Gennaro Malgieri
Mi è capitato tante volte ascoltando le sue canzoni di immaginare come
sarebbe stato Jimi Hendrix oggi a settant’anni anni da poco compiuti (era nato
a Seattle il 27 novembre 1942), se quel 18 settembre 1970 non se ne fosse
andato per non tornare più. Non ho
trovato risposta neppure nella biografia che gli ha dedicato il fratello Leon (Jimi Hendrix, mio fratello, Skira,
2012), come in nessuno dei molti testi apparsi nell’ultimo decennio. Forse ha
ragione Enzo Gentile quando scrive nella prefazione a quest’ultimo libro:
“Invulnerabile. Come il mito di Atlantide e delle sue rovine sommerse, anche la
musica di Jimi e delle fedelissime chitarre rilascia nel tempo tutta la sua
formidabile malia. E’ lui, nel rock, l’uomo che visse più volte”.
E così mi è sempre apparso, ascoltandolo infinite volte e ricordandolo come
“mito” della mia disordinata giovinezza intellettuale: m’immergevo nella sua
musica mentre leggevo Yukio Mishima. Un segno, una premonizione. Chissà? Mi
avviavo inconsapevolmente sulla strada impervia delle ricerche eterodosse, di
un anarchismo aristocratico dove avrei incontrato altri viandanti. “Il flusso
dei suoni hendrixiani – annota ancora Gentile – che continuano ad invadere la
nostra colonna sonora quotidiana sono una magnifica ragnatela, un labirinto
psichedelico dove perdersi sarà sempre meraviglioso”.
E perdendomi, francamente, non sono mai riuscito a vederlo con i crespi
capelli bianchi, il volto solcato da rughe profonde, la voce ancora più roca,
salire a fatica sul palco. Me lo immagino mentre canta i versi bellissimi di
“Angel”, dall’album postumo The Cry of
Love: “L’angelo è sceso ieri dal
Paradiso/Giusto il tempo per liberarmi./E mi ha raccontato la storia/Dell’amore
tra la luna e il mare profondo./Poi ha allargato le ali su di me/E ha detto
‘tornerò domani’.”
Gli angeli del rock invecchiano
Purtroppo anche gli angeli, soprattutto gli angeli del rock, invecchiano e
quel che resta è il sogno che hanno scolpito nelle anime giovani di chi ha
avuto la fortuna di incontrarli. Ma capita, a “ragazzi invecchiati”, di
tuffarsi in un mondo sconosciuto, in un Oceano di possibilità irrealizzate e di
intuizioni non verificabili, in una “nostalgia” (se così si può dire) che ti
afferra facendoti inabissare nel futuro.
In altri tempi, quando ero soltanto un ragazzo e lontano dal diventare il
“ragazzo invecchiato” che sono oggi, avrei detto di essere immerso in un magma
psichedelico, percorso da fremiti gioiosi e spinti da pulsioni ribelli.
Più di quarant’anni dopo chi lo avrebbe detto che sarei stato capace di
provare le stesse emozioni, illudendomi che per qualche misterioso inganno la
giovinezza fosse tornata a visitarmi. Non ci speravo, semplicemente perché
ignoravo che qualcuno stesse approntando la “sorpresa” per tutti quei ragazzi
che nel 1970 avevano diciassette anni. E così l’incontro è stato più gradevole
di quanto potessi immaginare. Ho ascoltato, infatti, per ore quando è stato
pubblicato nel 2010 i dodici brani di Valleys
of Neptune, ed ho ritrovato,
proprio come lo avevo lasciato, Jimi Hendrix.
Il chitarrista di Seattle se ne andò senza avvertire nessuno, dopo i
trionfi di Monterrey, di Woodstock, di Whigt e, pur non avendolo dimenticato
mai, tutto mi sarei aspettato tranne che ritrovarlo nei brani che compose tra
il 1969 ed il 1970, lasciandoli in un qualche studio di registrazione. La
sorella Janie rimise le mani in questo lascito hendrixiano al solo scopo di
ricordarci che la sua musica non è ancora finita, miracolosamente. Come non è
finita quella di Monk, di Davis, di Parker, di Mingus.
Con una differenza: la musica di Hendrix è la sola “musica totale”
(chiedendo perdono al sommo Richard Wagner) che dopo il primo decennio di
questo secolo possiamo considerare dell’avvenire, senza neppure provarci a
definirla. Jazz, blues, rock, fusion? Tutto questo e niente di questo.
Sensazioni. Gratificanti sensazioni di angeliche aperture su armonie
telluriche.
Così riconquistiamo l’Experience, senza dimenticare compagni di viaggio
come Noel Redding, Mitch Mitchell, ma anche Chas Chandler e Billy Cox,
compendio di una visione della musica che è letteratura, sogno, dolcissimo
abbandono (Red House), per
riprenderci l’Hendrix più visionario che ci aveva catturato con quattro album
in vita e si ripropone oggi, come un “Otello bucaniere arrivato a Camelot”,
così scrisse Michael Thomas nel 1968, per non andarsene mai più. In effetti, a più
di quattro decenni dalla scomparsa – ebbro, avvelenato ed intorpidito
dall’amore, mentre accanto a lui dormiva senza accorgersi del suo precipitare
nel buio Monika Danneman – la musica che Hendrix ci ridona è la più moderna
possibile dopo gli effimeri trionfi delle avanguardie post underground.
A dimostrazione che quando sollevò le sorti di un rock stanco e ripetitivo
con Purple haze, Hey Joe, Foxy Lady, Gypsy Eyes, Voodoo Chile – soltanto per
citarne qualcuna – la fascinazione del mito colpì nel profondo chi immaginava
la propria musica compiuta e definita: Clapton, McCartney, Townshend, Beck,
Richard e tutto il Gotha del pop nella seconda metà degli anni Sessant. Al
punto che non ci fu nessuno a detestarlo, foss’anche per comprensibilissima
gelosia.
Anima della beat generation
E del resto che cosa si poteva invidiare
a Hendrix, un talento non comune, una sensibilità che trasmetteva incandescenti
sensazioni agli ascoltatori, la capacità di suonare il suo strumento come se
fosse un’appendice del suo stesso corpo, di far vibrare l’anima di chiunque
come mai era accaduto prima ascoltando i celebratissimi Beatles, Rolling
Stones, Cream, Jefferson Airplane, Led Zeppelin, e via elencando? Di Hendrix
restano la musica, le performance, ma anche i testi di canzoni che sembrano
uscite dall’anima di Kerouac, di Ginsberg, di Ferlinghetti, di Corso; ma anche
di Eliot e di Pound. In una delle ultime diceva: “La storia di una vita è più
rapida di un battito di ciglia”. La sua di sicuro.
E nel secondo album, quello che si
apriva con una versione entusiasmante della beatlesiana Sgt. Pepper’s Loneley Hearts Club Band, in un’altra che avrebbe
fatto epoca, Room full of Mirror, si
ascolta: “Vivevo in una stanza/piena di specchi,/ tutto quello che riuscivo a
vedere era me stesso”.
Lo specchio lo aveva fatto lui, mettendo
in una cornice schegge varie, come racconta Charles R. Cross, per avere forse
una visione deformata, come la vita di tutti noi, di se stesso, con una
differenza: lui era capace di amare le proprie imperfezioni, di accarezzarle,
di esaltarle perché umanissime, come umane erano le note di Hey Joe, un lungo struggente urlo, una
richiesta di comprensione, un mendicare brandelli di anima nel trionfo del
nichilismo conformista.
Musica e poesia
“Chiamami angelo blu selvaggio. Il
selvaggio angelo blu”, disse a chi doveva introdurlo in quello che sarebbe
stato il suo ultimo grande concerto, a Wight, il 30 agosto del 1970. Poi volò a
Stoccolma e a Fehmarn, in Germania: altre scariche andrenaliniche, nonostante
la depressione cominciasse a farsi sentire. E infine si fece davvero angelo, in
una stanza d’albergo a Londra, in compagnia di Monika, l’ultima Electric Lady
che si tolse la vita il 5 aprile 1996, dopo aver trascorso venticinque anni
senza Hendrix dipingendo ossessivamente Hendrix in abbracci soprannaturali con
lei.
C’era e rimane il senso profondo
dell’effimero nelle composizioni hendrixiane. Musica e poesia. Niente,
soprattutto oggi, di più trasgressivo. Da qui la sua attualità. La sua
stupefacente contemporaneità. Oggi suonerebbe e canterebbe così come lo
ascoltiamo nell’album postumo. Perciò chi ebbe la ventura di assistere alla sua
performance più riuscita, a Woodstock, ne fece un simbolo che si sarebbe
rivelato intramontabile.
In quell’occasione, Hendrix impugnò come
un’arma la sua mitica Fender Stratocaster bianca e, dopo essersi fermato varie
volte per accordarla, si produsse in una interpretazione che sarebbe rimasta
indimenticabile di The Star Spangled
Banner , l’inno americano, sul ritmo di Voodoo
Chile. (Quanta gioia nel nostro animo di antiamericani viscerali allora ed
oggi chissà…).
Dalla sua chitarra uscirono suoni
distorti, scariche di rumori simili a lontani bombardamenti. Il bassista Billy
Cox ed il chitarrista Larry Lee stesero le braccia lungo i fianchi e si misero
sugli attenti.
Il brano catapultò gli spettatori
nell’universo lacerato del Vietnam, in quelle paludi dove gli Stati Uniti
stavano affondando e i suoi soldati, trasformati in vittime e carnefici allo
stesso tempo, respiravano l’odore del napalm immergendosi nell’orrore. Hendrix
ridestò così, la mattina del 18 agosto 1969, i superstiti della tre giorni di
“musica, pace e amore” di Woodstock. Gli altri se n’erano andati, sotto un
temporale improvviso che si abbatté sulle cinquecentomila persone convenute in
quel luogo fino ad allora sconosciuto, vicino a Bethel, nella contea di Ulster,
stato di New York, e che fece rimandare di un giorno la conclusione della
kermesse.
I centottantamila rimasti s’illuminarono
improvvisamente ed ebbero la percezione che Woodstock non era stata soltanto
una straordinaria occasione d’incontro, un’esperienza tra le tante, come il
Monterrey pop festival o la Summer of love a San Francisco, ma l’avvio di una
“rivolta” pacifica contro tutto ciò che minava la possibilità esprimere i loro
disagi, le loro ansie, la creatività di quella “nazione hippie” che si stava
formando al di là delle convenzioni e di un “ordine” tanto sfuggente da
sentirlo estraneo se non ostile.
A ventiquattro anni dalle fine della
guerra mondiale, attraversati da altri due conflitti, quello in Corea e quello
in Vietnam, sempre sul punto di dover prendere le armi contro il “nemico
assoluto”, l’Unione Sovietica, ed in allarme per le installazioni missilistiche
a Cuba, i giovani americani di quarant’anni fa più che esorcizzare la violenza
che pervadeva le loro coscienze e voleva impossessarsi delle loro esistenze,
immaginavano che un altro mondo era possibile. Ma non furono compresi.
Così a Woodstock si ritrovarono il 15
agosto ragazzi e ragazze provenienti da tutte le contrade americane, richiamati
dagli unici “eroi” che riconoscevano, muniti soltanto di strumenti musicali e
di parole tutt’altro che “innocenti” per l’establishment che faticava a
comprendere il linguaggio e le aspettative di quei figli dell’America i quali
si attendevano da un Paese che aveva contribuito a liberare l’Europa di essere
essi stessi liberati dai pregiudizi e dalla costrizione a combattere guerre che
non li riguardavano: i diritti dei popoli non erano nell’agenda delle
amministrazioni statunitensi le quali non avevano neppure l’alibi di voler
esportare nelle risaie indocinesi la democrazia, ma soltanto assicurarsi un
futuro in un Pianeta inquieto.
Woodstock era stato ideato da Michael
Lang, Artie Kornfeld, John Roberts e Joel Roseman, quattro “figli dei fiori”
con vocazioni manageriali . Avevano in mente un’iniziativa commerciale legata
alla costruzione di uno studio di registrazione da mettere su nel villaggio di
Woodstock.
Poi pensarono
ad un festival musicale da realizzare nello stesso luogo. L’impresa apparve immediatamente
proibitiva. Se non fosse stato Elliot Tiber (che racconta il tutto nel suo
libro scritto con Tom Monte, Taking
Woodstock, Rizzoli) proprietario di un motel sul White Lake a Bethel, che
si offrì di ospitare l’evento, probabilmente i giovani impresari avrebbero
lasciato perdere.
Ma il fondo di Tiber era troppo piccolo per ospitare una manifestazione
ambiziosa. Il giovanotto non si scoraggiò e chiese ad un allevatore della zona,
Max Yasgur di affittargli i suoi seicento acri (2,4 Km quadri) per 75.000
dollari. La notizia fece il giro degli Stati Uniti e la contea si trasformò in
una bolgia che sorprese gli organizzatori, ma spaventò addirittura buona parte
delle autorità e dell’opinione pubblica che vedeva nell’evento una gigantesca
manovra “sovversiva”.
Uno dei protagonisti di Woodstock, David Crosby, ha raccontato a “Rolling
Stone”: “Pensavamo di essere tutti singoli hippie dispersi. Ma quando arrivammo
là, cambiammo idea di colpo. Dal nostro elicottero vedevamo la NY State Thruway
bloccata per una trentina di chilometri e una folla gigantesca di almeno mezzo
milione di persone: la mente vacillava. Non era mai accaduto prima, pareva
quasi che dal nulla fosse emersa una terra aliena”.
Altro che un “incubo di fango e stagnazione” animato da “intrusi dall’aria
freak”, come scrisse il “New York Times” per correggersi qualche giorno dopo
quando ammise che si trattava di “un fenomeno di innocenza” al quale quella
massa enorme di giovani aveva preso parte “per avere il piacere di stare
insieme, liberi di godere uno stile di vita che è in se stesso una
dichiarazione d’indipendenza”.
C’era qualcosa di più, comunque, a Woodstock. La ricerca di fughe da una
opprimente realtà piccolo borghese, per esempio, cui davano voce gli Who,
Santana, Joan Baez, Joe Cocker, i Grateful Dead, Crosby, Stills, Nash and Youg,
Janis Joplin, i Creedence Clearwater Revival, i Jefferson Airplane, Sly and the
Family Stone. E c’era anche il tentativo di denunciare, sia pure ingenuamente,
la modernità, l’invasività della tecnica, il dominio dell’utile per un ritorno
ad un comunitarismo dalle radici rurali, ad una certa idea della bellezza.
Di tutto questo la musica di Hendrix era la colonna sonora. Lo è stata a
lungo. Oggi è un richiamo ad un modo impossibile nel quale è proibito sperare,
sognare, forse addormentarsi come uomini liberi dai condizionamenti della
tecnica dopo aver ritenuto di sconfiggere l’utopia delle ideologie e delle
rivoluzioni. La sola liberazione è riconoscere la persona che agisce in una
comunità di uguali cercando di sottrarsi ai condizionamenti dell’avidità.
Hendrix lo aveva compreso prima di molti sociologi che, in quel suo tempo ricco
di speranze nonostante tutto, non riuscirono a comprendere politicamente
l’utopia di Woodstock.
Per la sinistra mondiale, legata al mondo comunista, essa rappresentava una
distorsione nella lotta contro l’imperialismo. Per i conservatori fu la
manifestazione di un “disordine morale”. Per Ernesto Assante e Gino Castaldo,
che hanno rievocato quell’esperienza nel libro Il tempo di Woodstock, fu il primo grande laboratorio “di prove
generali per un mondo libero”. Forse fu semplicemente la realizzazione di un
sogno che, comunque la si pensi, quarant’anni dopo continuiamo a portarci
dentro, convinti che le convulsioni della modernità e la caduta degli ideali
universali furono inconsapevolmente denunciati su quel grande prato dove si
assiepò una “nazione” senza futuro.
Quando si
muore troppo presto
A ventisette anni è troppo presto per morire. Ma
quando si è vissuto come se ne fossero passati cinquanta, non si può che
allargare le braccia e concludere che soprattutto gli ultimi quattro sono stati
al di là di ogni gloria musicale possibile.
Dal 1966 al 1970 Hendrix ha innovato radicalmente la
musica del suo tempo. Forse si è ancora frastornati dai colori che produsse sui
palchi di mezzo mondo per dare un giudizio compiuto di ciò che ha
rappresentato; giusto quanto disse in un’intervista nell’aprile 1967: “Voglio
mettere del colore nella mia musica: mi piacerebbe suonare una nota e veder
uscire colori”.
Quell’ostinato distorsore che dava alla sua Fender
sonorità mai ascoltate; quella voce roca, stridula, dolcissima, tenera e
graffiante a seconda del brano; quella fisicità che era spettacolare in sé e
quelle note tirate all’estremo, dove mai nessuno era riuscito a portarle prima
di lui e dopo di lui; quel pedale che diventava incandescente; quella vita che
cercava stabilità senza di fatto volerla nella realtà: tutto questo ed altro
ancora restano di Jimi Hendrix, genio e tormento, rappresentazione di
inquietudini pluri-generazionali, fascinoso padrone di cuori avventurosi,
ribelle tra i ribelli.
Perché, avvicinandosi l’età grave, non dovremmo
continuare ad amarlo come si ama un classico? Me lo chiedo ascoltando Bold As Love e Gypsy Eyes e mi abbandono al sorriso ed alla commozione avvicinando
con la memoria adolescenziali ed appassionati amori che un fuzz box (inquietante per palati deboli) esaltava rimandando
melodie diversamente banali eppure appaganti per chi si accontentava di stupidi
flirt, molto poco baudelairiani, molto poco hendrixiani.
Diremo, noi sopravvissuti, di quella tribù guidata
dallo sciamano del suono quanto gli dobbiamo. Ma è presto. Altri precursori
hanno aspettato secoli per essere finalmente celebrati. Hendrix viene
glorificato dall’industria discografica, ma non basta. Il mito o te lo porti
dentro o lo dimentichi. C’è chi non vuole scordare neppure un accordo. Il 20
settembre 1970, su “The Observer”, Tony Palmer, dando conto delle lacrime di
Bob Dylan, di Eric Clapton, di Mick Jagger, scrisse: “Qualsiasi cosa Mozart e
Ciajkovkij siano arrivati a significare per gli amanti della musica classica,
Hendrix ha significato altrettanto, se non di più, per un’intera generazione”.
La generazione che vorrei ritrovare.
Un documento importante una analisi bellissima che mi coinvolge emotivamente e nello spirito. Tutto quello che Malgeri descrive è la pura verità di una stagione che ci ha visti protagonisti io sono del 57 ho 55 anni ma dentro di me c'è quel sottile desiderio di ritrovare ancora quella generazione che sembra perduta...
RispondiElimina