Luciano Lanna
Diceva Mao Zedong che se
grande è la confusione sotto il cielo la situazione va ritenuta eccellente. Si
tratta di una massima che, per stare all’attualità italiana, vale anche per la velocissima
semplificazione del quadro politico-parlamentare italiano che è in atto
attraverso tutta una serie di fenomeni. Non solo per l’irruzione caotica e
confusa del M5S, per l’implosione del centrosinistra e del Pd, per l’estinzione
delle forze parlamentari e politiche di ormai lontana ascendenza missina o,
infine, per l’evidenza ormai di dominio pubblico del soggetto politico berlusconiano
quale semplice e disincantato aggregato di interessi lobbistici.
E cominciamo da uno di questi fenomeni, quello che
ci coinvolge di più: l’irrilevanza della destra, ormai prossima alla sua
estinzione istituzionale e parlamentare. Da questo punto di vista, dobbiamo
dire che se un contenitore, confuso e ambiguo, come quello che convenzionalmente
veniva definito con il termine “destra” esce di scena, maoisticamente non può scaturirne
che una situazione “eccellente” da punto di vista della chiarificazione e della
fine degli equivoci politici. Sotto quel termine (e quello “spazio”, inteso non
solo nell’accezione concettuale) si coagulavano infatti pulsioni, tensioni,
aspirazioni e progetti non sempre coincidenti, definendo una polarità più nel
senso del “vediamo quanti ne mettiamo insieme” che in quello di aggregare
energie coerenti e consapevoli in direzione di una precisa e definita funzione
politica. Sia ben chiaro: la stessa cosa vale per il contenitore, a sua volta contraddittorio
e ambivalente, che per tanto tempo è stato definito “sinistra”. Proprio per
questo c’è solo da essere contenti e soddisfatti della fine delle aggregazioni
che nascevano, sotto l’urto tardivo della guerra fredda, più per mettere insieme
persone contro qualcosa che per quello che queste condividevano realmente tra
di loro. Che poi l’etichetta di “destra”, soprattutto dopo il 1993, sia servita
soprattutto per garantire posti elettivi e istituzionali e tenere compattate (in
una logica partitocratica) persone, ambienti e gruppi, è tutta un’altra storia.
Ci appare quindi incomprensibile la reazione – che traspare da alcuni loro
articoli – di persone che pure conosciamo bene come lo storico Alessandro Campi
e il giornalista Alessandro Giuli, i quali nell’analizzare la crisi finale
della cosiddetta destra italiana sembrerebbero lasciar trasparire una certa
qual “nostalgia” per la destra che avrebbe potuto essere. Di più: quasi un inspiegabile
rammarico per la destra che non c’è più ed eclissatasi solo per una presunta insipienza
della sua classe dirigente… Eppure, noi pensavamo, sinceramente, che i due, in
realtà, avendo mosso la loro formazione in quel contesto – confuso ma
decisamente creativo – che tra gli anni Ottanta e i primi Novanta si era mosso
all’insegna di una sintesi nuova e di una contaminazione tra posizioni, non
avrebbero dovuto provare nessuna nostalgia per fantomatiche destre,
conservatrici o tradizionaliste esse siano. Era quello delle “nuove sintesi”,
del resto, il contesto al quale s’è avvicinato e formato chi scrive, quel clima
che – come ha scritto il politologo Pasquale Serra – aveva portato alcuni da
destra a superare il paradigma neofascista, al fine di “entrare in relazione
con i nuovi fermenti della società civile, ormai non più racchiudibili dentro
l’universo di Marx o di Freud”. È quanto attestava anche il politologo Marco
Revelli, secondo il quale tra la metà dei Settanta e quella degli Ottanta si
espresse un’area di frontiera sensibile a una lettura innovativa degli autori
del pensiero della crisi (Nietzsche, Heidegger, Ernst
Jünger, Carl Schmitt ma anche Ezra
Pound, Céline, Henry Miller…) e a una, contemporanea, rilettura libertaria del
pensiero spiritualista (di Gurdjieff, Steiner, Scaligero, Adriano Olivetti, dello
stesso Evola…) in grado di definire codici adeguati a interpretare la
contemporaneità: “Quell’abitudine al pensiero – sottolineava appunto Revelli –
ha permesso a molti un’evoluzione convergente con l’area democratica delle
culture politiche di questo paese”. È in questo preciso milieu, in cui si tentavano di coniugare modernità e tradizione,
libertarismo e spiritualità, che emergevano quegli esperimenti metapolitici ma
anche movimentisti i quali, tra la fine dei Settanta e la metà degli Ottanta,
hanno accompagnato la cosiddetta Nuova Destra, la generazione Campo Hobbit, la
rivista Linea, alcune mobilitazioni delle
componenti rautiane e niccolaiane del Msi di quegli anni… Niente però nel
complesso che avesse a che vedere, per chi s’era accostato a “quegli ambienti”,
con la creazione di una Grande Destra, conservatrice o reazionaria, niente a
che vedere con pulsioni autoritarie, nostalgiche, patriottarde, stataliste,
razziste, moraliste, integraliste e via dicendo… Era il contesto in cui le stesse
posizioni più evolutive del Fronte della Gioventù e del Msi dei primi anni
Ottanta – garantismo, ecologismo, critica all’imperialismo e all’interventismo
militare americano, mandare la Dc all’opposizione, unità generazionale per il
rinnovamento – definivano una faglia di trasversalismo con altre aree
politico-culturali, soprattutto giovanili: Cl, i Verdi, i radicali, i
socialisti martelliani, etc. etc. etc. Si vada a leggere l’introduzione di
Beppe Niccolai a Fascismo immenso e rosso
di Giano Accame per rendersene conto… E
sul finire degli anni Novanta, non ci si era quasi tutti riconosciuti
nel senso del titolo del bel libro di Stenio Solinas Per farla finita con la destra, divenuto quasi uno slogan? Ecco
perché oggi, quando tutte le ipotesi destrorse sono state sconfitte, chi s’è
formato in quel contesto dovrebbe solo gioire e verificare che già allora si
stava nella posizione giusta… Poi, è vero, tra il 1993 e il 1995, nacque An, e
poi il bipolarismo e il centrodestra, e molti si illusero che si trattasse del
momento tanto atteso. Non fu così per chi scrive, che non aderì mai a quei
progetti, ritenuti anzi come una battuta d’arresto e un passo indietro rispetto
al rinnovamento di cui l’Italia aveva bisogno…
Oggi, comunque, non è solo un bene che il quadro si sia
semplificato attorno ai contenuti e ai progetti piuttosto che ai recinti e alla logica da tifoseria ma tutto questo
dovrebbe essere vissuto e pensato come la realizzazione di un obiettivo a lungo
atteso. Non a caso, come in molti – si pensi solo a Massimo Cacciari – lo dicevamo
infatti da anni e anni: qui ci si deve definire (e dividere) su scelte di campo
reali e scelte concrete non su astratte appartenenze di schieramento (tutte da
verificare). Si è infatti libertari o autoritari? Riformatori o moderati?
Innovatori o populisti? Riformisti consapevoli o, invece, superficialmente
pronti a farsi incantare dalle sirene della propaganda? Insomma, che in Italia
possano nascere polarità attorno a questioni, scelte e programmi non dovrebbe
più essere ormai solo un auspicio ma un processo in atto da favorire e
incrementare nelle sue potenzialità di sviluppo.
“Destra addio”, allora? Certo, e forse era pure ora!
Oltretutto, la scomparsa di una capacità attrattiva e propulsiva definita da
questa (come da qualsiasi altra omologa) etichetta topografica sarà secondo noi
preliminare alla ridefinizione di un contesto generale di ri-mobilitazione
politica. In questo processo di semplificazione, penso anche che il ruolo
svolto – magari inconsapevolmente e forse anche “suo malgrado” – da Gianfranco
Fini sia stato determinante e decisivo. Non solo, infatti, la sua clamorosa e
plastica rottura con Berlusconi ma, soprattutto (e più nel profondo), i suoi cosiddetti
strappi dal 2003 in avanti hanno via via rotto l’incanto di pensare il
confronto politico solo come un gioco di collocazione spaziale nei termini “o
di qua o di là”. Riportando, finalmente, la dialettica politica attorno alle
questioni reali e schmittianamente “decisive”: diritti o no agli immigrati? “Ius
soli” o “Ius sanguinis”? Cittadinanza estesa o no ai nuovi italiani? Riforme economiche
e sociali oppure chiusura nei meccanismi consolidati? Adesione consapevole e
convinta a uno Stato garante di diritti oppure scorciatoia autoritaria in nome
della solita ragion di Stato?
L’errore, se errore c’è
stato, è stato semmai quello di non essere andati fino in fondo nel dire che il
Re è nudo e che la politica è altro dall’identificazione e dalla
rappresentazione di un oggetto e uno spazio definito destra. L’evocazione da
parte di qualche giornalista e studioso vicino a Fini di una presunta “destra
nuova” o di altre amenità simili hanno solo ingenerato confusione, equivoci e sollecitato
illusioni in coloro che minimizzavano e disinnescavano la portata degli strappi
di Fini parlando banalmente della costruzione di “un’altra destra”.
Operazione che era tutto
l’opposto, per fare un caso che mi ha coinvolto di quell’enorme azione di
destrutturazione e ri-definizione attraverso l’immaginario che è stato compiuto
scrivendo e pubblicando Fascisti
immaginari. Rileggendo infatti tutti gli autori, i filoni, le opere, le
suggestioni estetiche, le icone che hanno attratto e rappresentato un certo
mondo – che era quello del neofascismo più evolutivo e del post-fascismo più
innovativo e mutuatosi sulle orme del cosiddetto, affascinante anche se ambiguo
e contraddittorio, “fascismo di sinistra” – emergeva in primo piano un’essenza
che, in modo trasversale e in tutta la sua complessità spesso anche
contraddittoria, si fissava in una matrice indiscutibilmente libertaria, oltre
la destra e la sinistra. Che spesso non era né rivendicata né teorizzata
consapevolmente – ma semmai anche rimossa e censurata nel discorso pubblico –
ma che però restava come determinante e sintomatica, quasi fosse il comune
denominatore impronunciabile di tutta un’antropologia e una geografia
simbolica. E proprio da questo particolare approccio – fondato sull’immaginario
– transitavano la passione di certi ambienti per autori irregolari e di frontiera
sia, come ha acutamente annotato Simonetta Fiori su Micromega, il “rileggere in chiave libertaria alcuni esponenti
della cultura della crisi”, al fine di interpretare adeguatamente la complessa
grammatica dei diritti nella società del Novecento. Non a caso interrogare seriamente alcuni degli
autori presentati e “liberati” in Fascisti
immaginari – da Giuseppe Berto a Gaspare Barbiellini Amidei, da Indro
Montanelli a Hugo Pratt, da Max Bunker a Lucio Battisti, da Beppe Niccolai a Gualtiero
Jacopetti, da Roberto Calasso a James Hillman, da Enrico Ruggeri a Giampiero
Mughini – non conduceva affatto a intercettare un universo di nicchia e recintatosi
a destra ma, semmai, a liberare da ogni ghetto una cultura (anche politica) a
vocazione potenzialmente maggioritaria. E che “di destra” proprio non era…
Giuseppe Berto, scrittore di best seller e
sceneggiatore di film di successo, era stato prigioniero non cooperatore a
Hereford, era stato pubblicato da Leo Longanesi, era avverso all’antifascismo
ma non si definiva certo di destra. “Io non voto”, disse qualche mese prima di
morire nel 1978, “io il mio dovere lo faccio scrivendo: ho votato due volte per
un amico socialista e quando mi sono accorto che non capiva nulla ho smesso di
votare…”. E lo stesso Hugo Pratt, di famiglia fascista e il cui Corto Maltese
ha affascinato come quasi nient’altro l’immaginario neofascista, si definiva
oltre le categorie, simpatizzò con i socialisti e i radicali… Gli esempi
potrebbero essere ancora moltissimi, ma non servono. Rileggendo Fascisti immaginari – il libro che ho
scritto con Filippo Rossi – si potrebbe comprendere come il meglio di tutto un
immaginario si sarebbe potuto esprimere solo e soltanto “oltre la destra”, oltre
quella logica, insomma, che qualcuno ha voluto chiamare “identitaria” ma la
quale in realtà avrebbe dovuto essere correttamente definita “autoreferenziale”
e “autosufficiente”…
Tutta questa potenzialità e
questo particolare impasto di contaminazione è stato poi ben rappresentato dal Secolo d’Italia tra il 2005 e il 2011,
nel periodo in cui ne sono stato caporedattore e poi direttore responsabile (pur
essendo io un giornalista indipendente che non aveva mai aderito ad An) e che
va ben oltre la pur importante attenzione verso artisti come Jack Kerouac, Guccini,
Vasco Rossi, Nanni Moretti o De André apparsa su quella testata (e che molti
detrattori hanno rilevato come se fosse stata l’unica azione allora svolta su
quelle pagine). Forse non è bello e non è professionale passare alla prima
persona ma, soprattutto dopo che è uscito un libro sulla storia di quel
giornale e questa fase è stata completamente annullata o oscurata, è il caso di
ricordarlo in quanto è estremamente utile ai fini di tutto il ragionamento che
stiamo svolgendo. Di quel Secolo (non
mi riferisco ovviamente, alle cose che si pubblicavano per ordinario dovere di
cronaca e necessità di seguire alcune vicende, e che sono le stesse che si
pubblicavano anche prima e dopo…), infatti, diventarono firme autorevoli, di prima pagina
o con rubriche fisse, miei amici e persone con cui avevo un’interlocuzione da
anni come Fiorello Cortiana, che provenendo da Lotta Continua aveva fondato col
suo amico Alex Langer i Verdi in Italia; come l’ex vicesindaco craxiano di
Torino Enzo Biffi Gentili; come Umberto Croppi, Peppe Nanni & Monica
Centanni, ovvero l’esperienza più coerente e conseguente della generazione neodestra
e dei Campi Hobbit; come Omar Camiletti, ex indiano metropolitano e
protagonista del ’77 romano prima di diventare un esponente autorevole
dell’Islam italiano; come l’ecologista “profondo” Eduardo Zarelli; come Pier
Paolo Segneri e Francesco Pullia, rappresentanti del partito radicale; come il
vaticanista Gianni Valente, ex ciellino e autorevole esponente di un certo
mondo cattolico; come l’ex militante di Amnesty Giuliano Compagno... Per non
dire degli articoli di un ex di Lotta Continua come Leonardo Tirabassi, del
recupero delle firme di Franco Cardini e di Giano Accame, dei contributi
“gratuiti” di Giampiero Mughini, di Pierluigi Battista, di Antonio e Gianni
Pennacchi, dei disegni regalati da Pablo Echaurren, del dialogo in prima pagina
con Alberto Asor Rosa… Se a questi apporti si aggiungono le scelte che personalmente
volli in prima pagina e provenienti dal meglio della redazione (come l’articolo
sulla necessità di capire il veltronismo o il primo “attacco” al velinismo
berlusconiano) si potrebbe capire come e perché quel giornale in quella fase
era diventato “interessante” ed era finito nella “strategia dell’attenzione”
degli addetti ai lavori. Invito chiunque ad andare a vedersi nella collezione del
Secolo di quegli anni i temi, i
libri, gli autori sui quali creammo interesse e sconfinammo riuscendo
oltretutto a trasformare quella testata in un foglio autorevole e consultato
dagli altri giornalisti. Fu inevitabile, comunque, la sintonia tra questo
lavoro e quanto andava maturando e determinando Gianfranco Fini nello stesso (e
parallelo) periodo… Apertura ai diritti degli immigrati, rivalutazione del
Sessantotto, scioglimento degli equivoci sul razzismo e l’antisemitismo, fine
delle posizioni legge & ordine, emersione inedita di un post-femminismo
nuovo e complesso, dialogo con la sinistra più aperta… D’altronde anche i
numeri di Charta Minuta, la rivista
di Fare Futuro, cui collaborai con alcune idee (sulla questione giovanile, sull’immaginario,
sul no al cattivismo e al politicamente scorretto) estesero la percezione di
questa “rupture”con la destra e avviarono l’interlocuzione con intellettuali
come Gianluca Nicoletti, Franco Bolelli o Giuseppe Conte… Era destra o sinistra
tutto questo? Ma chi se ne fregava… Era, semmai e finalmente, la prospettiva di
una sintesi nuova e potenzialmente maggioritaria, tanto che questa sensibilità
si ritroverà, pur frammentata, in tante battaglie degli ultimi anni: dalla
primavera referendaria del 2012 all’astensionismo consapevole più recente, dalle
aperture trasversali di Pisapia e Crocetta sino a certi temi evocati (e spesi
male) da Beppe Grillo…
Che io personalmente
sollecitassi una maggiore determinazione su questa linea potrei anche argomentarlo
con un piccolo ma significativo episodio. Quando l’editore Coniglio ci propose
di raccogliere il meglio degli articoli del Secolo
e di Charta Minuta che attestassero
l’emersione di questo nuova soggettività politica feci infatti di tutto – ma
non li convinsi – a non titolare come poi decise l’editore In alto a destra, propendendo per ipotesi più corrette come Oltre la destra o ancora meglio, Più “nuova” che “destra”… Sul destino
dell’aggregazione attorno a Fini, oltretutto concordo in pieno con Umberto Croppi:
“Doveva diventare il coagulo di una aggregazione
di tipo nuovo, più vasto, con altri protagonisti. La costituzione di un
partito, che Fini stesso ha subito, tant’è vero che più volte ha parlato di un
superamento di Fli, era una necessità di passaggio molto limitante, che
conteneva già nella sua nascita tutti gli elementi che l’hanno poi portato a
diventare un frammento…”. Concordo, anche perché ho dal mio piccolo sempre
messo in guardia – anche con articoli su Il futurista – dalle tentazioni
minoritarie che consistevano nel ritagliarsi uno spazio da destra
laico-liberale (sulle orme da consenso “zero virgola” da vecchio Pli e
inseguendo posizioni equivoche sui cosiddetti temi etici, quando sarebbe
bastato seguire cattolici come Franco Cardini o Giovanni Reale) o quello da
destra giustizialista “alla Travaglio”. Per non dire dell’equivoca percezione
“centrista” fatta passare per ragioni tattiche ed elettorali. Lo spazio
naturale era invece quello che aveva portato alle sintonie con Massimo
Cacciari, con Giacomo Marramao, con Roberto Vecchioni, con il Premio Strega Antonio
Pennacchi, con Umberto Ambrosoli, con Antonello Venditti, con gli studenti in
protesta sui tetti di architettura a Roma, che aveva portato al recupero dei
rapporti con figure come Tomaso Staiti…
Ripeto: il fallimento della (successiva)
involuzione residuale, piccolo-partitica (e tardo-destrorsa) cui Fini ha dovuto
alla fine soccombere (anche per ragioni di compromesso con i parlamentari ex An
che l’avevano seguito nella rottura) non inficia però minimamente la giustezza
dell’intuizione iniziale e la conseguenza finale degli “strappi”. L’aver spinto
su “quel” metodo sta – seppure ancora faticosamente e con un travaglio pur complesso
e articolato – riconducendo infatti tutta
la politica italiana a doversi ridefinire. E che Gianfranco Fini abbia
contribuito a far finire il “mito incapacitante” di costruire una destra in
quanto tale è comunque – la conferma starà agli storici e ai politologi di domani
– un suo oggettivo merito politico. Il resto, sta a chi saprà interpretare e
guidare i processi che verranno. Ma il punto di non ritorno è stato senz’altro
segnato. È il caso di ripetere quell’aforisma di Nietzsche che era molto caro
ai tanti irregolari (anche probabilmente a quelli oggi pentiti) dei primi anni
Ottanta: “Abbiamo lasciato la terra e ci siamo imbarcati sulla nave. Abbiamo
tagliato i ponti alle nostre spalle, e non è tutto: abbiamo tagliato la terra
dietro di noi. Ebbene, navicella: guardati innanzi! Guai se ti coglie la
nostalgia della terra, come se là ci fosse stata più libertà. E non esiste più
terra alcuna”.
Quanta emozione suscitano la verità e l'esercizio di una funzione inquieta come la buona politica e non solo la buona intellettualità richiedono. Non fermiamoci Luciano :-)
RispondiEliminae chi si ferma?! andiamo sempre avanti...
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