È di grande
interesse l’intervento odierno di Marcello Flores su “la Lettura” (inserto
domenicale del Corriere della sera) a
proposito della legge che punisce l’apologia dei crimini di genocidio. Vi si fa
riferimento a un ddl di modifica dell’attuale legge n.654 del 1975 attraverso
un comma che così recita: “È punito con la reclusione fino a tre anni chiunque,
con comportamenti idonei a turbare l’ordine pubblico o che costituiscano
minaccia, offesa o ingiuria, fa apologia dei crimini di genocidio, dei crimini
contro l’umanità o dei crimini di guerra come definiti dagli articoli 6,7 e 8
dello statuto istitutivo della Corte penale internazionale”. Un intervento che
tocca il delicato e cruciale tema della memoria (e che sarà al centro di un
congresso internazionale di storici del genocidio che si terrà a Siena dal 19
giugno) ed esprime legittimi dubbi sulla possibilità di imporre dall’alto una
sensibilità collettiva rispetto agli avvenimenti storici. Flores si chiede non
a torto quali sono i genocidi riconosciuti come tali e come ci si dovrà
comportare dinanzi a crimini che nessun tribunale ha sanzionato (i crimini dei
Gulag) o su cui esiste una controversia aperta (Srebrenica) o che non sono
riconosciuti come tali (il genocidio degli Armeni). È vero che il pensiero
corre subito allo sterminio degli ebrei ma fin dove è lecito spingere la
repressione antinegazionista? Al di là della doverosa opera di
informazione-educazione nelle scuole verso chi scatteranno le denunce? Senza
contare che il rischio è quello di far passare per martiri della libertà d’espressione
coloro che minimizzano o, peggio, rivendicano la libertà d’indagine storica per
supportare la propaganda ideologica di tesi razziste. Leggi contro il razzismo
ci sono già, e tali norme non hanno eliminato il problema senza contare la
contraddizione lampante tra una legge come quella ricordata e l’ordinamento
italiano che ancora non prevede il reato di tortura.
L’aspetto più
emblematico della questione è però il rapporto tra verità di Stato e verità
degli storici. Quali sono i soggetti deputati a stabilire cosa e come ricordare?
Di certo la scelta tra uno Stato che si arroga questo diritto, sia pure sulla
base di indicazioni internazionali, e la comunità degli studiosi che vi si
oppone (come avvenuto in Francia) cade naturalmente, ovviamente, sulla seconda
ipotesi perché appare indubbiamente come quella più idonea a garantire il
diritto alla conoscenza e alla separazione tra la stessa conoscenza e le
emozioni che essa produce. In altre parole la riprovazione e la condanna morale
che i crimini contro l’umanità suscitano sono sentimenti talmente naturali che
la loro “imposizione” per legge rischia quasi di legittimare atteggiamenti
contrari. La repressione del lato disumano delle società è appunto un connotato
riconoscibile nelle società sane e ciò avviene a un livello etico profondo che
nessuna norma di legge può determinare.
Il discorso si
intreccia con quello, altrettanto complesso, dell’atteggiamento degli Stati
deboli, come quello italiano, dinanzi alla storia del Novecento. Ne ha parlato
Giovanni De Luna di recente nel suo libro La
Repubblica del dolore (Feltrinelli 2011) mettendo in luce come l’idea di
una memoria pubblica (o condivisa) nel nostro paese resta un tema ancora
sottoposto ad incognite e interrogativi irrisolti. Secondo De Luna – e non si può dargli torto – più lo Stato ha
accentuato la sua separatezza nei confronti della società civile più ha
moltiplicato le incursioni sul terreno della memoria e degli universi simbolici
ad essa collegati. Tutta una serie di “leggi del ricordo” hanno avuto come
scopo il tentativo di proporre “come contenuto del patto fondativo della nostra
memoria il dolore e il lutto che scaturiscono dal ricordo delle vittime. Della
mafia, del terrorismo, della Shoah, delle foibe, delle catastrofi naturali, del
dovere, vittime, sempre e solo vittime… E alla fine la Repubblica del dolore
che affiora dall’intricata selva delle leggi memoriali sembra improntata alle
narrazioni che scaturiscono direttamente dalla televisione del dolore”. La
politica ha gestito questo processo a scapito della verità e della corretta
informazione impedendo uno spazio condiviso di confronto e di elaborazione per
perpetuare la logica del bipolarismo anche nella memoria. Il paradigma delle
vittime posto al centro della memoria collettiva, in altre parole, ha indicato
la via dell’emozione condivisa come la strada più comoda per aggirare le verità
storiche e assolvere le precedenti generazioni. Ma dietro al paravento le
divisioni sono ancora lì, ad impedire ogni reale riconciliazione, a fare scudo
a una verità che le leggi non possono imporre per decreto, a bloccare il lavoro
degli storici sotto il fuoco incrociato delle demonizzazioni reciproche.
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