Fabrizio Baleani
La storia del pensiero non sfugge
alla sforbiciante inesorabilità delle convenzioni e assegna spesso la scena
della notorietà al movimento filosofico ufficiale liquidando le voci
anticonformiste. A qualche sconosciuto di valore è concesso d’emanciparsi da
un’ultradecennale scorza d’oblio, grazie ad interventi estemporanei,
confezionati da alcune celebratissime teste influenti della penisola.
Ma più che alla conclamata nobiltà
d’animo degli esponenti dell’establishment culturale italiano, i proscritti
d’ogni latitudine debbono la loro riscoperta a chi sa far correre lo sguardo
dove s’esercita la miopia delle
maggioranze rumorosissime.
Piccoli editori e curatori
d’occasione ricordano, meglio d’un accademico seduto sulla propria celebrità e
sulla schiavitù dei suoi subordinati, il senso della parola ricerca.
Ed è stata proprio una casa editrice
anconetana, la Gwynplane, a mettersi sulle tracce di un’originale trattazione
del concetto di lavoro firmata da Giuseppe Rensi.
Contro il lavoro è il titolo con cui viene riproposto un saggio degli anni Venti, L’irrazionale, il lavoro, l’amore.
Rensi nacque a Villafranca di Verona
nel 1871. Dopo la laurea in
Giurisprudenza, si trasferì a Milano e aderì al Partito Socialista. Da giovane
giornalista ventitreenne, assunse la
direzione del giornale Lotta di Classe, collaborando al contempo
con Critica Sociale di Filippo
Turati. La repressione, seguita ai tumulti del 1893, lo costrinse a riparare
nel Canton Ticino. Tornò in Italia, nel 1908, e cominciò a studiare i
fondamenti teorici del diritto e dell’etica. Vinse la cattedra di Filosofia
Morale presso il Magistero di Firenze. Qui rimase sino al 1918, anno in cui si
diresse a Genova per stabilirsi definitivamente, nel capoluogo ligure. Le
degenerazioni di quegli anni, culminate con l’esperienza bellica, lo indussero,
sulle prime, a cercare nel nascente fascismo, un “socratico” rimedio agli
eccessi dell’epoca. Ma la maturazione di un pensiero “antidogmatico” gli costò l’allontanamento dalle aule
universitarie nel 1927. L’attualità del pensatore italiano consiste nell’aver
recepito uno dei più stabili connotati d’una certa fase “critica” del pensiero
europeo: lo scacco dei grandi sistemi
tradizionali, di stampo positivistico e idealistico, di fronte alla
tragicità della guerra e a un “filosofare” non all’altezza dei rivolgimenti del
“vivere”. Dopo il primo conflitto mondiale, i guadagni teorici sembravano muti
rispetto all’evoluzione precipitosa e
inafferrabile della storia. Inoltre, i
resti di un“ periodo sanguinoso forsennato, pieno di macerie ”,
“incomparabilmente sismico”, mal s’adattavano, secondo il pensatore veronese,
alle elaborazioni dottrinarie che
pretendevano d’apporre il proprio marchio di vittoria sul desolante panorama di
una faticosa ricostruzione spirituale. L’attenzione all’anatomia di un presente
lacerato, frammentario, dominato da un “agone fratricida” di motivi e umori
parziali convinti d’incarnare “la Ragione Universale”, assurse, nella
meditazione del filosofo veneto, a metodo d’analisi consistente
nell’opposizione ai fondamenti imperativi e “inconcussi” di tutti i territori
del sapere. L’impegno di Rensi fu sempre mosso a educare, nei giovani, quella
feconda attitudine critica che rifiuta di riconoscere, a proposizioni
consolidate, una validità permanente. Il
mondo ideologico primo-novecentesco gli appare come un “pluriverso”, scisso in
inconciliabili antinomie, caratterizzato dal fronteggiarsi di valori e principi
contrastanti. Il polemos gli appariva un contrassegno ineludibile sul dorso di
quegli anni frenetici. Nello scritto La guerra e l’assolutismo, la
follia della devastazione bellica è indicata come il crollo della grandiosa
messa in scena razionalistica e come prova dell’inesistenza d’una comunità e
universalità di ragione. Le accelerazioni dalla “più compiuta e tragica
esperienza di massa” avrebbero condotto “le idee a mutare e involvere in
casacche” rispondendo “alla chiamata di un intimo assolutismo della Ragione”.
Gli uomini “catturati dall’incantagione dell’idea,” chiusi nell’uso “meccanico”
e “metafisico-concettualistico” della
deduzione logica, sono convinti, tutti, di possedere la verità, rappresentare
la giustizia e fuggire la contraddizione. Per questo, essi difendono le loro
“evidenze intellettive” a ogni costo.
Nel confronto tra singoli individui, gruppi o nazioni intere, si
riverbera “l’isostenia delle ragioni” che portò Eteocle e Polinice ad
affrontarsi e a uccidersi. Il conflitto, a giudizio del pensatore veronese, è
figlio della credenza che esista un solo spirito e non tanti quanti sono gli
uomini. L’assunzione di un valore
metafisico da parte della ragione impiglierebbe, dunque, la mente umana, in un
invincibile dogmatismo, di matrice idealistica consistente nella contraffazione
della conoscenza e nell’opera di dissimulazione del reale sotto l’onnivora
telaragna del razionale.
I neoidealisti italiani benché radicalizzassero il momento negativo
in virtù della costante necessità di allontanamento del dato bruto, di una sua
rimozione nel pensato, e “dell’esigenza
di far sparire il contraddittorio” si riferivano alle nozioni totalizzanti e
rassicuranti del vecchio idealismo
(L’idea della Verità come imperituro moto ascensionale dello Spirito,
dell’Io come Io trascendentale, dello Stato come Stato Etico).
L’esaltazione del processo e dello
sviluppo diveniente del pensiero sarebbe una sorta di vernice ideologica sotto
le cui tinte policrome si celerebbe il dominio dell’opinione comune, la
statuizione di sistemi morali originanti dalla forza ma giustificati come
razionali, la prevaricazione del gruppo sociale più numeroso e meglio
organizzato volto a rappresentarsi come totalità idealmente superiore in un “progressivo” e “
artificialmente trionfante” procedere. La critica del soggettivismo
razionalistico e del progresso, la denuncia delle sue aporie, delle sue
“finzioni”, dei suoi inganni, assume la forma di una feroce polemica
antigentiliana. La prospettiva di Rensi
recupera la tensione metafisica dei classici e un severo distacco nei
confronti di un’albeggiante modernità.
L’avanzare dell’ ”Assoluto” nella
negazione e nel superamento delle sue figure storiche, così come è descritto
nella riforma dialettica attuata da Giovanni Gentile, conferisce all’intera
vicenda umana il moto, ravvisato dal grande pensatore di Castelvetrano, di un “Eterno Tantalo che stende la mano ai
dolci pomi del reale e non ne coglie mai abbastanza da arrestare il suo
inestinguibile desiderio”. Secondo il professore veneto l’idea che la Storia si debba “ svolgere
secondo quella concatenazione causale
preesistente al suo accadere e sia dunque destinata a nuove e incessanti vittorie
dello Spirito”, segnalerebbe nell’”hegelismo gentiliano” uno sbilanciamento a
favore dell’ottimistica irrefrenabilità dell’avanzamento storico e la
sostanziale trasformazione dell’attualismo in una “metafisica della privazione”
(stereisis).
Infatti, proclamando il carattere “in
perpetuo fieri” della “verità” e della “logica dell’atto”, Gentile capovolge radicalmente la
subordinazione della potenzialità all’attualità, del processo alla meta,
stabilita da Aristotele.
L’esito di questa nuova impostazione
richiede che nessuna attualità si perfezioni più. Qualunque risultato, ente,
presente deve essere forzatamente subordinato al suo movimento senza senso. Pertanto il corso storico sul quale poggiano
“i raggi dello spirito” e il dispiegarsi dell’”assoluto” tra i chiaroscuri del
divenire moderno, è mero muoversi cui risulta necessaria l’assenza di
raggiungimento.
L’intero orizzonte della scena umana si dimostra, quindi segnato
da un “susseguirsi d’incompiutezza”, un muoversi auto-evidente ma incapace di
fondare se stesso, difettoso,vuoto, puro mezzo.
Lo scenario che ne risulta è nominato
“assurdo”. La filosofia dell’assurdo è una visione della storia come teatro
della contraddizione.
Ogni istante della ripida linearità
temporale presenta ripetuti crolli, svelati nella loro tragicità non
uniformabile da alcun adattamento razionale. Ciascun attimo forza il presente
“a venir fuori da se stesso, ad avvertire di vivere per il poi, per il non
ancora”.
L’inabissamento perpetuo, privo di “
credibili spegnitoi dialettici”, è il precipizio di ogni filosofia, la morte di
ogni “compaginazione di pensieri ” che pretenda un’autonoma verità, sviluppandosi sulla via della
contraddizione e di un progressivo
“cammino sui carboni ardenti”.
L’immagine di un’azione che attende
la sua conclusione in un altrove perennemente inavvicinabile, rimanda al
tormento di Sisifo e ritrae una meccanizzazione razionalistica dell’esistenza e
della vicenda storica
Il potenziamento del robusto “corpo
di concetti” che avvolge la vita per renderla tollerabile, può tornar utile a
“consolare gli uomini e il presente, giammai a giustificarli”.
L’indagine
rensiana sorge dal desiderio di
comprendere il reale e, al contempo, dal rifiuto di accasare la conoscenza “in
una delle frenetiche sistematizzazioni vincolanti del concetto” poiché è “impossibile
conoscere veramente la vita”.
L’impasse
è annodata ai due lembi di un medesimo fondo “senza scopo e ragione”, ovvero
“irrazionale”. Da un lato il mondo
bruto, incatenante, dall’altro il desiderio violento di chiarezza, “il cui
richiamo risuona, radicalmente, nell’uomo”.
L’assurdo dipende dunque tanto dall’uomo quanto dal mondo e lega gli
esseri “come soltanto l’odio può stringerli gli uni agli altri”. Il “furore” e la “cecità razionale” che sono
“determinismo dell’eloquenza delle cose e dell’auto-evidenza” non sapranno mai appagare “la richiesta di un
assenso in grado di dichiararsi onesto”.
In
quell’adesione che il saggista di Villafranca qualifica come “onestà” sono
contenuti sia il concetto metafisico della filosofia, col suo inevitabile
portato d’insoddisfazione e d’angoscia, sia il concetto relativistico del
reale.
Nessuna
certezza “positiva” è possibile perché tutto è contingente e mutevole.
L’accoppiamento
dei due termini in una dialettica antinomica che non prevede alcuna
sintesi costituisce l’originalità di
questa particolare variante d’esistenzialismo.
Non
sorprende, dunque, come nella “corsa
appassionata verso una prospettiva più sincera” il filosofo veronese si
sia scagliato contro “quell’idealismo giocoliero di idee, propenso a
condizionare l’uomo, a prendere il suo Spirito e ciò che in esso si manifesta
come l’Assoluto, producendo l’ora violenta, torbida, fanatica, dell’epoca
nostra.”
L’autore
de La filosofia
dell’assurdo esercita qui il suo limpido sospetto di pensatore “inattuale” , guardando al
versante “oscuro e notturno” dei soggetti di trasformazione storica che si
fronteggiavano nell’appena nata società dei consumi.
Infatti
sotto la tenaglia delle opposte fazioni, “chiese dell’interesse immanente” egli avverte non il trionfo dell’individuo, ma il sacrificio estremo di quest’ultimo allo
Stato, alla Nazione, alla Classe; idola novecenteschi impregnati di
razionalismo.
I miti politici dunque, lungi dal
liberare i cittadini, favorendo un rapporto responsabile tra costoro e le
istituzioni, ammantano reali condizioni di forza e di subordinazione con la
promessa di improbabili palingenesi da compiersi sotto il segno delle più
diversificate e contrastanti compagini di vincitori.
Contro tutti gli “inganni” Rensi
rinnova l’efficacia negatrice della “scepsi antica”. Il suo “relativismo” non è
altro che “lo sforzo di fare epochè”, di sottrarsi al gioco “mortale” delle
apparenze, ravvisando la costitutiva caducità d’ogni vacua “essenza” che si
metta in cattedra a spiegare l’esistenza. Egli è convinto, in linea con tutto
il pensiero negativo d’Europa,”che occorra “sopportare e vedere con chiarezza
l’indeducibilità del mondo e il carattere finito e limitato dell’esistere”
attraverso “la grave angoscia dell’uomo lucido”.
.
Tutta la scena visibile, assurda
e “colma d’illusioni” spinge a relativizzare
fatti e prospettive a dispetto “della tendenza a inculcare entrambi in un
mosaico di formulette verbali pieno di tinte etiche, politiche, gnoseologiche.”
Di ciascun conformismo della Storia, del cuore, della Società, della Morale,
solo “l’eccezione” sembra interessare Rensi.
Non è azzardato riconoscere in
lui un’irriducibile “ribellione”, che ricalca le imprecazioni di Amleto,
l’amara aristocrazia di Ibsen, la rivolta dell’uomo contro ogni “reale
precostituito”. L’andare oltre le posizioni correnti è il martello che demolisce tutte le parole bramose d’ergersi
al rango di sistema. Il coraggio di chi nega le sue ragioni alla “ragione” e
dirige i propri passi nel mezzo del deserto in cui tutte le certezze sono
divenute pietre, “deve sapersi mantenere su creste vertiginose” sperimentando
“il passo del funambolo” che nel percorso, irto di pericoli quotidiani, impara
a vivere “senza sotterfugi”. Il filosofo
è “colui che ha sufficiente piombo ai piedi per tenere gli occhi aperti sul
dolore e sul male, gettando via “le stesse impalcature della dottrina
filosofica.”
La versione rensiana di scetticismo
comporta l’approssimazione a quella vetta che squarcia il velo di Maya d’ogni
“farmaco” o “rimedio” intento a “coprire la croce del presente con la rosa della
dialettica, della risoluzione, del bene”.
Ricordando Giacomo Leopardi, definito
“il maggior filosofo italiano”, Rensi afferma esplicitamente:
Il Leopardi dice che solo è utile la sommità della filosofia perché ci
libera e disinganna dalla filosofia. La sommità della filosofia è lo
scetticismo che ci affranca dall’idolo vano della filosofia-verità senza
privarci però della gioia della filosofia-arte.
Lo scetticismo “vertiginoso” che non
“giace” su alcuna posizione teorica o precetto particolare liquida “la
filosofia-verità”, la “ testa di serpente dello Zarathustra”, “la frenesia
dell’assoluto”, avverte l’inconsistenza “della fondazione d’ogni vero” ,
accantona l’imperatività d’ogni morale predeterminata rispetto all’azione
concreta, e intende restituire il mondo delle azioni e dei saperi alla meraviglia degli uomini, sfilandolo
dalle mani fragili, di carta e inchiostro, delle determinazioni metafisiche.
Si dischiude dunque “lo spazio di sabbia dell’esistenza” ove “ l’ingegno” “l’ars” consiste nel vivere
la possibilità di un’adesione, la comprensione dei suoi limiti, delle sue
circostanze specifiche e concrete, il
sentimento dei suoi impeti, delle sue intensità, e nell’azzardare una fermezza nel terreno
malcerto d’ogni opzione, tratteggiando e rivedendo percorsi, senza confidare
nella stolta volontà d’esaurire i problemi etici nella capienza mutevole delle
idee.
Gli uomini
rintracciano, infatti, solo nel “ vivo e
disinteressato gioco creativo che li
metta in gioco”, la loro “ignuda
natura”, ovvero la massima sincerità dell’esistere possibile in un mondo
finito.
Solo la
speculazione, l’arte, la “dedizione” sono
“il gioco” rappresentano una poietica del senso “davvero libera” che
“genera i frutti spirituali più maturi”, attività finalizzatrice non adeguabile
a una norma esterna, non terminabile “nel dogma eteronomo”, ma rivolto all’autonomia
e “all’ingegnosità pratica e teorica” della vita individuale.
Questo
agire, puramente disinteressato, si scontra, secondo il villafranchese, con
un’altra “antinomia sociale”, un nuovo “nemico della libertà”, il lavoro delle
società “meccanizzate e massificanti”.
il lavoro suol dirsi nobilita l’uomo:è poi
vero?Sarà utile certo lasciarlo credere ma l’esperienza non lo conferma[…]non
pochi dei nostri operai siano abbruttiti senza patria senza decoro, senza
idealità alcuna che non sia il mangiare e il bere, a me non fa alcuna
meraviglia […]i lavori restano con l’effetto di asservire anche le anime dei
più liberi.
L'esaltazione dell'homo faber, nobilitato dal lavoro, si inserisce nella
creazione di un nuovo mito contemporaneo, quello dello sviluppo incontrollato
delle risorse materiali al servizio dei mezzi della vita economica, all’interno
della quale l’uomo diviene “mezzo di
nessun fine”. Si tratta di una condizione “perpetuamente alienante” che nella
prospettiva rensiana, densa di scissioni, diviene insanabile.
La società
fondata sul lavoro adegua l’esistere a una catena d’interessi, riducendolo a
una “desolata landa d’opportunismo, affarismo e carrierismo”.
per evitare di esser messi, non diciamo in una
fornace ardente ma in una soffitta o in un appartamento troppo modesto, si
adorerebbe qualsiasi statua d’oro di qualsiasi Nabucodonsor: l’eros etico è
ucciso dalla preoccupazione esclusiva di profittare di qualsiasi situazione per
riuscire, per arrivare, per fare strada […] conservarsi, procurarsi o
aumentarsi il pane.
Nella
dialettica oppositiva che contrappone un’antropologia liquida contenuta negli
“alambicchi della tecnica” e l’inquietudine dello scegliersi ogni istante senza
tributi ai “determinismi della macchina sociale”, l’uomo tenta l’opzione di
rintracciare la propria “ignuda natura” E
nel disagio dello stare al mondo cerca di conservarla, di difenderne il nucleo
di verità dal bla bla del circostante, in quel circuito d’automatismi e
riflessi pavloviani dove la dignità è solo un aggregato di bisogni indotti
appesi a una funzione, a un compito strumentale, a una qualche misera utilità
per la quale si contraggono relazioni e contatti. In fondo si tratta di un
esercizio di essenzialità: restare fedeli a se stessi, tra fuochi fatui e
bagliori interrotti.
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