martedì 28 maggio 2013

Robert Capa, un secolo fa. Torino celebra i suoi scatti


Chiara Coco


Aveva venticinque anni quando la rivista inglese Picture Post lo proclamò “il miglior fotografo di guerra del mondo”, pubblicando undici sue foto scattate durante la guerra civile spagnola. Lui è Endre Friedmann, ma questo nome non è noto a nessuno, tutti piuttosto lo conoscono come Robert Capa, quel nome che scelse assieme alla sua compagna e fotoreporter Gerda Taro, per pubblicare le sue foto in Europa, fingendo che si trattassero di scatti di un fotografo americano di successo, affinché il compenso fosse maggiore. Il trucco, che fruttò ai due un bel gruzzoletto, venne presto scoperto e da allora Endre iniziò regolarmente ad usare quel nome dimostrando di essere all’altezza della sua reputazione, sempre pronto, sempre in prima linea, con quel misto d’incoscienza e di coraggio che contraddistingue i corrispondenti di guerra. Nato a Budapest nel 1913, ancora molto giovane fu costretto a lasciare l’Ungheria perché coinvolto nelle proteste contro il governo autoritario. A poco meno di vent’anni approdò in Germania, da cui dovette fuggire nel ’33 a causa delle sue origini ebraiche. A Parigi, città che in quegli anni attraeva a sé migliaia di fuoriusciti da tutta Europa con il suo fervore artistico e intellettuale, Endre incontra Gerda Taro; i due partono in Spagna per seguire direttamente gli sviluppi della guerra civile durante la quale la fotoreporter morirà a soli ventisei anni, investita da un carro armato amico, mentre con i repubblicani cercava di mettersi al riparo dai bombardamenti.
                                  
Robert continua solo il lavoro iniziato, nel ’38 si stabilisce a Barcellona sotto i bombardamenti, sarà il ’38 appunto l’anno della glorificazione da parte del Picture Post e di altre testate giornalistiche; eppure la fama di Robert Capa resta una trappola che in qualche modo non gli rende giustizia. Dopo la guerra di Spagna, Capa documenterà l’invasione giapponese della Cina, sarà presente durante lo sbarco delle truppe alleate in Sicilia, durante il D-Day, durante la prima Guerra arabo-israeliana e nella Guerra d’Indocina, durante la quale perderà la vita a soli quarantuno anni, quando intento a scattare fotografie finirà su una mina saltando in aria. Egli diventerà famoso per quegli scatti che catturano all’istante la brutalità della guerra, come ad esempio la foto de “miliziano colpito a morte”, foto la cui autenticità è stata a più riprese contestata, che spesso e volentieri è comparsa nelle nostre vite di studenti tra le pagine di un qualche sussidiario, riprodotto in poster e anche in adesivi. Di Capa colpisce il fatto che dietro l’obbiettivo del “più grande fotografo di guerra del mondo”, abbiano sfilato assai più spesso dei morti e dei feriti, i vivi in carne e ossa, gli esiliati, i profughi. C’è qualcosa nell’ineluttabilità della morte che può portare a nulla di più che all’amara rassegnazione in quanto l’uomo può solo immedesimarsi in chi come lui è vivo, non in chi già non c’è più. È nell’uomo, nel bambino che è in vita che ci si può identificare, non nel corpo dilaniato da una bomba. Posso riconoscermi nel volto pieno di paura di una bambina che stringe la mano alla madre mentre corrono verso un rifugio antiaereo, oppure nella testa bassa di una donna francese, costretta a sfilare per le strade di Chartres con la testa rasata per aver avuto un figlio da un soldato tedesco. Il mio disagio, ciò che mi punge, il puntum come lo definisce Roland Barhes, non è la gamba ferita di una bambina ma il fatto che la bambina sia viva nonostante la gamba ferita, non è la gran mole di soldati che sfilano, ma il fatto che quei soldati siano bambini a renderli ancora più terrificanti. Questo Robert Capa l’aveva ben capito, scatti discreti di momenti quotidiani dei paesi in guerra, l’attenzione accordata agli sguardi e ai primi piani dei volti di chi sopravvive, era questo per lui il miglior modo di giungere sino a noi, il miglior monito possibile, per tenere a mente che la guerra c’è ed è vicina anche quando non vogliamo vederla, esiste e non è cosa che non ci riguarda. (twitter@Chiara­_Coco)

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