Francesco Pullia
È il 1967 quando
Luigi Mario, romano, classe 1938, appassionato di sci e di scalate, con un
posto fisso in banca, spinto da un impellente bisogno di ricerca interiore, in
un periodo di grandi fermenti culturali, molla tutto e se ne va in Giappone per
entrare direttamente in contatto con la tradizione zen. Non è un uomo di mezze
misure né un intellettuale salottiero, ma un sincero cercatore di verità che
vuole sperimentare su di sé un’alternativa di vita alla società dei consumi
senza lasciarsi irretire da allettanti, quanto illusorie, ideologie di comodo.
Finisce nel monastero Shofukuji di Kobe,
dove diviene servitore personale del roshi
(anziano maestro) Yamada Mumon che, dopo averlo messo duramente alla prova, lo
ordina nel 1971 monaco con il nome
di Engaku Taino. Due anni dopo si sposa con Kiyoka e decide di tornare in
Italia. Acquista un casale con terreno a Pian del Vantaggio, in una zona
collinare nei pressi di Orvieto e lo ristruttura per fondarvi Scaramuccia
Bukkosan (Montagna della luce di Buddha) Zenshinji (tempio del cuore zen),
primo centro zen europeo. Non soltanto un luogo dove meditare e praticare
secondo la tradizione Rinzai zen (derivante dalla scuola del cinese Lin Chi, in
giapponese Rinzai Gigen, vissuto nel IX secolo), ma un posto divenuto ben
presto punto di riferimento per chiunque voglia avvicinarsi al buddhismo anche
tramite approcci desueti come l’arrampicata.
Scaramuccia, si legge nell’apposito sito (www.zenshinji.org),
non persegue intenti fideistici e tanto meno di proselitismo: per potere farne
parte è necessario aderire, nel profondo dell’animo, ai quattro voti dei bodhisattva (salvare tutti gli esseri,
estirpare le brame, comprendere tutte le leggi, realizzare l’illuminazione) e
agli otto rivolti al sociale (per l’accettazione, per la solidarietà, per la
sincerità, per l’uguaglianza, per la parità tra i sessi, per la libertà, per la
benevolenza, per il rispetto di ogni esistenza). La peculiarità
dell’insegnamento di Taino sta nell’avere saputo innestare nel solco di un
lignaggio secolare contenuti fortemente innovatori, tanto da fare storcere il
naso a chi si volge al buddhismo non con spirito di apertura, antidogmatico,
come dovrebbe e come ha incessantemente esortato a fare lo stesso Buddha
storico, Sakyamuni, ma con la mentalità
codina, bacchettona, tipica di tanti frustrati occidentali.
Dopo l’infatuazione sessantottina, culminata purtroppo nel
settarismo e nel rovinoso irrigidimento ideologico, e dopo l’impietosa caduta,
negli anni Novanta, delle grandi narrazioni che avevano fatto da sostrato a
velleitarismi non senza esiti violenti, alcuni non hanno avuto nulla di meglio
da fare che tentare di sopire il proprio smarrimento per la perdita di
referenti “forti” gettandosi, a corpo morto, nel buddhismo con enfasi, per così
dire, dogmatico-clericale. Di qui distorsioni, fanatismi, ebetismi, vane
pretenziosità miracolistiche. In realtà, il buddhismo costituisce uno degli approcci spirituali
più laici ed equilibrati all’esistenza, insistendo non sul potere salvifico di
qualche grazia o sull’intervento divino, ma sulla responsabilità individuale,
sulla nostra capacità di cambiare la mente per realizzare la vacuità di tutto.
Engaku Taino, in questo senso, svolge un ruolo molto importante, perseverando
lungo scomodi sentieri.
In Buddismo contemporaneo (Iacobelli editore, €
15,00), l’ultimo suo libro che raccoglie, come recita il sottotitolo, “48 koan
(aneddoti, brevi racconti, spesso paradossali, adoperati nello zen con lo scopo
di stimolare la comprensione della vera natura delle cose, ndr) per donne e
uomini d’oggi”, ce ne parla lui stesso: “Le
modifiche che ho introdotto hanno avuto come conseguenza lo strappo nelle
relazioni con il mio vecchio monastero, ma ritengo siano state necessarie
perché la cultura qui in Italia è diversa e lo zen è una via di conoscenza che
ha valore universale; è una pratica, o una filosofia messa in pratica, che non
bisogno di regole ferree o di una codificazione univoca sono convinto che lo
zen si debba de-giapponesizzare, così come i giapponesi lo hanno de-cinesizzato”.
Di
qui la “libertà” di coniare nuovi koan. A questo proposito, Taino ammette di
essere ben consapevole della loro differenza con quelli trasmessi dalla
tradizione, ma diversi sono, d’altronde, il contesto storico, culturale,
sociale in cui sono stati concepiti e i destinatari cui sono diretti. In Buddismo
contemporaneo vengono proposti koan derivati da due raccolte del maestro
risalenti al 2003 e al 2005. Il numero 48
non è causale ma è in onore del Mumonkan (letteralmente “La porta senza
porta”) tra i testi più studiati del buddhismo zen (in italiano lo si può
trovare nelle traduzioni pubblicate da Astrolabio Ubaldini e Adelphi, ma anche
Taino lo ha tradotto ed edito in proprio nel 2009) compilato nel XIII secolo
dal cinese Wumen Hui-k'ai (in giapponese, Mumon Ekai, 1183-1260).
Fondamentali
nella pratica zen, i koan, come sottolinea Taino, sono indispensabili per
vivere impeccabili nel mondo, intendendo per impeccabilità la
condizione che consente di occuparci di tutto ma dalla giusta distanza,
sì da non lasciarci sconvolgere dagli accadimenti.
“Chi immagina che l’illuminazione faccia
vivere in uno stato di estasi perenne o di gioia ininterrotta, sbaglia”,
spiega Taino. Vivere con e in consapevolezza significa, allora,
continuare a vivere come sempre ma “immedesimati
in quello che svolgiamo, presenti a noi stessi, sereni nel sapere che qualsiasi
azione si compia, a livello assoluto non accade nulla”. In altri
termini, in ognuno di noi è intrinsecamente presente la natura di Buddha, ma un
conto è saperlo, un altro sperimentarlo. Per farlo, dobbiamo realizzare
l’assoluto nel relativo.
Nell’assoluto
“niente è impossibile e tutto vi è
compreso”, nel relativo, invece, bisogna sapersi adattare, imparare a
compiere scelte, nella consapevolezza che queste ultime varranno solo per il
contingente e non in assoluto. Non ci sono parole per descrivere questa
condizione. Occorre solo esperirla, trovarla da sé. Una volta che lo si è
fatto, realizzando il vuoto, si diventa “impeccabili
per il mondo”. Il punto sta nel vivere la quotidianità attraverso il “lasciare andare”. Come scrisse nel
XII secolo il maestro Engo Kokugon: “Lasciate
andare, e anche le tegole e i sassi emettono luce; tenete stretto, e anche
l’oro vero perde il suo colore”. Pensati per metterci faccia a faccia
con la relatività di tutti i giorni, questi koan ci insegnano che le condizioni
esterne devono essere sì affrontate e comprese, tenendo, però, ben presente che
“nemmeno un granello di sabbia”
è reale.
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