mercoledì 1 maggio 2013

“Nella casa” di François Ozon: un film tra Pasolini e Céline


Federico Magi


L’arte, in fondo, ci racconta sempre delle storie. Anche le composizioni più astratte, le tessiture più intrecciate e le narrazioni più criptiche ci raccontano sempre qualcosa la cui interpretazione, più spesso di ciò che comunemente si suppone, è negli occhi di chi guarda. O, quanto meno, è un continuo gioco di rimandi e di specchi, tra l’autore e chi “partecipa” della sua arte: lo spettatore, il lettore e l’ascoltatore non sono mai recettori passivi. François Ozon, regista francese ormai totalmente affermatosi a livello europeo, torna a lavorare col bravo Fabrice Luchini dopo il divertente Potiche, portando sul grande schermo una commedia dalle venature drammatiche che pone al centro proprio il tema del fascino e della suggestione del racconto, il potere della narrazione e la possibilità di far nascere infinite storie dall’attenta osservazione della realtà che ci circonda. Scritta dallo stesso regista e liberamente ispirata a El chico de  la  ultima fila, una pièce teatrale del drammaturgo spagnolo Juan Mayorga, Nella casa è una commedia acuta e tagliente che, secondo un registro sempre caro a Ozon, non si nega un velato cinismo e alcuni passaggi surreali.
Germain, professore di letteratura di mezza età in un liceo di una cittadina francese, sposato con una donna che gestisce una galleria d’arte, è un uomo colto e un docente competente che però vive la profonda frustrazione di non essere mai stato uno scrittore degno di nota. Quando tra i suoi alunni, che considera semianalfabeti, scopre di avere un talento letterario come Claude, ragazzo apparentemente timido e dalle umili origini, si appassiona al suo intrigante modo di scrittura. Claude è un sedicenne che ha un forte spirito d’osservazione, e che grazie alla pazienza dell’osservatore e a qualche piccolo stratagemma riesce a insinuarsi nella vita familiare di un suo compagno di classe che vive un contesto sociale agiato e “normale”. Normale è un termine che usa lo stesso Claude per descrivere una realtà pressoché opposta alla sua: figlio abbandonato dalla madre, con un padre invalido e una pessima condizione economica, è naturalmente attratto e in parte invidioso di un mondo apparentemente tranquillo e certamente benestante in cui gli affetti familiari sembrano solidi. Germain si appassiona talmente al lavoro di Claude tanto da dargli lezioni private di letteratura ma soprattutto alimentando un gioco che si fa rischioso e perverso, nel momento in cui il voyeurismo descrittivo del ragazzo entra nei meandri dell’intimo familiare del compagno di scuola. Claude sembra adesso essere tutt’altro che timido e sprovveduto, coinvolgendo, suo malgrado, il professore in un gioco che cerca una conclusione per la sua storia e che, appare chiaro ad ambedue, non può più terminare bene. Vita reale e immaginazione cominciano a intrecciarsi pericolosamente, e quando Germain si rende conto di essersi spinto troppo oltre, è ormai tardi per arginare i rovesci che la vita ha in serbo per lui.


Ancora una volta François Ozon si dimostra autore di livello, capace di intrattenere e insinuare dubbi e interrogativi con qualsiasi tipo di storia. È infatti il linguaggio l’elemento più potente del cinema del regista francese, la confezione dei dialoghi e la capacità di generare attesa e mistero anche attraverso la forma commedia (come in passato con 8 donne e un mistero e Potiche, tanto per citare un paio di titoli emblematici). Nel film in questione sono protagonisti proprio la scrittura e la letteratura, terreno emblematico per decodificare al meglio la disposizione artistica di Ozon, il quale proprio con Nella casa confeziona la sua opera cinematografica più rappresentativa, rendendo centrale il rapporto tra scrittore e lettore ma con l’idea di ribaltare continuamente i ruoli, scegliendo non a caso di raccontare la storia di un professore di lettere che non è mai riuscito ad emulare i suoi miti letterari e di uno studente che, pur non avendo letto nulla o quasi, ha invece la dote d’osservazione e trasposizione arguta e immediata che non lui non potrà mai possedere. La figura di Claude è un evidente alter ego di Ozon, il quale affida al ragazzo il ruolo dell’antropologo che indaga dall’interno la “diversa cultura”: in questo senso, è logico e consequenziale seguendo il ragionamento del registra francese, che ogni nucleo, per lo scrittore, sia una cultura a sé, con i suoi riti, i suoi modi di essere e il suo linguaggio peculiare e unico. Ma l’antropologo resta comunque “solo” un osservatore, mentre Claude ad un certo punto diventa attore, rompendo quindi una sorta di equilibrio formale e in secondo luogo familiare che è sempre, inevitabilmente costruito su “fragili solidità”.


Qui Ozon cita apertamente Pasolini, e avvicina volutamente Nella Casa al Teorema dell’artista friulano (evidenti alcune somiglianze concettuali tra l’enigmatico visitatore e il giovane studente) per poi discostarsene totalmente nelle conclusioni. Tutto il film, come consuetudine dell’artista francese, vive di citazioni più o meno manifeste tratte dal cinema (del quale è ancora una volta Bunuel il padre più prossimo, quanto meno nella struttura e nel ricorso al surreale come fondamentale elemento narrativo) e dalla letteratura (oltre al pluricitato Flaubert, cui è intitolata anche la scuola in cui insegna Germain, c’è un omaggio tra il tragico e il comico, nei pressi dell’epilogo, a Viaggio al termine della notte di Céline), ancora una volta non spese a caso ma assolutamente funzionali al racconto. Nulla è banale nel cinema di Ozon, a volte persino troppo studiato e sul confine di un “uncorrect” mai veramente scorretto (come l’incipit in cui si “irreggimentano” studenti adolescenti con la divisa ufficiale della scuola, cercando una giustificazione egualitaria da parte delle istituzioni scolastiche, viste le diverse etnie, volutamente sarcastica e poco credibile).
Quello che si potrebbe obiettare al regista francese, cercando comunque, a parere di chi vi parla, il pelo nell’uovo in un’opera dalle indubbie qualità artistiche che non cede mai sul piano narrativo e che è interpretata divinamente da un cast d’attori al suo meglio (non solo i gli ottimi Fabrice Luchini e Kristin Scott Thomas, ma anche il giovane Denis Ménochet e una convincente Emmanuelle Seigner), è che la sua critica a una certo modo di vita borghese è fatta comunque da un punto di vista altrettanto borghese e sotto sotto moralista. Una considerazione possibile, questa, che possiamo rivolgere alla pellicola di Ozon solo se vogliamo guardare oltre il gioco di specchi e di rimandi cui alludevo al principio, che al contrario è il suo punto di forza nonché la caratteristica più personale di tutto il suo cinema. E l’epilogo del film, non a caso, sta a dimostrarlo, riconducendo l’opera ai suoi motivi originari, filmando il ragazzo e il professore, su una panchina, a osservare le finestre del palazzo di fronte e immaginare, da semplici e apparentemente insignificanti quadri di vita quotidiana, storie pronte a svilupparsi e a perdersi chissà dove. Cercando sempre una soluzione circolare, una conclusione convincente per il possibile lettore, qualunque essa sia.  


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