venerdì 12 aprile 2013

Andrea Pazienza, il settantasettino che "amava" i fascisti




Giovanni Tarantino

Una dichiarazione d’amore in pieno stile, una sfilza di nomi che accomuna immaginari diversi tra loro: un pantheon votato alla libertà. «Amo Hugo Pratt, Wolinsky e Pirichard / amo Parker e Johnny Hart, amo Mell Lazarus, Smythe, Pericoli e Pirella, amo Chiappori, Toppi, Battaglia/ amo Quino, amo Mordillo, amo Fremura e Cheval, Sangio, Schultz, Bretecher, …Breccia & Lovecraft/ … Maurice Barres, accademico / Andrè Breton, Tatlin e il costruttivismo, Dino Colalongo/ Lacerba e Giovanni Papini, amo Georges Mathieu / amo Ezra Pound, fascista / amo Richter e Georges Ribemont, Dessaignes e Balla, Boccioni/ e Segantini, Severini, Carrà e Marinetti Filippo Tommaso, fascisti / e Sironi / li amo». A firmare questa sorprendente poesia era - oltre trent’anni fa - il geniale Andrea Pazienza, un artista e un intellettuale di cui tra poco si parlerà dato che a giugno ricorre il venticinquennale della sua prematura scomparsa.
Ma come mai in quella poesia Pazienza dichiarava il suo “amore” per quei nomi, così elencati? Certo che un senso c’era, specie se la riflessione tiene conto del periodo in cui questa poesia, intitolata “Amo”, è stata scritta. Era il 1977, anno in cui il superamento delle vecchie contrapposizioni politiche era solo agli albori e in alcune frange militanti resistevano ancora steccati ideologici che non riconoscevano a pieno titolo i cosiddetti avversari. Che poi, nel decennio successivo, negli anni Ottanta, si scopriranno amici o innamorati tra loro, ascoltatori degli stessi gruppi musicali piuttosto che tifosi delle stesse squadre di calcio, interessati alle stesse letture, per non dire che su problematiche concrete, anche in politica, assumeranno le stesse trasversali posizioni. Ma tutto il retaggio culturale degli anni Settanta, con i suoi morti e con i suoi sopravvissuti, con i suoi odi e con le sue passioni, con la sua energia anche violenta, viene meno dinnanzi al genio creativo di Andrea Pazienza, di cui ricorrono in questi giorni i vent’anni dalla prematura scomparsa. L’autore di quella poesia, intitolata Amo, che in maniera assolutamente non convenzionale elencava tra i suoi ispiratori e uno dopo l’altro il fascista Ezra Pound, l’ex adolescente della Decima Mas Hugo Pratt, il socialista nazionale Barrés, i futuristi (e fascisti) Balla, Carrà e Marinetti.
Un uomo, uno spirito libero, Andrea Pazienza, che tuttavia è sempre rimasto fortemente legato alle sue radici. Alla sua maniera «del resto ­- scriveva di sé stesso in terza persona ne Il Libro rosso del Male - Andrea Pazienza è nato a San Menaio, Foggia, ed è praticamente pugliese, pur vivendo tra Bologna e New York». Solo una delle tante autobiografie da lui stesso scritte e non veritiere.


Nato - realmente - a San Benedetto del Tronto il 23 maggio del ’56, Pazienza si trasferì per motivi di studio dapprima a Pescara, dove conobbe Tanino Liberatore, anch’egli autore di fumetti e “padre” di Ranxerox, e poi a Bologna, sua città adottiva, dove si iscrisse al Dams nel ’74. Le atmosfere di quei giorni bolognesi fanno da sfondo a Le straordinarie avventure di Pentothal, primo lavoro di Pazienza pubblicato su Alter Alter, dove non venivano risparmiate critiche dissacratorie nei confronti del sindaco del Pci Renato Zangheri, che proprio in quei giorni si rendeva protagonista di una repressione violenta nei confronti dell’ala creativa del movimento del ’77, ricorrendo all’intervento dei blindati.
Tra i giovani di quel periodo si avvertiva un’empatia sempre maggiore nei confronti dell’autore non conformista per vocazione che era Paz e in molti si cominciano a identificare nelle sue storie e nei suoi personaggi. Era l’Italia dei giovani che abbandonavano le ideologie e davano vita ad una delle stagioni più effervescenti e anticonformistiche, e straordinariamente creative, tra situazionismo, fumetti e radio libere: uno dei maggiori fenomeni di portata generazionale che incideva a sinistra quanto a destra.
Era quella l’Italia di Andrea Pazienza: artista poliedrico prima ancora che semplice fumettista non ha mai posto limiti alla sua sconfinata vena creativa: ha creato anche manifesti cinematografici tra cui quello per Lontano da dove, regia di Stefania Casini e Francesca Marciano (1983), e quello della Città delle donne di Fellini nel 1980, videoclips come Milano e Vincenzo di Alberto Fortis, copertine di dischi bellissime come quella di Robinson di Roberto Vecchioni e diverse campagne pubblicitarie.



Nel 1983 il nome di Andrea Pazienza era già noto al grande pubblico e contribuisce alla rinascita della vita italiana del dopo anni di piombo e alla voglia di molti ragazzi di vivere il proprio tempo liberamente, appassionandosi a nuove suggestioni, come quelle fornite dai fumetti, dal cinema o dalla musica, dimenticando le stagioni violente. Andrea Pazienza diventa quindi, a tutti gli effetti, un’icona italiana. Se in questi anni Pazienza incontra una grande fama grazie al suo lavoro, contemporaneamente ne conosce anche i lati oscuri, che progressivamente lo distruggeranno: le droghe, in particolar modo l'eroina, fanno ben presto capolino nella sua vita, alternando periodi in cui egli riesce a distaccarsene, a periodi in cui non riesce a farne a meno. Già nell’84 lui stesso, intervistato da Red Ronnie, si dichiara, pur scherzosamente, “tossico”, ma il tunnel che lo condurrà alla morte era già stato imboccato.
Nel 1987 collabora alla sceneggiatura della pellicola Il piccolo diavolo di Roberto Benigni, che non accredita il contributo di Pazienza, ma gli dedicherà l'intero film uscito postumo. La notte del 16 giugno 1988 – venticinque anni fa - si spegne improvvisamente a Montepulciano. Aveva solo 32 anni. Le prime voci parleranno di un ritorno all’eroina, da cui era riuscito ad allontanarsi, o di un suicidio indotto da overdose. Proprio questo tema era stato affrontato nella storia Pompeo del 1985, in cui si parlava senza false ipocrisie delle problematiche legate all’uso delle droghe pesanti.
L’Italia perdeva una delle sue icone più estroverse, dotate di uno spirito libero e libertario, un vero non-conformista. Non allineato e autoironico, disse di sé, già nell’81: «Sono il più bravo disegnatore vivente. Amo gli animali ma non sopporto accudirli. Morirò il 6 gennaio 1984». Si sbagliò di quattro anni. Nella memoria di chi ha amato la sua arte è rimasto comunque immortale.


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