Luciano Lanna
Ma la politica a chi (e a
cosa) deve rendere conto? Il cittadino che “fa politica”, chi in altre parole entra
in campo nell’agorà, chi si pone come titolare della schmittiana “decisione”
politica, sarebbe davvero necessitato – come una retorica oggi troppo diffusa sembrerebbe
aver imposto – a limitarsi a un ruolo di “portavoce” di istanze e umori diffusi,
oppure di “rappresentante” di bisogni, desideri e interessi, di volta in volta
della coalizione, del partito, dei cittadini, dell’elettorato, del territorio…
Riferimenti che, ormai sovrabbondanti nel linguaggio dei politici, appaiono quasi
come dogmatici totem e tabù, alibi e giustificazioni indiscutibili dell’agire pubblico.
Quante volte abbiamo d’altronde sentito Berlusconi e quelli del Pdl fare
appello al primato del proprio elettorato di riferimento, ai milioni di
cittadini che hanno votato per loro, come elemento fondativo (e giustificativo)
della loro azione? Quante volte ha risuonato il mantra degli esponenti del M5S
che ripete all’infinito il loro ruolo di “portavoce” della cittadinanza? Quante
volte abbiamo ascoltato i leghisti ripetere che loro si limiterebbero a
eseguire e tradurre nelle istituzioni e nelle assemblee elettive quanto il
territorio richiede ed esige? Quante volte, infine, il centrosinistra ha
ricorso alla retorica delle “primarie”, e quindi alla presunta volontà di
milioni di cittadini, per delineare un elemento decisivo di linea politica e di
strategia da perseguire?
Noi, a nostro modo eredi di
una pensiero politico formatosi sulla lettura meditata di Simone Weil e Hannah
Arendt, di Ignazio Silone e Adriano Olivetti, pensiamo che tutto questo sia in
realtà solo l’ultimo imbroglio retorico della eterna prassi partitocratica. Una
cosa sono infatti la cittadinanza attiva
e la democrazia partecipata che ci
paiono l’ideale regolativo cui aspirare ai fini di una società libera e fondata
sull’equo legame sociale, altra il confondere la necessità della legittimazione
di qualsiasi mandato elettivo con un legame obbligato e vincolato (a un
apparato o a un partito, al territorio o, anche, alla presunta volontà
popolare). Perché, infatti, non prospettare – come insegna la democrazia greca
delle origini – forme diverse di legittimazione, come ad esempio il sorteggio
tra tutti i cittadini per mandati a tempo e mai a vita? Non si può infatti
confondere il diritto/dovere alla partecipazione (e alla decisione) di ogni
cittadino con la gabbia della rappresentanza,
con quella sorta di vincolo che costringerebbe a vivere il mandato come la
traduzione di quello che un’entità imporrebbe, sia essa il partito, l’astratta
volontà del popolo o anche il territorio. La rappresentanza non può mai
incatenare, non può essere una gabbia, non se ne può (e non se ne deve) mai
diventare ostaggi. Tanto più nel momento in cui una certa retorica fa
addirittura appello alla cosiddetta “pancia” dell’elettorato, a quella
irrazionale e indistinta volontà popolare di cui il politico dovrebbe essere
soltanto “portavoce” passivo.
E allora ripartiamo dalla
stessa genealogia della politica. Se c’è infatti un dato che definisce l’autonomia della politica – e l’autonomia del politico – quale dato
costitutivo dell’agire pubblico così come s’è storicamente posto in Occidente
esso è, costitutivamente, la libertà della decisione politica dal territorio (e
da qualsiasi suo richiamo o obbligo) e contemporaneamente dalla indeterminata e
astratta volontà popolare (o folla, o
massa, o popolo, o insieme organico e
omogeneo dei cittadini, o anche elettorato che dir si voglia). La messa in atto
e in forma di prassi politica non è
insomma condizionata o condizionabile da altri fattori, di cui mai e poi mai
potrà essere ostaggio.
È stata Hannah Arendt a riprendere e riformulare
nel Novecento questo aspetto già compiutamente tematizzato da Machiavelli,
sottolineando nuovamente il fatto che la differenza con l’antichità fu – nel
momento stesso in cui si procedeva alla invenzione della politica moderna – la
percezione della distinzione capitale tra la politica (la vita activa, il regno della libertà) e il territorio e i bisogni
domestici (il regno della necessità e della quotidianità, la dimensione dei
dinamismi biologici e naturali). È proprio con questo salto culturale che la politica acquisisce in Occidente la sua
autonomia e la sua dignità più propria, definendo la differenza tra la
dimensione della polis (la
partecipazione dei cittadini al regno della libertà) e la dimensione domestica, lo spazio dei bisogni e degli interessi
immediati, naturalistici e parziali. Di contro, tanta, tantissima retorica del
dibattito politico-elettorale italiano dell’ultimo ventennio è invece giocata quasi
interamente sul riferimento ossessivo e ricorrente allo spasimo al territorio quando non, addirittura, con
un’espressione davvero bruttissima, ai territori
declinati al plurale. Quasi che fare
politica debba significare
tradurre senza mediazioni in parlamento o nelle sedi delle decisioni
istituzionali direttamente i bisogni, le aspettative, le pulsioni, gli stati
d’animo, i desiderata del territorio. A questo corrisponde anche il termine,
reso popolare dai grillini, di “portavoce”, di soggetto che si limita a
rappresentare. D’altronde, quante volte abbiamo sentito ripetere a parlamentari
e politici, a cominciare dal leghisti (che sono i primi ad aver costruito e
imposto questa egemonia concettuale), il fatto che dopo il lavoro in Parlamento
a Roma debbono poi tornare – il fine settimana, poi – “sui territori” per rassicurare
gli elettori di aver risposto alle loro domande e quindi intercettare nuove
istanze della presunta volontà popolare.
Ricominciamo allora a
mettere i puntini sulle “i” e a introdurre una necessaria bonifica semantica. È
da definizione di educazione civica sui banchi di scuola il fatto che una
entità politica consti oggettivamente di tre elementi: una popolazione, ovvero
una moltitudine di cittadini; la
presenza di questa popolazione su un determinato territorio; e il vincolo (e la garanzia) per i cittadini che
vivono su quel territorio di una precisa e determinata sovranità. Il territorio, tanto per fare l’esempio dell’elemento
oggi più abusato, è solo la delimitazione di confini che definiscono lo spazio
pubblico sul quale viene esercitata la sovranità
politica per quei cittadini. È in fondo soltanto l’elemento primordiale,
preliminare, naturale, ma – come sottolineano Arendt e prima di lei Machiavelli
– proprio per questo è l’elemento che va superato, integrato e reso “politico”
dalle due dimensioni complementari e parallele della cittadinanza e della sovranità.
Non è un caso che da quando esiste una concezione parlamentare e istituzionale
della rappresentanza politica il
singolo parlamentare non ha e non ha mai avuto alcun vincolo di mandato né
territoriale né di schieramento: egli, in quanto politico, è rappresentante
della nazione, ovvero di tutti i cittadini
nel loro complesso, e nessun obbligo naturalistico può costringere o forzare la
sua libertà di decisione politica. È un fatto originario e costitutivo questo
che al di là e oltre qualsiasi sistema elettorale rende il parlamentare libero
e vincolato solo dalla sua coscienza e dalla volontà di scegliere per il bene
della nazione, ovvero di tutti i cittadini.
Ovvio quindi che in nessuna
democrazia del mondo l’uomo politico ritiene di rappresentare esclusivamente le
ragioni del territorio di elezione: egli
non è (quando, pure, questo aspetto amministrativo si pone) un sindaco o un
consigliere comunale, non è solo un eletto di consessi territoriali, non è e
non può essere infine un rappresentante di interessi determinati e
circoscrivibili. Ricordarlo servirebbe molto a bonificare il linguaggio retorico
della politica italiana dall’ultima delle trappole lessicali che rivela, in
realtà, solo la recente deriva settoriale, propagandistica e frammentaria del
nostro dibattito pubblico. Oltre tutti gli imbrogli semantici della destra, del
centro e della sinistra, dei grillini e dei “nuovisti” democratici, dei
leghisti e dei berlusconiani.
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