mercoledì 29 maggio 2013

Ma il futuro è il neocalcio, lo dimostra anche la finale di Coppa Italia


Giovanni Tarantino

Visto “da sinistra” il mondo della curva deve avere una carica di significati particolari, soprattutto quando l’osservatore e lo studioso è magari un tifoso “laziale”. Avete letto bene: “laziale”, come lo sono, ad esempio, gli Irriducibili, attivi fino a qualche tempo fa, o come l’ex Banda de’ Noantri, oppure come il leggendario “Cml ’74. Lazio über alles”. Ma, come abbiamo già detto, nel caso degli osservatori in questione la sensibilità “politica” è assai differente. Ci riferiamo ad Antonio Smargiasse e Guido Liguori, studiosi rispettivamente di storia del cinema e storia delle dottrine politiche, entrambi laziali e “di sinistra” oltre che firme del quotidiano “comunista” il manifesto. Oltretutto, Smargiasse è stato una delle voci di “Lazio.Net”, la web community biancoceleste meno vicina alle posizioni della Curva Nord, negli anni del dominio degli Irriducibili. Un dato che, tuttavia, non gli ha impedito di analizzare alcuni fenomeni di degenerazione del calcio moderno, ponendosi, di fatto, in sinergia con le istanze del mondo ultras, movimentista per vocazione, e quindi, in fin dei conti non allineato alle vecchie logiche di appartenenza “destra e sinistra”.
Smargiasse e Liguori qualche anno fa intervennero sulla necessità di ridefinire l’intero mondo del calcio nel libro Calcio e Neocalcio. Geopolitica e prospettive del football in Italia (edizioni “manifesto libri”, pp. 175, euro 18,00). I due giornalisti parlavano esplicitamente di “neocalcio”, ritenendo superato il concetto contemporaneo di “calcio moderno”: «Gli ultras, che ne sono oppositori risoluti, usano ­ sostengono i due – l’espressione calcio moderno. A noi sembra invece più appropriata l’espressione neocalcio, in primo luogo perché la fase attuale si configura per taluni aspetti come post-moderna: “moderno” infatti indica un periodo storico iniziato alcuni secoli fa e per taluni ormai superato da tempo… Il prefisso neo suggerisce di concentrare l’attenzione sulle novità del fenomeno in questione. Calcio moderno indica una scansione temporale (peraltro errata), neocalcio sottolinea invece i cambiamenti intervenuti via via nell’universo calcistico». Secondo i due studiosi il passaggio dal vecchio calcio novecentesco al neocalcio sarebbe infatti tuttora in corso e risulterebbe difficile stabilire una precisa data di inizio del processo, ma il neocalcio, in definitiva, sarebbe caratterizzato dall’industrializzazione del calcio, e dalla commercializzazione dello stesso, fortemente connessa alla diffusione del calcio televisivo e al ruolo degli sponsor, che va diventando sempre meno uno sport e sempre più uno spettacolo. Con Antonio Smargiasse abbiamo allora discusso direttamente delle maggiori problematiche legate ai cambiamenti del calcio italiano e non solo…

In diversi ambienti legati al tifo, non necessariamente ultras, e agli appassionati di calcio è riscontrabile un’avversità e un’ostilità verso il cosiddetto calcio degli anni Duemila. Qualcun altro, come il sociologo Pippo Russo aveva parlato dell’invasione dell’ultracalcio, parafrasando L’invasione degli ultracorpi di Don Siegel. Voi lo avete chiamato neocalcio. Definiamolo…

È un problema che investe più soggetti che a loro volta hanno motivi diversi per porsi in opposizione a un’eccessiva industrializzazione del calcio. Una delle ragioni principali è quella che il calcio, e questo da tempo, non viene più concepito come uno sport da varie componenti del mondo del tifo. L’ultras è l’elemento più facile da capire. Nati in Inghilterra negli anni ’60, in forte rottura con il tifo “semplice” e tradizionale delle tribune, i primi ultras erano provenienti dai quartieri periferici, dal sottoproletariato e tra di loro c’era una forte coesione sociale. Il movimento hooligans in Inghilterra, e successivamente quello ultras in Italia, era costituito da bande giovanili, quelle degli anni ’60-’70 che portarono il tema della contestazione negli stadi, non volendo più essere spettatori ma protagonisti degli stadi nella curva: una rottura rispetto al passato.




 E in Italia cosa è successo, invece?

I gruppi italiani furono da subito una imitazione delle organizzazioni politiche (le varie Brigate, ecc.), fenomeno dapprima spontaneo e poi cavalcato fortemente da forze politiche antisistema, di estrema destra ed estrema sinistra. Dagli anni ’80 in Europa il calcio diventa prevalentemente televisivo: i tempi di gioco sono sempre più caratterizzati dalla televisione, ciò che conta è l’immagine. Fino a giungere al modello Sky, ostracizzato all’estremo dalle curve italiane.

Ma il neocalcio, così come voi lo designate, ha un’accezione valoriale esclusivamente negativa? E come vi ponete rispetto al deficit di democrazia che investe i processi di modernizzazione del calcio nostrano?

Noi contestiamo l’avversione al neocalcio in quanto questo rappresenta a nostro modo una possibilità di democrazia. Ci sono diversi presidenti di serie A che devono puntare tutto sul proprio portafoglio che però evidentemente non vale quanto quello di Moratti dell’Inter, giusto per fare un esempio. Così i giocatori migliori delle squadre di seconda fascia, che definiamo subalterne, finiscono per essere ceduti alle grandi. Il problema è passare dalle premesse del neocalcio a una democrazia reale. Il neocalcio punta a una distribuzione equa delle risorse e infatti il modello che indichiamo è quello dell’Nba statunitense dove sono state poste delle regole in maniera tale che anche chi dispone di grandi capitali non li può spendere tutti o quasi per fare la squadra che gli pare. In questo modo il campionato è molto più equilibrato. Allo stesso modo se questo sistema venisse applicato anche in Italia assisteremmo finalmente ad incontri più spettacolari perché imprevedibili e lo scudetto non sarebbe più un affare riservato a tre soli club su venti. Ecco cosa vuole offrire il neocalcio: qualcosa che ridisegni la staticità del nostro calcio. Il neocalcio vuole proporre movimento. Mentre così com’è la nostra industria calcistica sta perdendo competitività.

Lo scandalo di “calciopoli” , che pure sembrò essere da premessa per una riforma del mondo del calcio dalle fondamenta, pare che non abbia contribuito affatto a dei miglioramenti verso una democraticizzazione del movimento.

Con “moggiopoli”, è meglio chiamarla così, non era cambiato tutto ma è cambiato molto. A differenza della Juventus di Gianni Agnelli e Boniperti che disponeva di grandi risorse, quella di Moggi e Giraudo doveva sopravvivere di ciò che produceva. Ma allo stesso modo doveva vincere. Così la struttura criminale architettata da Luciano Moggi serviva a tenere a distanza le milanesi che potevano spendere di più. In parte si sono verificate forme di complicità col Milan, mentre invece chi ne ha fatto le spese è stata l’Inter.

Gli ultras si fanno spesso portatori di un messaggio di autenticità e di valori in un mondo, come quello del calcio, che è sempre più industrializzato. Molti ragazzi delle curve si battono in difesa delle loro maglie, pretendendo che gli sponsor e i partner commerciali non ne modifichino le caratteristiche originali come quelle cromatiche. Altri si battono per il ripristino della numerazione da 1 a 11. Altri ancora vorrebbero la Coppa dei campioni vecchio stile e non l’attuale Champions League. E a questi temi sono sensibili anche molti appassionati e tifosi normali, non necessariamente di curva. Dinanzi a queste problematiche quali sono le possibili soluzioni verso un calcio più a dimensione di tifoso?


Ritengo che gli ultras potevano diventare un soggetto che lavorasse verso forme più democratiche di calcio. Non esistono codici di comportamento e quindi è difficile dire “cosa fare”. Bisogna capire però che il calcio è soprattutto emozione. Pertanto ridiamo spazio alla fantasia, al disincanto e alla gioia. Sviluppiamo il senso dell’identità, la parte più apprezzabile della filosofia ultras. E cerchiamo di andare oltre. È necessario che il calcio cambi, altrimenti si tiferà solo per cinque squadre negli anni a venire. Quindi il mio suggerimento è preciso: manteniamo l’identità ma sviluppiamo coscienza critica.

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