mercoledì 12 giugno 2013

Quando i comunisti attaccarono “Ultimo tango a Parigi” (e un avvocato fascista lo riportò nelle sale)


Luciano Lanna

È di quarant’anni fa una vicenda che, raccontata può farci riflettere sul bigottismo consociativo che ha per troppo tempo avvelenato il clima pubblico del paese e rallentato quella richiesta di libertà che saliva forte nel paese, soprattutto dopo gli anni Sessanta. Il 13 giugno del 1973, infatti, scoppia un caso Pci-Urss per Ultimo tango a Parigi, il film di Bernardo Bertolucci che era già stato condannato e sequestrato dai tribunali italiani. La rivista russa Sovetskaja Kultura approva nettamente la sentenza di condanna del film da parte della magistratura italiana e deplora anche il fatto che alcuni giornali “borghesi” italiani abbiano difeso il film anziché chiederne una pena più grave. Il paradosso è che tra questi giornali c’erano anche testate come l’Unità, che era addirittura l’organo del Pci, e Paese Sera, da sempre vicino alla sinistra.
La vicenda di quel film è del resto da manuale. Appena girato, Ultimo tango non ha noie insuperabili in fase di commissione di censura. Qualche lieve sforbiciatura e il nulla osta è ottenuto. Quanto basta però per mettere sull’avviso i magistrati in agguato. Il film comincia infatti la normale programmazione in sala e al quarto giorno lo sequestrano. Il regista, il produttore, lo sceneggiatore e gli interpreti saranno processati a Bologna.


Si arriva però a una prima assoluzione e il film torna in circolazione con un successo strepitoso: oltre sette milioni di spettatori in pochissimi giorni. Allora il pm si appella e il film torna in tribunale. Altri giudici lo giudicano, sempre a Bologna. Prevale la tesi dell’esaltazione del sesso e della “distruzione dei valori morali”. Che la critica internazionale, pressoché unanime, abbia elogiato il film di Bertolucci con Marlon Brando e Maria Schneider non importa ai giudici, i quali condannano stavolta solo gli autori e dispongono il sequestro delle pellicole. Gli imputati impugnano la sentenza in cassazione e i magistrati annulleranno la sentenza. Ma non finisce qui: il procedimento sarà riesaminato da una diversa sezione della corte d’appello di Bologna ma, intanto in attesa dell’ultimo processo, Ultimo tango a Parigi rimane sotto sequestro per un lunghissimo periodo, fino a quando con grandi ritardi verrà messo a disposizione delle sale.
L’eroe di tutta la battaglia fu comunque l’avvocato Gianni Massaro, il legale che riuscì a riportare nelle sale il film. A differenza dei censori, per lo più catto-comunisti, Massaro s’era formato nel Fuan, si definiva missino e sin dall’inizio della sua attività s’era scagliato sistematicamente contro la censura e la caccia alle streghe che – per dirla con le sue stesse parole – aveva “come fine ultimo e come sempre la libertà di pensiero, la cui repressione nasce con la delazione e si esaurisce nel rogo”. Massaro, scomparso qualche anno fa, nel 1976 aveva dato alle stampe un libro con la casa editrice SugarCo del suo amico Massimo Pini: L’occhio impuro. Cinema, censura e moralizzatori nell’Italia degli anni Settanta. Fu lui, insomma, l’avvocato “fascista”, a difendere Bertolucci e Marlon Brando e a riportare nelle sale Ultimo tango. Cosa che fece anche per Il Decameron e I racconti di Canterbury del “comunista eretico” Pier Paolo Pasolini e per tanti altri film: Arancia meccanica, La grande abbuffata, Il portiere di notte, Emmanuelle, Il giustiziere della notte, Amici miei atto II, Il Pap’occhio, C’era una volta in America


Questa era l’Italia (vera) degli anni Settanta. Mentre i sovietici e molti comunisti nostrani erano di fatto allineati al bacchettonismo dei democristiani, Gianni Massaro, l’avvocato con la foto di Mussolini (e un’altra, più piccola, di Almirante) sulla scrivania difese per oltre trent’anni i massimi nomi della cultura cinematografica e letteraria, anche di sinistra, del suo tempo, da Pier Paolo Pasolini a Marco Ferreri, da Federico Fellini a Sergio Leone, da Louis Malle ad Andy Warhol, da Paul Morrisey ad Alain Robbe-Grillet, da Bob Fosse a Luigi Comencini, da Elio Petri ad Alberto Bevilacqua, da Alberto Moravia a Ken Russel, da Citto Maselli a Mike Nichols. Ma questo (come altro) lo sanno coloro che, nonostante tutto, continuano a dichiararsi eredi della presenza postfascista nel secondo dopoguerra?

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