Marina Maugeri
Correva l’anno 1788, quando Goethe visitò «Il
Cenacolo di Leonardo» e l’ammirazione fu tale che tornato in patria il sommo
letterato aggiunse allo stupore la “vena dell’erudita”, dedicando un’opera
intera al dipinto milanese del maestro di Vinci. Il capolavoro divenne quasi un
sogno estetico, fatto del substrato di pigmenti decoesi che rimandavano la
visione di una materia instabile e caduca, ormai “cadavere” agli occhi
dell’illustre visitatore. La suggestione, quasi decadente, minimizzava ogni
risvolto religioso e, cedendo allo sforzo psicologico di comprendere il dramma
umano, escludeva ogni riferimento sacramentale, presente invece nella critica
precedente e indissolubile dalla raffigurazione. Come noto, il degrado della
pittura era dovuto al fatto che Leonardo amava sperimentare i colori stesi a
secco, mescolandoli con l’olio come medium
per ottenere effetti di trasparenza che erano congeniali al suo estro,
preferendoli di gran lunga all’uso antico del “buon fresco” che assicura
un’eccezionale durevolezza delle superfici pittoriche, ma si deve realizzare
con tocchi certi sull’intonaco ancora bagnato.
Spesso i romantici e gli illuministi, sospinti
dall’entusiasmo per la grandezza dell’arte del passato, cercarono di spiegare la
cultura attraverso l’estetica degli oggetti, offrendo gli “oggetti” a un’Europa
che già conosceva il gusto dell’antichità, ma che fino a quel momento aveva
ritenuto che fosse la storia a doversi inchinare davanti alle “cose” antiche e
non viceversa. L’estetica romantica impose, perciò, alla società del tempo
un’immagine del Rinascimento su cui aveva proiettato eccessi e piaceri dettati
dai propri impulsi, dal disagio verso la morale borghese, cui contrappose il
“condottiero”cinquecentesco, facendone un eroe immorale sprofondato nel lusso e
nella cupidigia, che promanava una demoniaca volontà di potenza, tinta con l’oro
e la porpora dei grandi ritratti rinascimentali.
Ma il Rinascimento era stato tutto tranne che
romantico e non differì affatto, quanto a durezza e spirito pratico, dall’epoca
da cui era scaturito. Anche in campo artistico si era posto in connessione con
la cristianità medioevale, senza fratture dal Medioevo ai tempi nuovi, i quali
sorsero proprio dalle immense energie suscitate dalla spiritualità e dalla
cultura cristiane. L’eclettismo, così spesso associato alla specificità del
genio rinascimentale, risiedeva nell’attitudine al “mestiere”che era stata una
virtù spiccatamente medioevale, ereditata dal Quattrocento e anche l’ascesa
degli artisti a livello di poeti e dotti, attribuita alla loro alleanza con gli
umanisti, era prevalentemente dettata dall’espansione della ricchezza nelle
città e non fu un fenomeno osteggiato dalle antiche corporazioni medioevali, mentre
gli artisti inseguirono sempre un’autonomia di pensiero, conquistando una fama
e un prestigio di gran lunga superiore agli umanisti, proprio grazie a
quest’impulso.
Quando Leonardo giunse a Milano, lasciando
Firenze, mosse verso questo obiettivo, ponendosi in aperta rottura con la
cerchia neo-platonica che si stringeva intorno a Lorenzo, il quale osteggiando
ogni forma di attività politica nella città non poteva che rallegrarsi del
“vero” filosofo che moriva alle cose terrene, innalzandosi esclusivamente al
mondo astrattamente sublime delle idee. Leonardo amava, invece, talmente l’esperienza
concreta della realtà da impastare i colori, confondendovi dentro la sua stessa
persona e riteneva la pittura, muta solo per difetto, superiore alla poesia a
cui, con uguale diritto, si sarebbe potuto rimproverare di essere cieca. Niente
avrebbe potuto perciò segnarlo più di ”eresia” agli occhi di quei neoplatonici
che in fondo ambivano sostituirsi alla Chiesa e all’etica del mondo
cavalleresco, promuovendo l’arte, ma imponendo le vedute di un’élite
illuminata, che intendeva surrogare gli ideali spirituali e quelli improntati
all’eroismo e all’umanità cavallereschi, con i nuovi rapporti sociali ispirati
ai concetti di signorilità e buona educazione. Fu per questo motivo di fondo
che tutti i grandi artisti del Rinascimento, se da un lato godettero della
protezione degli umanisti con i quali regolavano i loro rapporti alle necessità
di produzione, dall’altro aspirarono sempre a una ricerca espressiva
indipendente, ingaggiando nei confronti di queste elite una tenzone che li vide
infine vincenti.
L’arrivo del maestro di Vinci nel contesto
milanese è intriso, dunque, di questi fermenti e segna l’amaro passaggio
personale che si consuma con l’abbandono della Città dove Leonardo si era
formato, ma da dove il suo genio creativo era stato progressivamente
emarginato. Leonardo che non avrebbe mai nemmeno riconosciuto “laudabile”un
artista“ se costui non si fosse fatto “universale”, nel Cenacolo suggella una
sua visione, ammettendo, infatti, una chiara identificazione con la propria
opera.
“Finalmente, visitatore carissimo, quelli che
scorgi son lacerti di me, fattomi, da fiorentino, milanese”. Così, in modo
lapidario il Maestro presentava se stesso e la“parete” che conduceva al centro
del Mistero di tutta la dottrina cristiana, quello Eucaristico.
Il soggetto stesso del Cenacolo presuppone una“scena”
radicalmente storica e trascendente che racchiude un senso sul piano cosmico propria al cristianesimo, che non è una
filosofia astratta, né un moralismo, ma poggia sulla Rivelazione di un mistero
che si fa conoscere con un’esperienza reale, un fatto realmente accaduto. L’opera osservata inizialmente dal visitatore
finisce perciò per scrutarlo, interrogandolo nelle sue più buie profondità,
perché se il colore del Cenacolo, appare notevolmente abraso, la composizione
mantiene invece intatta la vivezza e la forza espressiva della visione
rinascimentale che le deriva dall’unità degli elementi figurativi che si
colgono in tutte le parti, spostandosi simultaneamente sia nel tempo che nello
spazio. Artista del limite e dell’illimitato, Leonardo concepisce il passaggio della Pasqua come un’immagine
che immerge fisicamente il visitatore in un senso scritturale “rivelatore”che
non vuole essere affatto rassicurante, perché la Sapienza che muove il suo
pennello porta dentro uno scompiglio, percepito perfino dalla critica moderna
come un’inquietudine che esprime tutto il senso profondamente anti-romantico
della visione rinascimentale e leonardesca. L’opera di Leonardo si lega perciò alla
bellezza di un’intuizione profonda che risuona in “un mistero destinato a
durare finché durerà l’uomo” e che dice del “carattere unico ed eccezionale
della storia divina”, che si riscontra nella storia umana, proprio perché la
storia umana ha le sue radici nel divino e gli uomini hanno questo altissimo
lignaggio scritto come verità nel loro cuore.
E l’immagine di Leonardo vuole comunicare proprio
questa Verità, rivelandola a sua volta al “visitatore”. Veritas in greco è Aletheia,
letteralmente il non oblio, le cose che sono rivelate proprio perché non sono
più nascoste, il non segreto. E’ la realtà autentica perciò che si rivela,
opponendosi a quella apparente, come Aletheia si oppone a Lethe, il fiume infernale dell’oblio che
fa scomparire le tracce nella sua corrente e le nasconde con il passaggio delle
acque, producendo sonno. Aletheia scorre perciò in una direzione opposta
di significato. Le cose nascoste portano al sonno e allo stordimento, le cose
che invece non sono più nascoste risvegliano. Aletheia rivela ciò che è stato nascosto sul fondale di un fiume
torbido, sul fondo dello scorrere del tempo fin dall’origine del mondo. Che
cosa sono queste cose nascoste?
Il “Cenacolo” dà immagine all’episodio dei
quattro Vangeli, colto nell’istante spaziale e cosmico in cui Gesù pronuncia la
grave frase che riguarda Giuda e che getta l’intera comunità degli apostoli in
un immediato stato di sgomento. Ma la raffigurazione di quest’istante ha una
potenza che si dilata nel tempo, al punto da contenere già il dramma
successivo, diviene un istante che contiene il tutto, quello che è e ciò che
deve ancora accadere.
Leonardo inventa una situazione innovativa
rispetto all’iconografia con cui la pittura si era cimentata su questo stesso
tema, impostando la figura di Gesù al centro della scena e dipingendolo di
dimensione sensibilmente maggiori rispetto agli apostoli, facendo partire da
questo punto i raggi prospettici che si lanciano all’esterno nella direzione
degli altri personaggi, rimarcando in tal modo l’assoluta regalità di Cristo. Gesù è l’Uno isolato, insigne e maestoso, è
il Sovrano, da cui emana il silenzio, l’angoscia e l’amore, simultaneamente
presenti sul volto nobile dagli occhi lievemente abbassati. Gesù entra con la
sua angoscia e la sua umanità nella propria paura per spezzare la morte, ma il
“male” non ha alcuna presa sul suo volto da cui non traspare furore, solo l’intensità trasparente di
un Amore invincibile. L’angoscia del nulla
è spesso toccata dalla visione leonardesca che lascia intravvedere risposte
abissali, in cui le sue debolezze e le sue qualità umane si fondono, sottraendo
la sua personalità ai pericolosi risvolti dell’idolatria per il genio.
Il cristianesimo non è una religione che si
occupa dell’angoscia per spiccata sensibilità umanitaria o come problematica
psicologica, né s’identifica in un passaggio
di stato che prevede l’annullamento catartico della sofferenza. E’ la religione
del Logos incarnato, del Dio che facendosi Uomo ha provato l’angoscia che
ciascuno prova nei suoi più tremendi significati, un Dio che la rivela e la
assume su di sé per amore dell’uomo. Il tema del dipinto leonardesco
rappresenta perciò concretamente il paradosso dell’Uno e del Molteplice, dell’Uno contro tutti, dei poli opposti che
si escludono, laddove l’Uno però non è un’entità metafisica o numericamente
astratta, ma è una Persona, è il Dio incarnato, la vittima innocente che rivela
il vero volto di Dio, nel momento stesso in cui appare il vero volto dell’uomo.
Il nulla e la bellezza sono opposti cristianamente tenuti insieme, perché se la
Croce è un punto di fallimento dove i sogni interrompono la loro corsa, il nulla è già parte della Resurrezione e
annuncia il tempo che precede la pietra che rotola via, ciò che segna il
momento in cui accade qualcosa di umanamente inconcepibile: Dio vince il nulla.
La bellezza, dunque, è la trascendenza stessa
che si fa visibile nel fenomeno e oltre l’apparenza, è il segreto che
costituisce la trama della realtà autentica dell’uomo che si rende presente,
riassumendosi tutta nel volto di Cristo, il vero volto di Dio, che è l’Amore di
Dio, cui l’uomo somiglia.
Leonardo riesce a rappresentare qualcosa di
irrappresentabile che solo la teologia potrebbe adeguatamente commentare, la
sua opera dà conto dell’esperienza simbolica e storica che è la vera fondazione di Dio, evento che nel
Cenacolo si mostra anche visivamente con la creazione dell’uomo nuovo che il
mistero sacramentale sottende.
L’esperienza artistica del Maestro di Vinci,
in particolare quella della pittura, è connotata dalla concretezza del simbolo
che fa della sua arte un’opera quasi miracolosa, perciò superiore alla poesia.
Come pittore Leonardo manifesta l’atteggiamento religioso del suo spirito
artistico, aspira e sente d’essere “il signore d’ogni sorte di gente e di tutte
le cose”che si riflette nello specchio della riproduzione del mondo ed è,
perciò, anche antropologo e filosofo. Quando dispone i discepoli in gruppi di
tre, immagina di raffigurare dei campioni a tre teste in relazione fra loro,
descrivendo con lucidità una comunità che converge nel suo insieme nella crisi, ciascuno dei presenti con il
proprio bagaglio psicologico, simbolicamente richiamato da oggetti o gesti, che
sarà scardinato da quanto accadrà successivamente, quando ognuno dei presenti
si scoprirà diverso da ciò che credeva d’essere. Da qui, gli oggetti, i volti
inquietanti, le espressioni sconvolgenti, tutto un apparato simbolico che conduce
al centro dello scompiglio, la Croce, luogo in cui gli apostoli sono sospinti e
dove vivranno l’esperienza del fallimento, diventando al tempo stesso
inconsapevolmente parte del piano di Redenzione di Dio.
Parlare dell’immagine di Dio, del Logos
incarnato, non è perciò possibile senza parlare anche degli uomini. La figura
di Giuda, il cui volto è stato purtroppo alterato nella fisiognomica da
inopportuni rifacimenti, si dissimula nel terzetto dove Leonardo colloca anche
Pietro e Giovanni. Giuda attesta inequivocabilmente la presenza del “male”, il
peccato da cui non riuscirà più a svincolarsi e che gli fa ancora impugnare la
bisaccia gonfia di denaro, segno del “possesso” e del prezzo del riscatto con
cui le Autorità religiose hanno barattato la vita di “uno in cambio della salvezza dei molti,” mettendo in moto il processo a Gesù che dovrebbe attuarsi come
la fatalità di un meccanismo nascosto.
L’apostolo è solo una mera pedina di quel
“male”che Gesù sta denunciando alla luce del sole. Il sacrificio, simboleggiato
dal piatto sulla mensa davanti a Gesù, non è, infatti, mai riconoscibile agli
uomini, i quali lo percepiscono solo come un meccanismo naturale, nascosto nel
molteplice, negli insiemi, nei gruppi, nelle classi, dissimulato nelle
istituzioni sociali, misconosciuto negli ordinamenti in cui la comunità tenta
di mimetizzarlo come fosse un funzionamento naturale, da cui trarre un
effettivo vantaggio “economico”.
Giuda è in relazione con gli altri, partecipa
di quello stesso turbamento che scuote gli apostoli e che fa tutt’uno con la turba che si assieperà davanti a Pilato,
manifestando la perturbazione che sradicherà la Ragione, il Diritto, le
istituzioni, l’amicizia, le relazioni, gli affetti, lasciando gli uomini privi
della loro fondazione violenta e scatenando la loro stessa violenza sul capro
espiatorio. Turba significa
letteralmente non avere pace, non conoscere tregua. Di
lì a poco, il disordine avvolgerà tutta la terra, che precipiterà nel buio
dell’eclissi mentre una grande tenebra avvolgerà tutti i presenti. Tutti,
infatti, saranno risucchiato in questa turbolenza il popolo, Pilato, Pietro,
Giuda, tutti ad eccezione dell’imputato.
L’annuncio di Gesù
getta nello scompiglio nella stessa misura in cui conduce l’uomo al centro dei
suoi inganni, consentendo che il mondo fondato sull’odio non esista più.
Leonardo nel sottolineare la sovranità di Cristo conferma la vera origine della
Storia, la sua sovranità di Gesù, infatti, non è solo l’Autorità che si
esercita in uno stato ordinario, la sua regalità ha qualcosa di eccezionale, é
il miracolo che rivela la vera
origine del potere e che si manifesta compiutamente con la potenza della
Resurrezione e la rigenerazione dello Spirito.
La geometria del Cenacolo dice di Colui che
prima ancora dell’ultimo commiato aveva già affermato senza mezze misure “chi non è con me, è contro di me” e che
ora decide gli eventi, attuando un sistematico rovesciamento dei ruoli, a
cominciare dal suo stesso arresto nel Getzemani, quando si assiste a una scena
quasi grottesca e nonostante Giuda conosca bene il suo Maestro, è Gesù stesso a
farsi avanti autodenunciandosi, mentre i militi accorsi in gran numero armati
di lampade e spade per catturarlo indietreggiano come impauriti, cadendo
perfino a terra. I catturatori diventano i catturati da un Uomo disarmato che
non oppone alcuna resistenza. In questo modo Gesù ribadirà a Giuda quello che
sta annunciando proprio nel Cenacolo, che non è la paura a decidere la storia.
Le parti si rovesciano, il meccanismo dell’accusa s’inceppa, perché il
capovolgimento della prospettiva di una rappresentazione umanamente logica
rivela una realtà più profonda dell’apparenza, destinata a sconvolgere
l’assetto del mondo. Ecco dunque, che Leonardo fa impugnare a Pietro il
coltello con cui il discepolo entrerà in azione, recidendo l’orecchio di un
esponente della casta sacerdotale, sentendosi perciò un audace difensore del
suo Maestro per poi, di lì a breve, scaldarsi allo stesso fuoco dei soldati del
sommo sacerdote, dove sarà costretto a vedere se stesso come un discepolo che
fa gruppo con gli aguzzini di Gesù. Così, non diversamente da Giuda, dopo il
canto del gallo anche Pietro riceverà la sua sentenza: non è il discepolo
coraggioso che credeva di essere impugnando l’arma, ma solo un uomo
ridimensionato.
Solo dopo queste
premesse, il processo prenderà il via e si assisterà ancora al clamoroso
rovesciamento dei ruoli. Dopo un lungo silenzio, Gesù risponderà alle domande
dell’interrogatorio, ma solo per suggerire di andare ad interrogare coloro che
lo hanno ascoltato nel corso della sua predicazione. Ancora un paradosso, l’imputato
consiglia agli inquirenti come condurre l’istruttoria.
Nel
processo che ha portato alla più infame delle condanne avverrà una cosa
assurda,
tutti gli accusatori si comporteranno e parleranno come dei veri colpevoli,
mentre l’imputato accusato di blasfemia, sarà l’unico innocente. Tutti gli
accusatori mostreranno la loro colpevolezza, ma condanneranno ugualmente
l’imputato, mettendo in scena un gigantesco inganno che viene svelato. I Vangeli svelano un meccanismo che sfugge
alle stesse antropologie antiche e moderne, la frenesia
di un contagio di tipo mimetico, secondo il quale le stesse comunità al culmine
di una crisi, ristabiliscono l’ordine interno mediante la polarizzazione
violenta su una vittima, che appartenendo al sacro lo espelle con la sua stessa
espulsione, un pharmakos, che
consente l’uscita dalla crisi.
Della triade composta da Giuda, Pietro e
Giovanni, quest’ultimo assume nella visione leonardesca la fisionomia gentile
che attiene a tutta la tradizione pittorica precedente e che discende
dall’intensa riflessione spirituale che caratterizza il quarto Vangelo e dalla
capacità dell’apostolo di ascoltare il cuore di Gesù. Giovanni è l’unico a non
essere individuato attraverso oggetti simbolici che ne descrivono un’azione
precisa ed è anche il solo cui Leonardo non attribuisca un’espressione
“scandalizzata”. La sua soavità è anzi sottolineata dalle mani congiunte sul
tavolo e da una mancanza di movimento che dice della sua presenza sotto la
Croce, quando Gesù prima di esalare il suo Spirito, affiderà il “discepolo più
amato”, l’unico che non subirà il martirio, a Maria. «Donna, ecco tuo figlio; figlio, ecco
tua madre». “Al momento di morire, Cristo
dice la procreazione; parla di una donna e di un figlio, di una madre e di suo figlio. Al momento di
morire, annuncia una nascita; recita di nuovo la scena di Natale.”
La fine non giace più davanti, ma dietro di
noi. Il sepolcro non è più un punto di arrivo, ma un punto di partenza. La vita
dell’uomo non è più in funzione della tomba, non esistono solo vicoli ciechi da
ripetere, ma soglie da oltrepassare. Ecco il primo significato, storico e
umanissimo della Resurrezione. Dimenticate un corpo morto, la morte ha mollato
la presa. La raffigurazione di Giovanni conduce nel
cuore del significato antropologico che la pittura lascia
intravvedere. Il velo del Tempio che non ha più funzione, il vero volto
di Dio è amore. Il centurione che nel buio vede se stesso per quello che è e testimonia
“Veramente quest’uomo era il Figlio di
Dio.”
Da questo punto in poi nella cultura umana il
congegno espiatorio cessa di funzionare in modo misconosciuto, coperto
dall’opacità del mito. Il meccanismo sacrificale del religioso arcaico,
utilizzato per preservare la collettività dalla sua instabilità s’inceppa. La potestà che Cristo
viene a portare è un potere di vita che supera la legge e spezza la tavola di
pietra della morte. L’effetto della Resurrezione è questo potere che non ha
bisogno di inchiodare qualcuno alla Croce, se non la violenza stessa con cui
tutti gli uomini imitano i rispettivi desideri. Se
le religioni arcaiche pongono drammaticamente il punto zero di ogni inizio,
riconducendolo ad una genesi violenta e distruttiva, dove collocano la
fondazione umana, “omicida fin dall’origine”, la fondazione violenta che sorge
dalla patina oscura del mito e dall’ignoranza del sacro è tutt’altro che
respinta dalla simbologia cristiana, ma è anzi rivelata in piena luce, mostrandola
per quello che è, senza giustificazione del male e della violenza, in un modo
che Leonardo miracolosamente illumina nella sapienza trasparente del dipinto. Le
formidabili risonanze antropologiche del “Cenacolo” sono evidenti non appena si
smette di leggere i Vangeli alla luce dei miti. La fondazione violenta, reinterpretata
a livello simbolico nella Croce, è il luogo che Cristo illumina, spezzando la
morte ed entrando in una relazione diretta con l’uomo, per portarlo fuori dalla
Paura e mostrargli il potere del suo cuore.
In questa
comprensione profondamente cristiana risiede, almeno in parte, la reale motivazione
per cui i geni del Rinascimento si sforzarono di dare compiutezza alla
riflessione artistica, riassumendo nella cultura figurativa della loro epoca
anche la mitologia pagana, portando alla luce ciò che di autenticamente divino vi
era nel mito, alla luce della storia della Rivelazione che libera il divino dall’entità
oscura che è la visione di una cosa e la Paura di quella cosa. I miti tornarono
a essere rappresentati non quindi perché gli artisti del Rinascimento volessero
in modo subdolo riappropriarsi della mitologia in contestazione a Cristo, ma
esattamente per il motivo opposto, in quanto sapevano, o per lo meno intuivano,
la contrapposizione dei miti pagani e comprendevano che la religione della Croce,
demistificando l’intera mitologia e negando il valore positivo alla violenza a
giustificazione di un male che espelle il “Male”, andava nel senso diametralmente
opposto ai miti, affrancando il sacro dalla dipendenza violenta, al punto che
al termine sacro il cristianesimo attribuisce una valenza di inviolabilità
dell’uomo, il quale solo a partire da Cristo non é più sacrificabile.
La Croce perciò è gloriosa,
perché libera dall’illusione mitica che vuole la violenza un’azione lodevole e
sacra in quanto utile alla comunità. Mentre tutti i miti fondano l’ordine del
mondo su una violenza dissimulata e sacralizzata che deve ripetersi e perciò
devono cancellarne le tracce, i Vangeli agiscono esattamente all’opposto e
mettono in luce la violenza nascosta “fin dalla fondazione del mondo” per non doverla
ripetere più e per non cancellare la storia dell’uomo, ma farne memoriale.
Avverte, tuttavia, Rènè
Girard, antropologo e filosofo che ha dedicato tutta la sua opera allo studio
del sacro: “Il capro espiatorio offriva una chiusura sistemica che permetteva
al gruppo sociale di rimettersi in funzione, di ricominciare ancora una volta
il ciclo e di continuare a ignorare il vero significato di quella stessa
chiusura sistemica, vale a dire il credere alla colpevolezza del male assoluto
mondato. Tutto questo non può più esistere dopo la rivelazione cristiana. Il
sistema non può più essere chiuso da alcun tipo di soluzione farmacologica e il
virus della violenza mimetica ha la possibilità di diffondersi liberamente […].
La Croce ha distrutto per sempre il potere catartico del meccanismo del capro
espiatorio....” Per Girard, l’assimilazione
della rivelazione cristiana, dunque, ha fatto compiere al religioso arcaico un
cammino progressivo di affrancamento dell’umanità dalla sua origine cruenta, “omicida
fino da principio”, conversione che continua ad avere effetti nella cultura, al di là di tempi come i nostri nei quali l’ateismo e
l’incredulità si accaniscono non a caso contro la divinità personale,
esercitandosi in modo particolare sul “Cenacolo” con operazioni pseudo-culturali
di massa.
Di conseguenza,
aggiunge Girard, il Vangelo offre una prospettiva, quella che le ideologie del
Novecento non permettevano: la libertà di scelta. Esistono perciò due
opzioni, che il Vangelo permette, imitare Cristo, abbandonando la “violenza mimetica”,
oppure intraprendere la strada dell’autodistruzione. Il sentimento apocalittico
oggi così diffuso si fonda proprio su quest’ultimo rischio. Ma aggiunge ancora l’autore
di Portando Clausewitz all’estremo: “L’apocalisse
non è la fine del mondo, ma l’annuncio di una speranza; e la speranza è
possibile solo per chi osa pensare i pericoli del momento, per chi si oppone ai
nichilisti, a quanti negano la verità, ai governi, alle banche, agli strateghi
che pretendono di salvarci mentre ci precipitano nel caos”.
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