltre la gabbia destra/sinistra



articolo pubblicato sul quotidiano il "Garantista" giovedì 4 settembre


Luciano Lanna

Un’operazione analoga a quella che ha riguardato sul Garantista Céline dovrebbe a nostro avviso coinvolgere anche Ernst Jünger, il decano novecentesco della letteratura tedesca, nato nel 1895 e scomparso nel 1998 alla veneranda età di 103 anni. Al di là della sua militanza adolescenziale tra i nazionalisti, infatti, della sua partecipazione da volontario alla Grande Guerra e la stessa strumentalizzazione che il regime hitleriano fece della sua opera L’operaio, dedicata alla società della mobilitazione di massa, lo scrittore – nonostante i suoi scritti giovanili militaristi – non solo arrivò ben presto a esporsi esplicitamente contro la dittatura nazista e a partecipare addirittura al complotto del 1944 per far fuori Hitler ma, sin dagli anni ’30, produsse tutta una serie di opere inequivocabilmente di natura libertaria. Sarà lui, e non Brecht, ad esempio a scrivere: “L’obbligo scolastico è, essenzialmente, un mezzo di castrazione della forza naturale, e di sfruttamento. Lo stesso vale per il servizio militare obbligatorio. Respingo come una scemenza l’obbligo scolastico, come ogni vincolo e ogni limitazione alla libertà”. Non solo: Jünger negli anni ’60 del Novecento descriverà con benevolenza e simpatia “i figli dei fiori della California, i provos di Amsterdam, gli hippies multicolori accoccolati sulla scalinata di piazza di Spagna, o sui bordi della Barcaccia, gli indefinibili che emergono dappertutto e che parlano un nuovo gergo. Compagni simili esplorano il sottosuolo: è una buona cosa poi se sono anche colti”.  Del resto, lui stesso negli anni ’20 aveva aderito ai Wandervögel, il movimento giovanile tedesco che per la passione ecologista, la ricerca di una nuova spiritualità anticonformista e la sensibilità comunitaria anticipava i beatnik e il libertarismo della generazione “on the road”. Si pensi anche alla sua vicinanza senile ai Verdi che manifestavano in Germania per il neutralismo e contro il nucleare, al suo libro sul fenomeno degli stupefacenti e alla sua teorizzazione della figura dell’anarca nel suo romanzo Eumeswil
Insomma, la più profonda vocazione di Jünger fu eminentemente libertaria, ed è stata così esplicitata negli anni ’90 da studiosi come Antonio Gnoli e il compianto Franco Volpi. Una conferma significativa di ciò è stata poi, più recentemente, fornita dalla pubblicazione, anche in Italia, del suo libro La capanna nella vigna (Guanda, pp. 279, € 20,00), un diario che raccoglie le impressioni quotidiane di Jünger dall’11 aprile del ’45 al 20 novembre del ’48. Sono gli anni della disfatta della Germania, della capitolazione, dei suicidi dei gerarchi hitleriani, dell’occupazione da parte delle potenze straniere...
«L’importante per me resta il Singolo», spiegherà lo scrittore tedesco già ultracentenario intervistato da Gnoli e Volpi ne I prossimi titani (Adelphi). E proprio in nome del Singolo e contro il dilagare di burocrazie autoritarie spersonalizzanti si era espressa quasi tutta la sua produzione a partire dall’apologo anti-totalitario Sulle scogliere di marmo del 1939. Ma già nel mezzo della seconda guerra mondiale, il libertarismo di Jünger diventava via via più esplicito. E anche nel diario ’45-48 emergono pagine fortissime di attacco al totalitarismo. Lo scrittore ricorda, ad esempio, l’accozzaglia di “luoghi comuni” che scandiva i raduni di massa: “Era la stessa voce dei pubblicitari, delle macchine per vendere, che arrivano per decantare assicurazioni complicate, le cui visite si concludono in genere lasciandoci invischiati in contratti di pagamento interminabili”. La libertà, aggiunge, appartiene invece alla singola persona: “Solo la vista del singolo può dischiudere il dolore del mondo, perché un singolo può farsi carico del dolore di milioni di altri, può compensarlo, trasformarlo, dargli un senso. Rappresenta una barriera, una segreta inaccessibile, nel mondo di un mondo statistico, privo di qualità, plebiscitario, propagandistico, piattamente moralistico”.
L’attacco jüngeriano al cuore del totalitarismo non si nasconde – e siamo nella prima metà del 1945 – alla necessità di dover condannare l’antisemitismo e l’Olocausto. Lo scrittore incontra alcuni sopravvissuti ai lager: “L’impressione è di uno sconforto paralizzante, un sentimento che i loro discorsi trasmisero anche a me. Il carattere razionale, progredito della tecnica adottata nelle procedure getta sui processi una luce particolarmente cruda, in quanto emerge l’ininterrotta componente consapevole, meditata, scientifica che li ha determinati. Il segno dell’intenzione si imprime fin nei minimi dettagli, costituisce l’essenza del delitto”. Jünger parla esplicitamente di scene degne di Caino e il suo giudizio è assai vicino a quello successivo di Hannah Arendt sulla “banalità del male”. Parlando di Himmler commenta: “Ciò che mi ha colpito di questo individuo era il suo essere profondamente borghese. Vorremmo credere che chi mette in opera la morte di molte migliaia di uomini si distingua vistosamente da tutti gli altri, che lo avvolga un’aura spaventosa, un bagliore luciferino. E invece queste facce sono le stesse che ritrovi in tutte le metropoli quando cerchi una stanza ammobiliata e ti apre un ispettore in prepensionamento. Tutto questo mette in evidenza quanto ampiamente il male sia dilagato nelle nostre istituzioni. È il progresso dell’astrazione. A uno sportello qualsiasi può affacciarsi il tuo carnefice. Oggi ti recapita una lettera raccomandata, domani una sentenza di morte. Oggi ti fora il biglietto, domani la nuca. Ed esegue entrambe le cose con la stessa pedanteria e lo stesso senso del dovere”.
Si tratta di riflessioni che Jünger continuerà negli anni ’50 e oltre. E non a caso un suo scritto – La ritirata nella foresta – apparirà, prima ancora di svilupparsi in un vero e proprio manuale di resistenza libertaria (tradotto in italiano come Il trattato del ribelle), sulla rivista Confluence nell’ambito di un seminario internazionale sulla minaccia totalitaria. Pubblicata in Italia nel ’57 dalle Edizioni di Comunità di Adriano Olivetti, l’antologia di quegli scritti vedrà, accanto a quello di Jünger, i nomi e le firme della stessa Arendt, di James Burnham e di Giorgio de Santillana. Un’ottima compagnia per uno scrittore di cui purtroppo si è sempre teso invece a sottolinearne solo gli aspetti estetizzanti. Il fatto, purtroppo, è che in Italia si è sempre avuto difficoltà a concepire una via postliberale e immaginifica alla libertà. Fenomeno che viene confermato, d’altronde, dal fatto che in Italia si sia equivocato sulla figura jüngeriana del Waldgänger (alla lettera l’uomo-che-si-dà-alla-macchia, il libertario allo stato puro) traducendola con il termine di “ribelle” che evoca un atteggiamento diverso, non proprio quello che l’immagine di Jünger voleva suggerire.