giovedì 30 maggio 2013

Giuseppe Rensi, il filosofo che negli anni Venti riscoprì lo scetticismo contro tutti gli assoluti



Fabrizio Baleani

La storia del pensiero non sfugge alla sforbiciante inesorabilità delle convenzioni e assegna spesso la scena della notorietà al movimento filosofico ufficiale liquidando le voci anticonformiste. A qualche sconosciuto di valore è concesso d’emanciparsi da un’ultradecennale scorza d’oblio, grazie ad interventi estemporanei, confezionati da alcune celebratissime teste influenti della penisola.
Ma più che alla conclamata nobiltà d’animo degli esponenti dell’establishment culturale italiano, i proscritti d’ogni latitudine debbono la loro riscoperta a chi sa far correre lo sguardo dove s’esercita  la miopia delle maggioranze rumorosissime.
Piccoli editori e curatori d’occasione ricordano, meglio d’un accademico seduto sulla propria celebrità e sulla schiavitù dei suoi subordinati, il senso della parola ricerca.
Ed è stata proprio una casa editrice anconetana, la Gwynplane, a mettersi sulle tracce di un’originale trattazione del concetto di lavoro firmata da Giuseppe Rensi.
Contro il lavoro è il titolo con cui viene riproposto un saggio degli anni Venti, L’irrazionale, il lavoro, l’amore.
Rensi nacque a Villafranca di Verona nel 1871. Dopo la  laurea in Giurisprudenza, si trasferì a Milano e aderì al Partito Socialista. Da giovane giornalista ventitreenne,  assunse la direzione del giornale Lotta di Classe, collaborando al contempo con  Critica Sociale di Filippo Turati. La repressione, seguita ai tumulti del 1893, lo costrinse a riparare nel Canton Ticino. Tornò in Italia, nel 1908, e cominciò a studiare i fondamenti teorici del diritto e dell’etica. Vinse la cattedra di Filosofia Morale presso il Magistero di Firenze. Qui rimase sino al 1918, anno in cui si diresse a Genova per stabilirsi definitivamente, nel capoluogo ligure. Le degenerazioni di quegli anni, culminate con l’esperienza bellica, lo indussero, sulle prime, a cercare nel nascente fascismo, un “socratico” rimedio agli eccessi dell’epoca. Ma la maturazione di un pensiero “antidogmatico”  gli costò l’allontanamento dalle aule universitarie nel 1927. L’attualità del pensatore italiano consiste nell’aver recepito uno dei più stabili connotati d’una certa fase “critica” del pensiero europeo: lo scacco dei grandi sistemi  tradizionali, di stampo positivistico e idealistico, di fronte alla tragicità della guerra e a un “filosofare” non all’altezza dei rivolgimenti del “vivere”. Dopo il primo conflitto mondiale, i guadagni teorici sembravano muti rispetto all’evoluzione  precipitosa e inafferrabile della storia.  Inoltre, i resti di un“ periodo sanguinoso forsennato, pieno di macerie ”, “incomparabilmente sismico”, mal s’adattavano, secondo il pensatore veronese, alle elaborazioni  dottrinarie che pretendevano d’apporre il proprio marchio di vittoria sul desolante panorama di una faticosa ricostruzione spirituale. L’attenzione all’anatomia di un presente lacerato, frammentario, dominato da un “agone fratricida” di motivi e umori parziali convinti d’incarnare “la Ragione Universale”, assurse, nella meditazione del filosofo veneto, a metodo d’analisi consistente nell’opposizione ai fondamenti imperativi e “inconcussi” di tutti i territori del sapere. L’impegno di Rensi fu sempre mosso a educare, nei giovani, quella feconda attitudine critica che rifiuta di riconoscere, a proposizioni consolidate, una validità permanente.  Il mondo ideologico primo-novecentesco gli appare come un “pluriverso”, scisso in inconciliabili antinomie, caratterizzato dal fronteggiarsi di valori e principi contrastanti. Il polemos gli appariva un contrassegno ineludibile sul dorso di quegli anni frenetici. Nello scritto La guerra e l’assolutismo, la follia della devastazione bellica è indicata come il crollo della grandiosa messa in scena razionalistica e come prova dell’inesistenza d’una comunità e universalità di ragione. Le accelerazioni dalla “più compiuta e tragica esperienza di massa” avrebbero condotto “le idee a mutare e involvere in casacche” rispondendo “alla chiamata di un intimo assolutismo della Ragione”. Gli uomini “catturati dall’incantagione dell’idea,” chiusi nell’uso “meccanico” e “metafisico-concettualistico”  della deduzione logica, sono convinti, tutti, di possedere la verità, rappresentare la giustizia e fuggire la contraddizione. Per questo, essi difendono le loro “evidenze intellettive” a ogni costo.  Nel confronto tra singoli individui, gruppi o nazioni intere, si riverbera “l’isostenia delle ragioni” che portò Eteocle e Polinice ad affrontarsi e a uccidersi. Il conflitto, a giudizio del pensatore veronese, è figlio della credenza che esista un solo spirito e non tanti quanti sono gli uomini.  L’assunzione di un valore metafisico da parte della ragione impiglierebbe, dunque, la mente umana, in un invincibile dogmatismo, di matrice idealistica consistente nella contraffazione della conoscenza e nell’opera di dissimulazione del reale sotto l’onnivora telaragna del razionale.
I neoidealisti italiani  benché radicalizzassero il momento negativo in virtù della costante necessità di allontanamento del dato bruto, di una sua rimozione  nel pensato, e “dell’esigenza di far sparire il contraddittorio” si riferivano alle nozioni totalizzanti e rassicuranti del vecchio idealismo  (L’idea della Verità come imperituro moto ascensionale dello Spirito, dell’Io come Io trascendentale, dello Stato come Stato Etico).
L’esaltazione del processo e dello sviluppo diveniente del pensiero sarebbe una sorta di vernice ideologica sotto le cui tinte policrome si celerebbe il dominio dell’opinione comune, la statuizione di sistemi morali originanti dalla forza ma giustificati come razionali, la prevaricazione del gruppo sociale più numeroso e meglio organizzato volto a rappresentarsi come totalità idealmente  superiore in un “progressivo” e “ artificialmente trionfante” procedere. La critica del soggettivismo razionalistico e del progresso, la denuncia delle sue aporie, delle sue “finzioni”, dei suoi inganni, assume la forma di una feroce polemica antigentiliana. La prospettiva di Rensi  recupera la tensione metafisica dei classici e un severo distacco nei confronti di un’albeggiante modernità.



L’avanzare dell’ ”Assoluto” nella negazione e nel superamento delle sue figure storiche, così come è descritto nella riforma dialettica attuata da Giovanni Gentile, conferisce all’intera vicenda umana il moto, ravvisato dal grande pensatore di Castelvetrano,  di un “Eterno Tantalo che stende la mano ai dolci pomi del reale e non ne coglie mai abbastanza da arrestare il suo inestinguibile desiderio”. Secondo il professore veneto  l’idea che la Storia si debba “ svolgere secondo quella  concatenazione causale preesistente al suo accadere e sia dunque destinata a nuove e incessanti vittorie dello Spirito”, segnalerebbe nell’”hegelismo gentiliano” uno sbilanciamento a favore dell’ottimistica irrefrenabilità dell’avanzamento storico e la sostanziale trasformazione dell’attualismo in una “metafisica della privazione” (stereisis).
Infatti, proclamando il carattere “in perpetuo fieri” della “verità” e della “logica dell’atto”,  Gentile capovolge radicalmente la subordinazione della potenzialità all’attualità, del processo alla meta, stabilita da Aristotele.
L’esito di questa nuova impostazione richiede che nessuna attualità si perfezioni più. Qualunque risultato, ente, presente deve essere forzatamente subordinato al suo movimento senza senso.  Pertanto il corso storico sul quale poggiano “i raggi dello spirito” e il dispiegarsi dell’”assoluto” tra i chiaroscuri del divenire moderno, è mero muoversi cui risulta necessaria l’assenza di raggiungimento.
L’intero orizzonte  della scena umana si dimostra, quindi segnato da un “susseguirsi d’incompiutezza”, un muoversi auto-evidente ma incapace di fondare se stesso, difettoso,vuoto, puro mezzo.
Lo scenario che ne risulta è nominato “assurdo”. La filosofia dell’assurdo è una visione della storia come teatro della contraddizione.
Ogni istante della ripida linearità temporale presenta ripetuti crolli, svelati nella loro tragicità non uniformabile da alcun adattamento razionale. Ciascun attimo forza il presente “a venir fuori da se stesso, ad avvertire di vivere per il poi, per il non ancora”.
L’inabissamento perpetuo, privo di “ credibili spegnitoi dialettici”, è il precipizio di ogni filosofia, la morte di ogni “compaginazione di pensieri ” che pretenda un’autonoma verità,  sviluppandosi sulla via della contraddizione  e di un progressivo “cammino sui carboni ardenti”.
L’immagine di un’azione che attende la sua conclusione in un altrove perennemente inavvicinabile, rimanda al tormento di Sisifo e ritrae una meccanizzazione razionalistica dell’esistenza e della vicenda storica
Il potenziamento del robusto “corpo di concetti” che avvolge la vita per renderla tollerabile, può tornar utile a “consolare gli uomini e il presente, giammai a giustificarli”.
L’indagine rensiana sorge  dal desiderio di comprendere il reale e, al contempo, dal rifiuto di accasare la conoscenza “in una delle frenetiche sistematizzazioni vincolanti del concetto” poiché è “impossibile conoscere veramente la vita”.
L’impasse è annodata ai due lembi di un medesimo fondo “senza scopo e ragione”, ovvero “irrazionale”.  Da un lato il mondo bruto, incatenante, dall’altro il desiderio violento di chiarezza, “il cui richiamo risuona, radicalmente, nell’uomo”.  L’assurdo dipende dunque tanto dall’uomo quanto dal mondo e lega gli esseri “come soltanto l’odio può stringerli gli uni agli altri”.  Il “furore” e la “cecità razionale” che sono “determinismo dell’eloquenza delle cose e dell’auto-evidenza” non  sapranno mai appagare “la richiesta di un assenso in grado di dichiararsi onesto”.
In quell’adesione che il saggista di Villafranca qualifica come “onestà” sono contenuti sia il concetto metafisico della filosofia, col suo inevitabile portato d’insoddisfazione e d’angoscia, sia il concetto relativistico del reale.
Nessuna certezza “positiva” è possibile perché tutto è contingente e mutevole.
L’accoppiamento dei due termini in una dialettica antinomica che non prevede alcuna sintesi  costituisce l’originalità di questa particolare variante d’esistenzialismo.
Non sorprende, dunque, come nella “corsa  appassionata verso una prospettiva più sincera” il filosofo veronese si sia scagliato contro “quell’idealismo giocoliero di idee, propenso a condizionare l’uomo, a prendere il suo Spirito e ciò che in esso si manifesta come l’Assoluto, producendo l’ora violenta, torbida, fanatica, dell’epoca nostra.”
L’autore de La filosofia dell’assurdo  esercita qui il suo limpido sospetto  di pensatore “inattuale” , guardando al versante  “oscuro e notturno”  dei soggetti di trasformazione storica che si fronteggiavano nell’appena nata società dei consumi.
Infatti sotto la tenaglia delle opposte fazioni, “chiese  dell’interesse immanente” egli avverte non il trionfo dell’individuo,  ma il sacrificio estremo di quest’ultimo allo Stato, alla Nazione, alla Classe; idola novecenteschi impregnati di razionalismo.
I miti politici dunque, lungi dal liberare i cittadini, favorendo un rapporto responsabile tra costoro e le istituzioni, ammantano reali condizioni di forza e di subordinazione con la promessa di improbabili palingenesi da compiersi sotto il segno delle più diversificate e contrastanti compagini di vincitori.
Contro tutti gli “inganni” Rensi rinnova l’efficacia negatrice della “scepsi antica”. Il suo “relativismo” non è altro che “lo sforzo di fare epochè”, di sottrarsi al gioco “mortale” delle apparenze, ravvisando la costitutiva caducità d’ogni vacua “essenza” che si metta in cattedra a spiegare l’esistenza. Egli è convinto, in linea con tutto il pensiero negativo d’Europa,”che occorra “sopportare e vedere con chiarezza l’indeducibilità del mondo e il carattere finito e limitato dell’esistere” attraverso “la grave angoscia dell’uomo lucido”.
.  Tutta la  scena visibile, assurda e “colma d’illusioni” spinge  a relativizzare fatti e prospettive a dispetto “della tendenza a inculcare entrambi in un mosaico di formulette verbali pieno di tinte etiche, politiche, gnoseologiche.” Di ciascun conformismo della Storia, del cuore, della Società, della Morale, solo “l’eccezione” sembra interessare Rensi.  Non è azzardato  riconoscere in lui un’irriducibile “ribellione”, che ricalca le imprecazioni di Amleto, l’amara aristocrazia di Ibsen, la rivolta dell’uomo contro ogni “reale precostituito”. L’andare oltre le posizioni correnti è il martello che  demolisce tutte le parole bramose d’ergersi al rango di sistema. Il coraggio di chi nega le sue ragioni alla “ragione” e dirige i propri passi nel mezzo del deserto in cui tutte le certezze sono divenute pietre, “deve sapersi mantenere su creste vertiginose” sperimentando “il passo del funambolo” che nel percorso, irto di pericoli quotidiani, impara a vivere “senza  sotterfugi”. Il filosofo è “colui che ha sufficiente piombo ai piedi per tenere gli occhi aperti sul dolore e sul male, gettando via “le stesse impalcature della dottrina filosofica.”
La versione rensiana di scetticismo comporta l’approssimazione a quella vetta che squarcia il velo di Maya d’ogni “farmaco” o “rimedio” intento a “coprire la croce del presente con la rosa della dialettica, della risoluzione, del bene”.



Ricordando Giacomo Leopardi, definito “il maggior filosofo italiano”, Rensi afferma esplicitamente:

Il Leopardi dice che solo è utile la sommità della filosofia perché ci libera e disinganna dalla filosofia. La sommità della filosofia è lo scetticismo che ci affranca dall’idolo vano della filosofia-verità senza privarci però della gioia della filosofia-arte.

Lo scetticismo “vertiginoso” che non “giace” su alcuna posizione teorica o precetto particolare liquida “la filosofia-verità”, la “ testa di serpente dello Zarathustra”, “la frenesia dell’assoluto”, avverte l’inconsistenza “della fondazione d’ogni vero” , accantona l’imperatività d’ogni morale predeterminata rispetto all’azione concreta, e intende restituire il mondo delle azioni e dei saperi  alla meraviglia degli uomini, sfilandolo dalle mani fragili, di carta e inchiostro, delle  determinazioni metafisiche.
Si dischiude dunque  “lo spazio di sabbia dell’esistenza”  ove “ l’ingegno” “l’ars” consiste nel vivere la possibilità di un’adesione, la comprensione dei suoi limiti, delle sue circostanze specifiche e concrete,  il sentimento dei suoi impeti, delle sue intensità, e   nell’azzardare una fermezza nel terreno malcerto d’ogni opzione, tratteggiando e rivedendo percorsi, senza confidare nella stolta volontà d’esaurire i problemi etici nella capienza mutevole delle idee.
Gli uomini rintracciano, infatti,  solo nel “ vivo e disinteressato  gioco creativo che li metta in gioco”,  la loro “ignuda natura”, ovvero la massima sincerità dell’esistere possibile in un mondo finito.
Solo la speculazione, l’arte, la “dedizione” sono  “il gioco”  rappresentano una  poietica del senso “davvero libera” che “genera i frutti spirituali più maturi”, attività finalizzatrice non adeguabile a una norma esterna, non terminabile “nel dogma eteronomo”, ma rivolto all’autonomia e “all’ingegnosità pratica e teorica” della vita individuale.
Questo agire, puramente disinteressato, si scontra, secondo il villafranchese, con un’altra “antinomia sociale”, un nuovo “nemico della libertà”, il lavoro delle società “meccanizzate e massificanti”.

il lavoro suol dirsi nobilita l’uomo:è poi vero?Sarà utile certo lasciarlo credere ma l’esperienza non lo conferma[…]non pochi dei nostri operai siano abbruttiti senza patria senza decoro, senza idealità alcuna che non sia il mangiare e il bere, a me non fa alcuna meraviglia […]i lavori restano con l’effetto di asservire anche le anime dei più liberi.

L'esaltazione dell'homo faber, nobilitato dal lavoro, si inserisce nella creazione di un nuovo mito contemporaneo, quello dello sviluppo incontrollato delle risorse materiali al servizio dei mezzi della vita economica, all’interno della quale l’uomo diviene  “mezzo di nessun fine”. Si tratta di una condizione “perpetuamente alienante” che nella prospettiva rensiana, densa di scissioni, diviene insanabile.
La società fondata sul lavoro adegua l’esistere a una catena d’interessi, riducendolo a una “desolata landa d’opportunismo, affarismo e carrierismo”.


per evitare di esser messi, non diciamo in una fornace ardente ma in una soffitta o in un appartamento troppo modesto, si adorerebbe qualsiasi statua d’oro di qualsiasi Nabucodonsor: l’eros etico è ucciso dalla preoccupazione esclusiva di profittare di qualsiasi situazione per riuscire, per arrivare, per fare strada […] conservarsi, procurarsi o aumentarsi il pane.

Nella dialettica oppositiva che contrappone un’antropologia liquida contenuta negli “alambicchi della tecnica” e l’inquietudine dello scegliersi ogni istante senza tributi ai “determinismi della macchina sociale”, l’uomo tenta l’opzione di rintracciare la propria “ignuda natura”  E nel disagio dello stare al mondo cerca di conservarla, di difenderne il nucleo di verità dal bla bla del circostante, in quel circuito d’automatismi e riflessi pavloviani dove la dignità è solo un aggregato di bisogni indotti appesi a una funzione, a un compito strumentale, a una qualche misera utilità per la quale si contraggono relazioni e contatti. In fondo si tratta di un esercizio di essenzialità: restare fedeli a se stessi, tra fuochi fatui e bagliori interrotti.





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