sabato 4 maggio 2013

Le donne liberate tra Chanel e la tv guardona in Danimarca





Annalisa Terranova

Una mostra celebra proprio in questi giorni (dal 5 maggio al 5 giugno) al Palais de Tokyo di Parigi il mitico profumo Chanel n.5. Oggi un classico, ieri una fragranza d’avanguardia che aveva la missione di rompere lo schema dell’eleganza all’acqua di colonia per parlare di seduzione. Quel profumo, creato dal profumiere degli zar Ernest Beaux per la grande Coco Chanel, doveva essere moderno (vennero usate sostanze sintetiche), un manifesto astratto realizzato con 80 componenti, doveva avere un fascino inimitabile che infatti si perpetua dagli inizi degli anni Venti. Insomma fu un profumo a suo modo “femminista”, perché una donna che si prende cura di sé comincia già un processo di emancipazione. Una donna che sceglie un profumo che la renda più attraente, che vuole piacere e piacersi, difficilmente si farà rinchiudere tra le mura domestiche. Ma questo tipo di donna insegue la “liberazione” con armi tutte femminili, senza fare ricorso ad alcuna ideologia che non sia la delicata filosofia delle vanità espressa dalla scrittrice Orsola Nemi: “La vanità delle vanità mi spinge ad amare le cose più vane, a mettere la mia gioia nel perfettamente inutile, la mia delizia in quello che è labile. E’ un dominio che nessuno contesta; v’è sempre tanta gente indaffarata e ansiosa di addossarsi i lavori pesanti…”.   La rivoluzione estetica comincia dalla toletta e dal guardaroba: basta con le mamme castigate e spettinate, avanti con le donne di “stile”. Tutto ciò potrà apparire datato e anacronistico. Eppure ci sarebbe bisogno di recuperare una certa idea arcaica della femminilità, quella che non ha bisogno dell’approvazione maschile per affermarsi, proprio in tempi in cui la donna è mortificata e calpestata nella sua dignità sia perché non si accetta la sua condizione di libertà sia perché essa si trova a competere con la micidiale combinazione di profitto e piacere che regge oggi le sorti dell’etica.
Giunge infatti notizia dalla Danimarca di uno show della tv pubblica in cui una ragazza si spoglia e si lascia osservare da due maschi seduti su un divano. Lo scopo? Commentare l’estetica del corpo femminile senza scadere nella pornografia e senza trascendere nel politicamente corretto. Non farò del moralismo su questo, anche se moralista non è per me una parolaccia. Mi chiedo però se questa sia l’ultima desolata frontiera dei modelli scandinavi tanto esaltati come rispettosi dei diritti delle donne e degli equilibri delle pari opportunità. In cambio degli aiuti statali alle madri si dovrà passare sopra alla mortificazione delle femmine esposte come i prosciutti dal salumiere? Quelli esibiti poi che corpi sono? Palpita in loro ancora un’essenza femminile che si possa cogliere nella sua unicità senza giudicare la rotondità delle singole forme? Senza una goccia di Chanel n.5, senza l’abitino nero che per Irene Brin era la leva di ogni guardaroba, senza voglia di sedurre e di compiacersi ma solo di comparire, quei corpi non sono solo pezzi di carne che al limite possono solo suscitare indifferenza? 

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