Marco Iacona
Pochi giorni fa, il 29 marzo, è morto Enzo Jannacci. Aveva 77 anni ed era malato di cancro. Cantante, attore, cabarettista, uomo di televisione. Amico e collaboratore del Nobel Dario Fo, di Giorgio Gaber, di Paolo Conte con cui scrisse Bartali, del duo Cochi e Renato e in gioventù di Adriano Celentano. La sua cifra stilistica era inconfondibile. Come la dizione. Ironizzava e satireggiava come pochi. Ma era anche romantico e malinconico. Sapeva darsi al pubblico col giusto equilibrio. Senza dimenticare quel che era in fondo: il cantore di un’Italia matta e disperata, partita (geograficamente) da Milano e (storicamente) dalla fine della seconda guerra mondiale, vale a dire dalla sconfitta e dalla resistenza. C’era tanto da ridere insomma ma c’era (anche) da immalinconirsi.
Lui era parte di un gruppo di comici e autori – mettiamoci pure Sandro Viola, Luciano Bianciardi e Paolo Rossi – che più per istinto che per mestiere l’Italia l’avrebbe rivoltata come un calzino sporco. Anzi no: non l’Italia, ma gli italiani. Eppure dava sovente l’impressione dell’uomo solo, di quello che, chitarra a tracolla, avrebbe prestato volentieri il proprio talento agli umili, ai perdenti e agli esclusi. Perché avessero voce. Senza retorica, senza moralette, senza piagnucolii da applauso a scena aperta e prime pagine dei giornali. All’interno dell’uomo-Jannacci passava la sottile linea che divide l’artista dall’esibizionista. Il musicista popolare da quello sofisticato. L’amante delle tradizioni dall’innamorato dei sound d’oltreoceano. È il Dna obbligatorio dei cantanti nati nell’Italia contadina, cresciuti con Elvis e invecchiati con iTunes. Per questo – azzardiamo – molte sue canzoni verranno scoperte nei prossimi anni. Vincenzina e la fabbrica (1974), brano intenso e suggestivo non è l’eccezione che conferma la regola. È la carta d’identità dell’artista.
Da dove cominciare? Cabarettista, rockettaro – tra i primi in Italia con Celentano, Little Tony e Gaber – e jazzista con Chet Baker e il nostro Franco Cerri. La musica moderna gli era coeva. Sovente dava l’idea del cantante per caso, ma al contrario dei tipi alla moda era diplomato al conservatorio e la musica la conosceva. Artista e medico come si sa. Cardiologo del gruppo dell’ormai mitico Christian Barnard – quello del mitico primo trapianto di cuore – per un certo periodo. Inizia negli anni Cinquanta: nel suo destino il rivoluzionario Tony Dallara che in coppia con Rascel vincerà Sanremo cantando Romantica. Jannacci parteciperà quattro volte al festival nel 1989, 1991, 1994, 1998, aggiudicandosi per due volte il premio della critica. Nel suo passato i locali della Milano creativa, il “Santa Tecla” e il “Derby” di Dario Fo e Cochi e Renato. Ma anche il teatro, la Tv e la settima arte con Monicelli, Ferreri e Scola. Per il cinema firma le colonne sonore per i lavori della Wertmuller, Steno, Bolognini e ancora Monicelli. A teatro è autore, lavora con Tino Carraro e Franca Valeri e nel 1991 con Gaber, Felice Andreasi e Paolo Rossi porta in scena Aspettando Godot di Beckett.
Musica, sano divertimento e un mucchio di roba sulla quale riflettere in futuro. Nel 1964 esce il singolo El portava i scarp del tennis, che è parte del suo primo ellepì quasi tutto in dialetto. Tra le dodici tracce Ma Mi di Giorgio Strehler e Fiorenzo Carpi. Alla fine collezionerà quasi trenta album e una serie infinita di collaborazioni: da Guccini a Vecchioni, da Baglioni a Mia Martini, da Milva a Vasco Rossi. Fino al figlio Paolo. Scrive per Mina e De Gregori e interpreta canzoni di Sandro Ciotti e del poeta brasiliano Cassiano Riccardo, come l’indimenticabile – capolavoro d’avanguardia-pop – Giovanni telegrafista contenuta in un 33 del 1968 e lato B del 45 Vengo anch’io. No, tu no. Un successone: primo genuino tormentone italico, per di più canzone sessantottesca doc, che celebrava a suo modo gli “esclusi”, oltretutto censurata dalla Rai democristiana per alcuni evidenti riferimenti politici. Successone al pari di altri brani: Mexico e nuvole del 1970 firmata Pallavicini-Virano-Conte, e Ho visto un re sempre del 1968, cantata con Dario Fo e bocciata dalla Tv conformista dell’epoca, cioè da Canzonissima. Per Jannacci la televisione è la continuazione con mezzi non del tutto dissimili del cabaret. Diverte e si diverte. Prima autore di spot per “Carosello” insieme a Bruno Bozzetto, poi con Cochi e Renato progetta Quelli della domenica, Il buono e il cattivo e Il poeta e il contadino (che lancia un altro tormentone: La canzone intelligente). Una Tv per artisti a tutto tondo (ma col vizio della censura). Con i due ragazzacci padani scrive nel 1974 la sigla della stessa “Canzonissima” E la vita, la vita e poi La gallina (non è un animale intelligente) e L’uselin de la commare. L’anno dopo pesca il coniglio dal cilindro Quelli che… poesia surreale targata Beppe Viola, regina dei tormentoni di gran classe (spiazzante e geniale), campionario di spropositi e stravaganze made in Italy. Rilanciata anni dopo come sigla del programma calcistico domenicale condotto da Fabio Fazio (adesso da Victoria Cabello). Jannacci era tifosissimo del Milan e di Gianni Rivera come si sa.
Dopo una pausa di qualche anno, il successo televisivo riprende alla fine degli Ottanta. All’inizio del decennio è uscito l’undicesimo album: Ci vuole orecchio. Nel 1991 RaiTre trasmetterà uno speciale in otto puntate. L’anno prima ha inciso Trent’anni senza andare fuori tempo. Raccolta dal vivo che comprende tra le altre Silvano, Se me lo dicevi prima, Una fetta di limone, Veronica. Un campionario di umanità mixato alla voglia di divertirsi col semplice niente. A metà del decennio collaborerà con un altro monellaccio, Piero Chiambretti, ancora con Cochi e Renato, con Fazio e si affaccerà a Zelig. Nel 2012 un’apparizione con Enrico Intra e Franco Cerri. Infine in Tv con Fazio e il figlio Paolo. Se ne è andato da cristiano. Schivo, restio a parlare di sé, fino a qualche anno fa nessuno si era posto il problema della sua fede. Ma lui era un artista, non un tipo da salotto.
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