La politica è continua integrazione, tutti hanno diritto a stare
in gioco
Luciano Lanna
Si parla tanto in questi giorni della proposta avanzata da parte di
esponenti del Pd di “regolarizzare” i nuovi soggetti politici, secondo qualcuno
con lo scopo implicito di mettere fuori gioco i “movimenti” sorti spontaneamente
negli ultimi anni. E c’è chi ha ricordato come la stessa logica fosse stata
all’origine di precedenti ipotesi di mettere al bando (o fuori dell’arco
costituzionale) l’una o l’altra forza politica nel periodo che va dagli anni ’50
ai ’70 del Novecento. Oggi sarebbe sotto attacco il Movimento 5 Stelle così
come negli anni ’50 lo era stato – nel clima della guerra fredda – il Pci,
negli anni ’60-70 il Msi, nel 1977 l’area di contestazione che andava dagli
indiani metropolitani alla nuova sinistra. D’altronde, ci sono stati soggetti
di estrema destra, come il Movimento politico Ordine Nuovo e Avanguardia
nazionale, che furono, sempre nei Settanta, sciolti e messi addirittura fuori
legge dal ministro degli Interni. Così come molti ricordano che dopo
l’espansione elettorale missina del 1972 era stato Ciriaco De Mita a coniare
l’espressione di “arco costituzionale” nel tentativo di isolare il partito di
Almirante. E come dimenticare la “repressione” che colpì nel maggio del ’77 una
manifestazione non autorizzata dei radicali di Marco Pannella e in cui morì
anche la studentessa Giorgiana Masi? Era, anche quell’episodio, sintomo di una
non troppo recondita volontà di “demonizzare” in qualche modo quello stesso
partito radicale, andatosi ad affermare in quegli anni anche sul piano
parlamentare, e che era oggettivamente espressione di fermenti e bisogni
provenienti dalla società civile.
“Il regime si difenda / diceva il presidente”, ripeteva il testo di una
canzone della destra militante di quegli anni che intendeva denunciare la
strategia correlata al clima di “unità nazionale”. Ovvio che la storia non si
ripete mai tranne, come diceva Marx, con un inevitabile passaggio dalla tragedia
iniziale alla farsa successiva. Ma che qualcuna di quelle intenzioni liberticide
possa essere circolata nella mente di chi ha avanzato la recente proposta è
legittimo comunque pensarlo.
Secondo noi la questione è però più complessa e riguarda il rapporto generale
con i movimenti in una qualsiasi “società aperta”. C’è infatti una questione di
paradigma che si pone in via
preliminare e che supera le stesse polemiche sulla legittimità o meno di nuovi
movimenti. In altre parole: il dissenso, l’opposizione, il conflitto aperto e
consapevole, la contestazione civile, la messa in discussione, il pensiero
critico, l’alternativa come prospettiva sempre presente, sono elementi
fisiologici oppure patologici di un assetto politico definito? Siccome per noi sono
un dato fisiologico e, anzi, proprio l’assenza di questi elementi definirebbe
come antipolitico e illiberale un ordinamento che ne fosse privo, diventa
necessario spiegare una volta per tutte che una corretta prassi democratica si
definisce solo e soltanto attraverso il principio dell’integrazione continua.
Non esiste insomma un ordinamento eterno e immutabile che definisce la
normalità legittima della forma politica.
Purtroppo, invece, ogniqualvolta nel dibattito pubblico si pronuncia la
parola “integrazione” il riflesso condizionato scatta nel pensare a una “concessione”
rispetto allo standard fisiologico, all’estensione di qualche diritto a chi,
almeno inizialmente, si porrebbe fuori dell’uno o l’altro recinto del patto sociale. Storicamente, ci si può rifare, ad
esempio, al processo di “integrazione” che si determinò nella fase terminale
dell’impero romano, quando gli imperatori concedevano ai popoli germanici
ospitalità, l’assegnazione di terre, incarichi e anche titoli e ruoli di
responsabilità. Sulla stessa linea semantica, per venire invece alla modernità,
si percepisce la “integrazione” di minoranze, culturali, etniche, religiose,
all’interno degli Stati e delle entità pubbliche. Ma in realtà, a ben vedere,
il concetto di “integrazione” in senso proprio andrebbe concepito in quanto tale
soprattutto quale alternativa concettuale all’idea della coesione sociale e
nazionale all’interno di una sovranità pubblica (e politica) intesa come unità
organica etnico-culturale. All’interno
di una visione di autentica “società aperta” l’integrazione non è (e non può
essere) una “concessione” ma è anzi la dinamica
costituente di qualsivoglia entità politica. L’integrazione è semmai la
risposta che la politica fornisce di volta in volta ai conflitti e alle emergenze,
sempre inedite e spesso imprevedibili. Non di tratta, insomma, di una sorta di
sanatoria che farebbe rientrare nella normalità una o più categorie sociali o
di fenomeni emersi spontaneamente, ma la naturale risposta politica alle novità che la realtà propone continuamente
di volta in volta. Sappiamo bene infatti che l’insieme delle persone che
rientrano nell’assetto di una società libera attraverso lo status specifico di “cittadini” hanno il riconoscimento di un legame sociale dal quale scaturiscono
sia diritti (come il diritto di voto, i diritti di libertà) sia doveri (di
solidarietà economica e di partecipazione politica) e questo insieme di persone
che è la società si distingue nettamente dal concetto generico di popolazione,
il quale identifica più genericamente solo coloro che risiedono,
temporaneamente o casualmente, in un determinato territorio garantito da una
sovranità politica. E in questa visione l’integrazione è il processo attivo e
positivo che fa in modo che queste dinamiche entrino in un percorso virtuoso ed
efficace politicamente.
Ovvio che tutto questo ha
dietro di sé una consapevole percezione culturale, una specifica visione della
politica e della stessa libertà. Che è
poi quella della libertà “come politica”, riassumibile grosso modo nella linea
teorica che va da Machiavelli a Hannah Arendt. È stato Machiavelli infatti a
rifiutare i modelli di Stato eternizzato e chiuso, di assetto pubblico definito
una volta per tutte, di unità organica etnico-socio-culturale. Machiavelli,
guardando all’effettuale, alla storia reale, ha invece invitato a concepire il
conflitto e i conflitti come il motore e la dinamica della libertà. Egli, per
primo, ha fatto l’elogio del conflitto,
il fenomeno che dà vita a una comunità politica, e origina con questo l’esperienza
stessa della libertà. E in questo il padre della scienza politica moderna attacca
frontalmente qualsiasi visione di società chiusa e autosufficiente (alla
Menenio Agrippa) che valorizza a torto il mito della concordia e della
pacificazione della città come obiettivo e archetipo della politica. Il
conflitto – Machiavelli parla nei suoi testi di “disunione” – è invece la
condizione di possibilità della libertà, perché la negatività, la conflittualità
emergente attraverso questioni e problematiche sempre nuove, è in realtà la
garanzia del soggetto di arginare il desiderio di dominio assoluto dei potenti,
aprendo di volta in volta a nuove e inedite integrazioni. “Tutte le leggi
favorevoli alla libertà nascono solo dalla opposizione”, annota Machiavelli nel
suo capolavoro, Il Principe.
E, ancora più esplicitamente,
il Segretario fiorentino scrive nei suoi Discorsi
sulla prima Deca di Tito Livio: “Io dico che coloro che dannono i tumulti
intra i nobili e la plebe mi pare che biasimino quelle cose che furono prima
causa del tenere Roma e che considerino più a’ romori e alle grida che di tali
tumulti nascevano, che a’ buoni effetti che quelli partorivano”. In altre
parole, Machiavelli, guardando alla libertà, stima che la legge non sia l’opera
di un legislatore saggio o di un modello eterno e archetipico di regime ideale,
ma che nasca dall’esistenza stessa dei conflitti e della necessità di integrare
di volta in volta nuove soggettività. Questo implica il riconoscere il fato che
nella genesi e nella genealogia continua della legge, Machiavelli privilegi il
“desiderio di libertà” del popolo, che, per destinazione, è costituito “per
guardia della libertà”. Per lui, insomma, esiste libertà solo lì dove una
repubblica non reprime le opposizioni, le tensioni, i conflitti, le agitazioni,
le richieste di partecipazione, ma, al limite, le suscita, le accoglie, le
disinnesca, le invera, le “integra”.
Nel Novecento è stata Hanna
Arendt, in particolare nel saggio Vita activa,
a concepire la libertà (e quindi anche l’integrazione) proprio in questa stessa
accezione. Tutta la sua riflessione politologica si basa del resto sulla
distinzione tra polis (il regno della
libertà, della conflittualità costituente,
dell’emergenza continua di nuovi cominciamenti) e oikia (famiglia, mondo delle necessità biologica e della sicurezza
pre-politica, presunta identità etnico-culturale data una volta per tutte). C’è
quindi tutta una concezione della politica che conduce a guardare al concetto
di integrazione come chiave del legame sociale e politico. Non è, insomma,
tanto una questione di “concessione” (o estensione) di diritti o di
cittadinanza, o di regolarizzazioni e legittimazioni, ma integrare è la modalità migliore per delineare e riconoscere il legame politico, sociale, economico e
civile dei cittadini all’interno di un assetto libero, repubblicano e partecipato.
Non esiste differenza tra partiti (vecchi) e movimenti (nuovi). Dovrebbe essere
la libertà stessa a dare forma e sostanza alle soggettività politiche che di
volta in volta nascono esprimendo, quantomeno all’inizio, dissenso, rappresentanza
di conflitti, posizioni critiche, tensioni verso alternative possibili.
i massoni che per vent'anni hanno fatto in politica i finti nemici di giorno e poi di notte si spartivano amichevolmete appalti e mazzette ora, di fronte all'irrompere del nuovo grazie a coloro che hanno capito l'imbroglio, fanno pace e governano insieme e, insieme, cercano con apposite leggi di estromettere il nuovo dal parlamento: se prima non si pone (ed affronta e risolve) la questione massonica ("...è la massoneria il vero partito della borghesia", diceva A.Gramsci) è inefficace ogni lotta politica e, nella sostanza, impossibile qualunque cambiamento che non rientri nei programmi della borghesia e del suo vero partito
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