Federico Magi
Abbandonati dopo tre film
violenti, scioccanti e perversamente affascinanti i sentieri
dell’irrinunciabile vendetta, e dopo Thirst,
inconsueto thriller sentimentale e vampiresco tratto liberamente da Zola,
l’ispirato regista sudcoreano Park Chan-wook si trasferisce artisticamente
nella landa hollywoodiana per immaginare il suo primo film (teoricamente) mainstream. Grazie a una interessante
sceneggiatura di Wentworth Miller ecco che viene fuori Stoker, thriller psicologico dalle venature orrorifiche e omaggio
indiretto, ma dal titolo quanto mai emblematico, al capolavoro gotico Dracula, scritto come noto (fuori
dall’ambito letterario anche grazie al film di Francis Ford Coppola,
relativamente recente) dallo scrittore irlandese Bram Stoker. Ancora una volta
Park Chan-wook sceglie di avere a che fare coi vampiri? Sarà forse un nuovo
debito di sangue, verso il suo pubblico? Niente Grand Guignol e un ancor meno consueto omaggio a suggestioni dai
denti aguzzi, perché se non i vampiri classici, il vampirismo inteso come tara
ereditaria, come forma di disadattamento e male esistenziale c’entra eccome
nella nuova sorprendente opera del regista sudcoreano. C’entra come c’entra
poco il sangue esibito, sempre importante come elemento simbolico ma celato sovente
alla vista fuori dalla spirale dell’odio e della vendetta delle opere
precedenti.
Di là dal contesto ospitante
e dal genere, Stoker è più che altro
una storia di formazione, certo inusuale, tenebrosa e dai risvolti inquietanti,
che vede protagonista una ragazza appena diciottenne, in un contesto extra
cittadino ma alto borghese, la quale prende progressivamente piena coscienza di
sé e del suo tormentato mondo interiore. Fino a conoscersi, comprendersi,
accettarsi e scegliere la libertà. Anche se, ciò che scoprirà sarà
agghiacciante. Protagonista della vicenda è India Stoker (Mia Wasikowska),
ragazza eccentrica e solitaria, alla quale, proprio nel giorno del suo
diciottesimo compleanno, arriva la terribile notizia della morte del padre in
un incidente d’auto dai risvolti poco chiari. Unica figlia di una famiglia
facoltosa, India aveva un rapporto privilegiato col padre (Dermot Mulroney),
con il quale si allontanava intere giornate per andare a caccia. La madre
(Nicole Kidman) è sempre stata esclusa da questo intenso rapporto a due, tanto
da distaccarsi affettivamente sia dal marito che dalla figlia. Il giorno del
funerale, spunta praticamente dal nulla lo zio (Matthew Goode) di India,
fratello del papà, il quale sembra attratto in modo morboso dalla ragazza. Di
lui si sa poco o nulla, se non che ha viaggiato ininterrottamente per lavoro in
giro per il mondo. Lo zio si trasferisce in casa Stoker, e India comincia a
provare sensazioni ambivalenti verso di lui, che la spingono a superare alcuni
timori adolescenziali per provare in qualche modo a sbocciare e diventare
adulta. Ma l’uomo porta con sé un segreto terrificante, che svelerà anche la
natura della ragazza la quale, una volta compresi gli eventi e accettati i
mutamenti improvvisi della sua vita recente, sceglierà di assecondare la
propria oscura alterità decidendo di affrontare e vincere i suoi stessi
fantasmi. Fino all’epilogo, sanguinoso e inatteso.
Parabola iniziatica dalle
tinte nerissime, Stoker è un film
riuscito e piacevolmente sorprendente, sia nella struttura a pathos crescente
che nella messa in scena raffinata ed elegante. Lontano dalle ossessioni di
casa, Park Chan-wook dimostra tutta la sua duttilità registica, costruendo un
thriller dalle suggestioni hitchcockiane ma dai risvolti orrorifici e metafisici,
in cui la forma conta quanto la sostanza se analizziamo una struttura dai ritmi
sapientemente compassati nella prima parte, cui fanno seguito una serie di
colpi di scena dosati peraltro con inconsueta misura (a chi è rimasto nella
memoria il trittico in cui centrale è il bellissimo e doloroso Old Boy), sia stilistica che narrativa.
Molto è dovuto alla convincente e originale sceneggiatura, ma il regista
coreano ci mette del suo per valorizzare un ingresso nel cinema totalmente
internazionalizzato che decide di puntare più sui contenuti che sullo
spettacolo fine a sé stesso. Park Chan-wook asseconda e poi amplifica una
storia tendenzialmente intimista con scelte tecnico-artistiche di notevole
fattura, attraverso una regia che ha studiato il thriller classico ma che
decide di farne propria la componente prettamente emotiva, grazie a movimenti
di macchina che scelgono di mostrarci i primi piani dei volti da angolature
stranianti che privilegiano l’inquietudine, e utilizzando la scenografia dal
gusto retrò facendo leva su luci e colori che fanno convintamente il verso ai
grandi gotici del secolo scorso. La riuscita dell’opera è affidata anche alla
brillante prova della protagonista, la giovane attrice australiana Mia
Wasikowska, già apprezzata - tra i tanti film a cui ha preso parte nell’ultimo
triennio - nei panni dell’Alice di
Tim Burton, e ne L’amore che resta che
resta di Gus Van Sant, che ruba decisamente la scena (anche esteticamente,
nonostante il curioso, datato e castigatissimo abbigliamento) sia a una Kidman
oramai fin troppo deformata dalla troppa chirurgia estetica cui s’è sottoposta,
sia al co-protagonista Matthew Goode, che asseconda il ruolo dello zio
misterioso con sufficiente disinvoltura ma senza entrare nell’immaginario dei
“cattivi da ricordare”.
Come in Thirst, il vampirismo è ancora una volta un pretesto per parlare
d’altro nelle intenzioni di Park-Chan-wook, che diluisce fino quasi ad astrarre
totalmente l’idea classica del vampiro che proprio Stoker aveva ideato, per
invece avvicinare, guarda caso, colui che un vampirismo atipico lo aveva scelto
per immaginare una nuova variazione sui sentieri dell’horror a sfondo
politico-sociale. Stiamo parlando di George A. Romero e del suo forse
dimenticato gioiellino di genere Wampyr,
divenuto poi Martin nella versione
director’s cut, cui non per trama ma per suggestioni è avvicinabile questo
Stoker, nel quale proprio come nel film romeriano il vampiro non succhia il
sangue ma è un malato, un disadattato, un emarginato, qualcuno destinato alla solitudine
e ad assecondare la propria nefasta natura per essere libero in un mondo che
non può includerlo ne tanto meno comprenderlo. E proprio il personaggio di
India, che in qualche modo avvicina anche la Sissy Spacek/Carrie protagonista
di un grande horror generazionale dai risvolti psicologici e sociologici come Carrie, lo sguardo di Satana, diretto da
Brian De Palma e tratto da un romanzo di Stephen King, condivide con Martin (e
con la stessa Carrie, pur non vampira) questo senso assoluto di estraneità
rispetto ad un mondo che Park Chan-wook sceglie di allontanare dalla sua
protagonista per donarle – al contrario dello stesso Martin che finirà ucciso –
una possibilità di autodeterminazione tanto improbabile quanto comunque
possibile. Guardandola sostanzialmente da un piano simmetrico, scegliendo di
non giudicare.
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