giovedì 6 giugno 2013

Evita, il peronismo al femminile


Eugenio Balsamo

Evita Perón era una popstar femminile ante litteram, un capopopolo tipicamente sudamericano o, più semplicemente, una donna coraggiosa e capace? Sulle grandi figure della storia non c’è mai unanimità, soprattutto quando l’ideologia si insinua nel giudizio. Da oggi c’è uno scritto in più nei cataloghi italiani: è il lavoro di Giuseppe Brienza, Evita Perón. Populismo al femminile (editore Pagine, pp. 120, € 14), con invito alla lettura di Carlo Sburlati. L’opera arriva in un momento particolare e cioè mentre in Argentina muore Jorge Videla, tra i principali responsabili della peggiore pagina della storia nazionale e continentale. E mentre nel nostro paese si fa di tutto per sostenere che destra e sinistra sono categorie estinte, uno degli slogan del peronismo di sempre. Va intanto ricordato l’operato scientifico con il quale si è voluto cancellare quell’esperienza politica (ma prima ancora civica e sociale) che è stato il peronismo, intendendolo nella sua reale portata e non nella degenerazione dei decenni successivi che lo hanno visto proposto in una versione di destra e in una di sinistra. Chi ha seguito la politica del paese sudamericano sa, peraltro, che non si è trattato di normali correnti bensì di personalismi sui quali si sono costruite differenti proposte politiche.
Il libro, a tal fine, argomentando sulla figura di Eva Duarte, ripercorre un vissuto particolare sottolineandone la dirompenza. La sua capacità di ascolto e di “azione” e, prima ancora, quella di radunare, come solo i leader latino-americani sanno fare, nel bene o nel male a seconda dei casi. Le donne e gli “ultimi” entrarono, con lei, in quell’agenda politica inaugurata all’insegna di una terza via ingombrante, come è ora per diversi la presenza di Cristina Fernández. La “presidenta” a lei si ispira e il suo popolo – va detto, con troppa approssimazione – a lei la equipara. Brienza ricorda la visita di Evita a Roma nel 1947 e quei giovani neofascisti che la salutavano a braccia tese. Poi l’arrivo dei giovani di sinistra ad accusarla di essere la moglie di un fascista. E le botte, come allora era abitudine...


Quando è morto Videla, il 17 maggio scorso, solo in pochi hanno sottolineato che a gioire sono stati principalmente i peronisti (quelli nel senso puro del termine, s’intende). La guerra sporca intrapresa dalle giunte militari ha cancellato, oltre che una generazione culturalmente qualificata, un’idea prima ancora che un movimento. E qui si torna a ciò che è destra e sinistra. Perché con facilità – e convenienza – la destra italiana è stata sedotta dall’autoritarismo dei militari facendo passare per reale la lotta al nemico di sinistra. E lo ha fatto ignorando la principale – quasi assoluta – vittima politica di quel massacro. L’ex presidente Carlos Menem, per esempio, non è mai stato disprezzato alle latitudini destre del nostro paese. Eppure, conquistando la prima presidenza con argomentazioni più che peroniste, si è poi lasciato andare alla parentesi liberista più convinta della storia argentina, poi proseguita anche dai radicali (più o meno socialdemocratici, per dirla all’europea). Lo stesso quanto alla resa giuridica e giudiziaria dello Stato nei confronti di chi ha fatto sparire nel nulla trentamila connazionali che Néstor Kirchner ha poi ribaltato.
Quando il Latinoamerica – segnatamente la parte Sud – ha inaugurato un cammino politico diverso l’Argentina non si è sottratta. È stato Kirchner a riportare nell’azione politica quei principi che ricordano una via diversa, se non terza come disegnata da Perón almeno alternativa alla prima, quella che ha fatto comodo nei decenni della velocità capitalista, gli anni Ottanta e Novanta. Non senza errori e malversazioni e vale per lui come per la celebre consorte. Quel rapporto stretto con il chavismo, per esempio, troppo “bandiera a sinistra” seppure con qualche visione comune su economia e maggiore autonomia del subcontinente, ha “destabilizzato” chi nella coppia presidenziale ha rivisto un’idea che sembrava defunta. Ciononostante, è difficile affermare che Cristina Fernández è una leader di sinistra ed è giusto confermare l’inutilità di radiografare la politica latinoamericana utilizzando macchinari impostati su standard europei.
Dunque, bene fa Brienza a non cadere nella suggestiva tentazione di dire che Evita è un’icona della destra. A rileggerla in un turbolento ma inconcludente 2013, la moglie del Colonnello (meglio ricordarlo così che come General) era una perfetta movimentista. Significativo è sottolineare che lei «si votò subito ad un’intensissima attività pubblica, in patria e all’estero, sconvolgendo sensibilità e prassi consolidate dell’establishment nazionale. Infatti, non si era mai vista in Argentina una donna, di appena ventisei anni, che si interessa di politica, che parla in termini semplici di problemi fino allora riservati a uomini anziani, a volte spocchiosi, spesso noiosi, quasi sempre incomprensibili». Come dire che più di sessant’anni fa l’Argentina è riuscita in ciò che in Italia e in altri paesi europei oggi è cosa vietata. Perché Evita non era una semplice first lady alla Michelle, a botte di Telethon e pubblicità progresso, ma una donna di governo. Sicuramente con il pregio di arrivare ai limiti delle supreme magistrature dal Paese reale.


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