Annalisa Terranova
Una mostra celebra proprio in questi
giorni (dal 5 maggio al 5 giugno) al Palais de Tokyo di Parigi il mitico
profumo Chanel n.5. Oggi un classico, ieri una fragranza d’avanguardia che
aveva la missione di rompere lo schema dell’eleganza all’acqua di colonia per
parlare di seduzione. Quel profumo, creato dal profumiere degli zar Ernest
Beaux per la grande Coco Chanel, doveva essere moderno (vennero usate sostanze
sintetiche), un manifesto astratto realizzato con 80 componenti, doveva avere
un fascino inimitabile che infatti si perpetua dagli inizi degli anni Venti.
Insomma fu un profumo a suo modo “femminista”, perché una donna che si prende
cura di sé comincia già un processo di emancipazione. Una donna che sceglie un
profumo che la renda più attraente, che vuole piacere e piacersi, difficilmente
si farà rinchiudere tra le mura domestiche. Ma questo tipo di donna insegue la
“liberazione” con armi tutte femminili, senza fare ricorso ad alcuna ideologia
che non sia la delicata filosofia delle vanità espressa dalla scrittrice Orsola
Nemi: “La vanità delle vanità mi spinge ad amare le cose più vane, a mettere la
mia gioia nel perfettamente inutile, la mia delizia in quello che è labile. E’
un dominio che nessuno contesta; v’è sempre tanta gente indaffarata e ansiosa
di addossarsi i lavori pesanti…”. La
rivoluzione estetica comincia dalla toletta e dal guardaroba: basta con le
mamme castigate e spettinate, avanti con le donne di “stile”. Tutto ciò potrà
apparire datato e anacronistico. Eppure ci sarebbe bisogno di recuperare una
certa idea arcaica della femminilità, quella che non ha bisogno
dell’approvazione maschile per affermarsi, proprio in tempi in cui la donna è
mortificata e calpestata nella sua dignità sia perché non si accetta la sua
condizione di libertà sia perché essa si trova a competere con la micidiale
combinazione di profitto e piacere che regge oggi le sorti dell’etica.
Giunge infatti notizia dalla
Danimarca di uno show della tv pubblica in cui una ragazza si spoglia e si
lascia osservare da due maschi seduti su un divano. Lo scopo? Commentare
l’estetica del corpo femminile senza scadere nella pornografia e senza
trascendere nel politicamente corretto. Non farò del moralismo su questo, anche
se moralista non è per me una parolaccia. Mi chiedo però se questa sia l’ultima
desolata frontiera dei modelli scandinavi tanto esaltati come rispettosi dei
diritti delle donne e degli equilibri delle pari opportunità. In cambio degli
aiuti statali alle madri si dovrà passare sopra alla mortificazione delle
femmine esposte come i prosciutti dal salumiere? Quelli esibiti poi che corpi
sono? Palpita in loro ancora un’essenza femminile che si possa cogliere nella
sua unicità senza giudicare la rotondità delle singole forme? Senza una goccia
di Chanel n.5, senza l’abitino nero che per Irene Brin era la leva di ogni
guardaroba, senza voglia di sedurre e di compiacersi ma solo di comparire, quei
corpi non sono solo pezzi di carne che al limite possono solo suscitare
indifferenza?
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