martedì 30 aprile 2013

Quando Giorgio Chinaglia (da supereroe) è stato più che un “grido di battaglia”



Luciano Lanna


I supereroi non muoiono e, quando ci si identifica con loro, possono anche aiutare a guarire. Lo sa bene, tanto per dire, Donald, quindici anni, ribelle per definizione e vocazione, piantagrane per scelta – il protagonista del romanzo di Antony McCarten Death of a Superhero (“Morte di un supereroe”) pubblicato in Italia da Salani – e che in realtà è un ragazzo malato di leucemia allo stato avanzato. Donald infatti passa il suo tempo seguendo, identificandosi, e disegnando le storie del suo supereroe preferito. Per il ragazzo, come per il suo supereroe, ogni giornata presenta risvolti imprevisti e affrontarli insieme riesce più facile e accettabile. Una storia intrigante da cui è stato anche tratto il film omonimo diretto dall’irlandese Ian Fitz Gibbon. Del resto, psicologi come James Hillman o studiosi come Joseph Campbell, hanno spiegato in alcuni loro libri l’efficacia terapeutica dell’identificazione del malato con la figura di un eroe dell’immaginario popolare, reale o di fantasia…
Il recente romanzo italiano Il talento della malattia. Giorgio Chinaglia e la storia di un campione (Avagliano editore, pp. 208, euro 15,00), fornisce una variante sportiva e realistica di questo preciso processo psicologico e mitopoietico. L’autore, Alessandro Moscé, oggi giornalista e studioso di letteratura, racconta la vicenda che lo coinvolse personalmente quando lui era bambino e viveva ad Ancona. “Ogni bambino – scrive Moscè – ha il suo eroe. Si tratta, di solito di un personaggio dei fumetti o d’avventura. Capitan America, Batman, Superman, Goldrake, Mazinga Z e l’Uomo Ragno sono stati i più ricorrenti per la generazione nata tra gli anni Sessanta e Settanta. Ma quando un eroe esiste in carne e ossa, allora diventa facilmente un mito, specie per chi racconta lo sport e coglie le gesta dell’uomo…”.


Alessandro era un bambino solitario: “Mio padre lavorava a Roma, e prima di ammalarmi sono stato un bambino solo. E la solitudine di chi aspettava nei corridoi della scuola con le mattonelle bianche e nere il ritorno della madre, la condividevo, dialogandoci sottovoce con Giorgio Chinaglia. Perché non leggevo i giornalini, ma i quotidiani. Da Gianni Brera e Mimmo De Grandis ho appreso che lo sport si può raccontare…”. Quel ragazzino di sei-sette anni s’ innamora di Long John: “Giorgio Chinaglia è il grido di battaglia, urlava la curva della Lazio. Ingombrante, viziato, sentimentale, fascistoide, lo hanno descritto. Lui, Giorgio Chinaglia, che ha vinto lo scudetto del 12 maggio 1974 strappandolo dal petto della Juventus del plenipotenziario Gianni Agnelli”. Un giorno il piccolo Alessandro confessa a un suo conoscente di tifare Lazio. “Male, ragazzo, avrai – gli fa quello – molte delusioni. Tifa semmai per la Juventus, non per i poveracci. Che ci fai con la Lazio?”. E la replica di Alessandro dice tutto della sua sensibilità: “Troppo facile vincere sempre, sì sono in controtendenza..”.



Poi, una mattina di giugno del 1983 – aveva quattordici anni – Alessandro viene ricoverato d’urgenza e si scopre che ha una gravissima malattia, poche sono le speranze. Ma lui non molla, chiede Il Corriere dello Sport, legge continuamente di Chinaglia. E il bambino vincerà la sua battaglia personale, il dolore diverrà l’occasione per riaffermare la vita. E quando uno come Alessandro – trent’anni dopo – è ormai un uomo e anche un giornalista non può esimersi dal raccontarsi. Soprattutto quando il suo caso è quasi unico, è uno dei pochissimi guariti dal suo male rarissimo, tanto da diventare un caso clinico studiato persino negli Stati Uniti. Nel libro Moscè descrive tutto questo davvero bene, ambientando e rappresentando nel suo romanzo gli archetipi profondi e più autentici dell’esistenza umana: la nascita, la morte, il senso di finitudine, la perdita, il dolore e la sofferenza, la fede. Ma anche il ruolo del mito e dell’eroe. Prima della sua guarigione Alessandro scrisse infatti  a Chinaglia.  “Se Chinaglia ha mandato a quel paese l’allenatore della nazionale italiana – scrive oggi Moscè – io ho mandato a quel paese la morte, ho pensato a quattordici anni. Gli ho scritto una lettera che non ha mai letto. Una lettera accorata. Una lettera disperata. Una lettera commovente...”. Comunque, tre anni dopo, Giorgione sta nella Marche e Alessandro va allo stadio col padre e lo incontra: “Lui firma un autografo. Mi fa una carezza e torna al centro del campo con il suo passo dinoccolato. ‘Vinci per me’ gli urlo. Si gira e il dito è puntato in alto, come quella volta sotto la curva della Roma dopo aver segnato. La gente applaude e si alza un coro, il mio stesso sentimento: Giorgio Chinaglia / è il grido di battaglia”.


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