Eugenio Balsamo
Evita Perón era una popstar femminile
ante litteram, un capopopolo
tipicamente sudamericano o, più semplicemente, una donna coraggiosa e capace?
Sulle grandi figure della storia non c’è mai unanimità, soprattutto quando
l’ideologia si insinua nel giudizio. Da oggi c’è uno scritto in più nei
cataloghi italiani: è il lavoro di Giuseppe Brienza, Evita Perón. Populismo al femminile (editore Pagine, pp. 120, € 14),
con invito alla lettura di Carlo Sburlati. L’opera arriva in un momento
particolare e cioè mentre in Argentina muore Jorge Videla, tra i principali
responsabili della peggiore pagina della storia nazionale e continentale. E
mentre nel nostro paese si fa di tutto per sostenere che destra e sinistra sono
categorie estinte, uno degli slogan del peronismo di sempre. Va intanto ricordato
l’operato scientifico con il quale si è voluto cancellare quell’esperienza
politica (ma prima ancora civica e sociale) che è stato il peronismo,
intendendolo nella sua reale portata e non nella degenerazione dei decenni
successivi che lo hanno visto proposto in una versione di destra e in una di
sinistra. Chi ha seguito la politica del paese sudamericano sa, peraltro, che
non si è trattato di normali correnti bensì di personalismi sui quali si sono
costruite differenti proposte politiche.
Il libro, a tal fine,
argomentando sulla figura di Eva Duarte, ripercorre un vissuto particolare
sottolineandone la dirompenza. La sua capacità di ascolto e di “azione” e,
prima ancora, quella di radunare, come solo i leader latino-americani sanno
fare, nel bene o nel male a seconda dei casi. Le donne e gli “ultimi” entrarono,
con lei, in quell’agenda politica inaugurata all’insegna di una terza via
ingombrante, come è ora per diversi la presenza di Cristina Fernández. La
“presidenta” a lei si ispira e il suo popolo – va detto, con troppa
approssimazione – a lei la equipara. Brienza ricorda la visita di Evita a Roma nel
1947 e quei giovani neofascisti che la salutavano a braccia tese. Poi l’arrivo
dei giovani di sinistra ad accusarla di essere la moglie di un fascista. E le
botte, come allora era abitudine...
Quando è morto Videla, il 17
maggio scorso, solo in pochi hanno sottolineato che a gioire sono stati
principalmente i peronisti (quelli nel senso puro del termine, s’intende). La
guerra sporca intrapresa dalle giunte militari ha cancellato, oltre che una
generazione culturalmente qualificata, un’idea prima ancora che un movimento. E
qui si torna a ciò che è destra e sinistra. Perché con facilità – e convenienza
– la destra italiana è stata sedotta dall’autoritarismo dei militari facendo
passare per reale la lotta al nemico di sinistra. E lo ha fatto ignorando la
principale – quasi assoluta – vittima politica di quel massacro. L’ex
presidente Carlos Menem, per esempio, non è mai stato disprezzato alle
latitudini destre del nostro paese. Eppure, conquistando la prima presidenza
con argomentazioni più che peroniste, si è poi lasciato andare alla parentesi
liberista più convinta della storia argentina, poi proseguita anche dai
radicali (più o meno socialdemocratici, per dirla all’europea). Lo stesso
quanto alla resa giuridica e giudiziaria dello Stato nei confronti di chi ha
fatto sparire nel nulla trentamila connazionali che Néstor Kirchner ha poi
ribaltato.
Quando il Latinoamerica –
segnatamente la parte Sud – ha inaugurato un cammino politico diverso
l’Argentina non si è sottratta. È stato Kirchner a riportare nell’azione
politica quei principi che ricordano una via diversa, se non terza come
disegnata da Perón almeno alternativa alla prima, quella che ha fatto comodo
nei decenni della velocità capitalista, gli anni Ottanta e Novanta. Non senza
errori e malversazioni e vale per lui come per la celebre consorte. Quel
rapporto stretto con il chavismo, per
esempio, troppo “bandiera a sinistra” seppure con qualche visione comune su
economia e maggiore autonomia del subcontinente, ha “destabilizzato” chi nella
coppia presidenziale ha rivisto un’idea che sembrava defunta. Ciononostante, è
difficile affermare che Cristina Fernández è una leader di sinistra ed è giusto
confermare l’inutilità di radiografare la politica latinoamericana utilizzando
macchinari impostati su standard europei.
Dunque, bene fa Brienza a
non cadere nella suggestiva tentazione di dire che Evita è un’icona della
destra. A rileggerla in un turbolento ma inconcludente 2013, la moglie del
Colonnello (meglio ricordarlo così che come General)
era una perfetta movimentista. Significativo è sottolineare che lei «si votò
subito ad un’intensissima attività pubblica, in patria e all’estero,
sconvolgendo sensibilità e prassi consolidate dell’establishment nazionale. Infatti, non si era mai vista in Argentina
una donna, di appena ventisei anni, che si interessa di politica, che parla in
termini semplici di problemi fino allora riservati a uomini anziani, a volte
spocchiosi, spesso noiosi, quasi sempre incomprensibili». Come dire che più di
sessant’anni fa l’Argentina è riuscita in ciò che in Italia e in altri paesi
europei oggi è cosa vietata. Perché Evita non era una semplice first lady alla Michelle, a botte di
Telethon e pubblicità progresso, ma una donna di governo. Sicuramente con il
pregio di arrivare ai limiti delle supreme magistrature dal Paese reale.
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