Luciano Lanna
La crisi culturale della
sinistra e il disorientamento del Pd, la scomparsa (l'estinzione?) politica della destra di
derivazione missina, l’eclissi del centro cattolico e laico, l’apparente e
temporanea tenuta della lobby politica berlusconiana, la battuta d’arresta dei
grillini, il compiacimento rassegnato di chi verrà comunque eletto nei comuni ma
con pochi consensi… Mentre i media commentano a suon di luoghi comuni e
interpretazioni ad hoc gli ennesimi
risultati elettorali, l’equivoco di fondo sul significato della politica continua
ad aleggiare in tutta evidenza. Nel momento stesso in cui, infatti, s’affermano
in crescendo pulsioni e reazioni almeno apparentemente antipolitiche – dalla
disaffezione costante sino all’astensionismo consapevole, quello per cui solo a
Roma non ha votato un elettore su due – appare evidente che per i più la lotta politica
è ormai percepita solo come una questione “di casta”, come l’insieme delle
azioni (propagandistiche, di comunicazione, mediatiche, di mobilitazione
attraverso contatti porta a porta o davanti ai mercati) per assicurarsi,
conquistarsi e poi mantenere e gestire il potere. Un qualcosa che di per sé è
inevitabilmente distante dalle problematiche dei cittadini e di quasi esclusiva
pertinenza dei partiti e delle oligarchie di apparato. E questa è purtroppo, una
considerazione che, per quanto diffusa e generalizzata, esprime in realtà
esattamente l’opposto di ciò che storicamente in Occidente è stata la cosiddetta
invenzione della politica.
Vale la pena ricordarlo: la
politica, ovvero l’insieme delle attività specificatamente umane che gravitano
attorno alla polis (la città), è
scaturita nella Grecia del quinto secolo quando s’è verificato lo scarto civile
tra il regno della libertà (la polis)
e l’intelaiatura dei rapporti di potere consolidati e gerarchizzati tipici
della famiglia e delle entità di clan, di gruppo etnico o di corporazione
professionale in cui prevaleva la necessità d’ordine biologico e deterministico
(regno della necessità). La politica autentica non è insomma la tecnica e la
fisiologia dei sistemi di potere. Essa nasce quando nelle città-stato greche al
di sotto dell’acropoli, la cittadella
fortificata dove aveva sede il potere tradizionale degli arconti, prende corpo
l’agorà, la città bassa con il suo
intrico di stradine popolate, dove si affacciavano le botteghe degli artigiani,
dove i mercanti presentavano le bancarelle con le merci, dove si allestiva il
teatro e dove – proprio in quello spazio – si riuniva l’assemblea dei cittadini
per discutere e prendere decisioni pubbliche. Cuore pulsante economico,
produttivo, commerciale, creativo e partecipativo, l’agorà esprimeva così la
libertà e l’invenzione della politica: mercato più teatro, più partecipazione e
cittadinanza attiva.
La politica infatti non è,
lo ripetiamo ancora, l’esercizio del potere, non è la realpolitik di chi si penserebbe smagato e scafato nella conoscenza
delle alchimie per mantenersi al potere. Identificare la politica, come in
molti oggi fanno, solo con la lotta per la conquista e la pratica del potere
significa infatti perdere di vista l’essenza genetica ed energetica della
stessa politica. La politica è semmai la capacità di inventare delle forme,
degli spazi, dei tempi dell’azione pubblica in cui i ruoli prefissati
dell’ordine dominante cambiano fisiologicamente. Vale infatti quanto sostiene
il filosofo francese Jacques Rancière, secondo cui la politica è “il perenne
tentativo di dislocamento precario dell’ordine dato che mette ognuno al suo
posto sotto il comando di quelli che sono designati a governare per ragioni di
nascita, di ricchezza o di competenza. La politica esiste nello scarto che
afferma l’uguale capacità di tutti e l’assenza di ogni fondamento per il
dominio”.
Ha quindi ragione un “leninista
libertario” (non c’è forse ossimoro migliore per definire il suo approccio alla
prassi politica) quale Peppe Nanni quando sostiene che il surreale dibattito
politico-elettorale italiano degli ultimi tempi riesce a far emergere solo un
paradosso di fondo: “La politica, che dovrebbe essere il protagonista, è invece
il grande assente delle campagne elettorali celebrate in suo nome: la scena appare
infatti vuota, e l’enfasi personalistica che si ripropone stancamente non
riesce più a dare corpo al fantasma di un ceto di eletti che i più tendono a
non riconoscere…”. L’urgenza del desiderio di politica, aggiunge Nanni, lascia oltretutto
come ineludibile “la domanda posta da un insistente desiderio, diffuso
molecolarmente, consistente e sempre più consapevole, di partecipazione attiva
a una vita pubblica che deve reinventare i suoi spazi, le sue articolazioni
istituzionali, il suo inconfondibile linguaggio”. Come a dire: guardate che la
politica non è il teatrino mediatico posto in essere dagli eletti e dagli
eleggibili e funzionale solo alla conquista e al mantenimento di equilibri di
potere e alla geografia delle “casematte” in gioco (la destra, la sinistra, il
centro, i partiti, le coalizioni, le liste…) che aspirano a “tenere” compatti
presunti elettorati di riferimento e così ottenere legittimazione al fine di occupare
il potere.
Ma la politica, senza
pervenire agli eccessi da anni Settanta del “tutto è politica”, è infatti qualcosa
di più ampio e di più importante dell’orizzonte parlamentare o elettivo: dovrebbe
essere la capacità di partecipare attivamente e liberamente alle scelte della polis. Un diritto e un dovere che
esprime una prassi di per sé inclusiva, osmotica con la società e la vita delle
persone, partecipata e democratica, sempre aperta e in itinere, diffidente e altra rispetto ai recinti, agli steccati,
agli apparati chiusi e autoreferenziali. Un diritto e un dovere, quello della politica, che è di ogni singolo
cittadino più che dei partiti, degli schieramenti, delle coalizioni, delle
parti più o meno surrettiziamente contrapposte e delle stesse presunte
appartenenze. Ecco perché, invece di accontentarsi dei risultati dei
ballottaggi, tutti – chi vincerà e chi perderà – dovrebbe mettersi in moto soprattutto
per riaccendere tra le persone la voglia autentica di partecipazione attiva. Sta qui – e non nella scomparsa (o nella presunta
rinascita) della sinistra, del centro o della destra, semplici oligarchie
mascherate da coperture ideologiche e d’appartenenza – il cuore profondo della
“crisi italiana”.
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