Alberto Pezzini
Lo raggiungo al telefono. Ha la voce gentile. Sceglie le parole con cura,
quasi con un’ombra di ricercatezza. Frutto del lavoro svolto per una vita e che
continua a fare. E conseguenza anche di quello studio appassionato sui sinonimi
e su quanti modi esistano nella lingua italiana per dire la stessa cosa. Per
farmi un esempio mi dice che il termine bicchiere possiede molteplici vocaboli
con cui indicarlo, come coppa o calice, ma soltanto uno calza ad una situazione
ben precisa. Lui è Luca Goldoni, classe 1928, uno dei giornalisti più brillanti
che siano usciti dalla Gazzetta di Parma per
approdare al Corriere della Sera e
fare fortuna con migliaia di copie vendute dei suoi libri. Soltanto con È gradito l’abito scuro, la prima
raccolta dei suoi articoli un poco aggiustati per l’uso, fece un botto da
300mila copie. Quei libri li volle Mondadori perché intuirono che probabilmente una penna come
quella di Goldoni avrebbe scalato le classifiche. Ha scritto di tutto,
dall’Africa al mare, dagli animali ai luoghi comuni del tipo Non ho parole o Cioè, quando tanti parlavano come i personaggi di Verdone, con i
pantaloni a zampa di elefante: ha saputo chiacchierare con migliaia di italiani
in modo leggero, facendosi leggere mentre eri in treno oppure aspettavi dal dentista
il tuo turno.
Quando gli chiedo come è iniziato per lui il virus del giornalismo, mi
risponde che si è trattato di una specie di civetteria: “Pensa che alle
elementari – mi risponde – scrivevo malissimo. Avevo scritto un tema sulle
impressioni di una giornata in campagna. Ero andato fuori traccia del tutto. L’avevo
interpretata come se avessi dovuto raccontare una specie di forte impressione
su di me: ne venne fuori un racconto alla grand
guignol, con un incidente e un tizio col cervello che usciva a fiotti dalla
scatola cranica. Una tragedia. Presi quattro. Mia madre mi mandò allora a
prendere ripetizioni: diventai un asso nell’analisi logica. Cominciai da lì a
studiare le parole italiane in tutte le loro sfumature. Il giornalismo venne di
seguito. In classe, in prima ginnasio a Parma, avevo come compagno di classe un
certo Baldassarre Molossi, figlio del direttore della Gazzetta di Parma e nipote del proprietario dello stesso giornale. Fu
lui a costringermi a scrivere per il giornalino della nostra classe, L’eco della B, la nostra sezione. Fu il
mio personale laboratorio di scrittura…”.
L’arrivo al giornalismo vero e proprio coincide però con il caso, anzi con una
alluvione. Il Po aveva tracimato nel novembre del 1951 allagando tutti i paesi
della Bassa. Luca Goldoni – che comincia a lavorare per il Resto del Carlino redazione di Parma – viene pagato con la tessera
per entrare gratis al cinema. Per fare invece il distributore dei giornali in
quei paesi lo pagano 5mila lire. Compra
una Lambretta a rate, e tutte le mattine, per un anno tondo che piova o ci sia
il sole, parte all’alba con i giornali sotto la maglia e gli occhiali da
aviatore di biplano. Ogni mattina si intrufola in quei bar di paese dove la
nebbia sta fuori e dentro si gioca a scopa bevendo grappini. Conosce i paesi
come le sue tasche e le persone pure.Quando l’alluvione inghiotte la Bassa, si scapicolla dove era di casa, proprio
là l’acqua era dilagata come un’armata bastarda.
“Scrivo un pezzo – racconta – direttamente dall’epicentro dell’alluvione In
prima persona, palpitante. Va a finire in prima pagina sul Resto del Carlino, un pezzo di vita documentato all’ultimo respiro.
Mi chiama Vittorio Zincone, allora direttore del Carlino, e mi dice che da quel momento sarei diventato giornalista,
da giornalaio che ero…”.
Ma il racconto di Goldoni prosegue: “L’altro uomo che mi aiutò e fece di me chi
sono diventato fu Giovanni Spadolini. Era attratto da me perché ero campione
italiano di go-kart dei giornalisti e me la cavavo a scrivere. Lui sapeva tutto
di Chiesa cattolica e di scismi. Mi chiamò al Corriere della Sera dove, credetemi, non ci volevo andare. Gli
dissi che i miei articoli andavano bene per gente della Bassa. Mi disse, non
dire sciocchezze. Vieni a Milano che farai successo…”. Ebbe ragione.
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