martedì 9 aprile 2013

Jimi Hendrix in una ragnatela di sogni







Gennaro Malgieri

Mi è capitato tante volte ascoltando le sue canzoni di immaginare come sarebbe stato Jimi Hendrix oggi a settant’anni anni da poco compiuti (era nato a Seattle il 27 novembre 1942), se quel 18 settembre 1970 non se ne fosse andato per non tornare più. Non  ho trovato risposta neppure nella biografia che gli ha dedicato il fratello Leon (Jimi Hendrix, mio fratello, Skira, 2012), come in nessuno dei molti testi apparsi nell’ultimo decennio. Forse ha ragione Enzo Gentile quando scrive nella prefazione a quest’ultimo libro: “Invulnerabile. Come il mito di Atlantide e delle sue rovine sommerse, anche la musica di Jimi e delle fedelissime chitarre rilascia nel tempo tutta la sua formidabile malia. E’ lui, nel rock, l’uomo che visse più volte”.
E così mi è sempre apparso, ascoltandolo infinite volte e ricordandolo come “mito” della mia disordinata giovinezza intellettuale: m’immergevo nella sua musica mentre leggevo Yukio Mishima. Un segno, una premonizione. Chissà? Mi avviavo inconsapevolmente sulla strada impervia delle ricerche eterodosse, di un anarchismo aristocratico dove avrei incontrato altri viandanti. “Il flusso dei suoni hendrixiani – annota ancora Gentile – che continuano ad invadere la nostra colonna sonora quotidiana sono una magnifica ragnatela, un labirinto psichedelico dove perdersi sarà sempre meraviglioso”.
E perdendomi, francamente, non sono mai riuscito a vederlo con i crespi capelli bianchi, il volto solcato da rughe profonde, la voce ancora più roca, salire a fatica sul palco. Me lo immagino mentre canta i versi bellissimi di “Angel”, dall’album postumo The Cry of Love:  “L’angelo è sceso ieri dal Paradiso/Giusto il tempo per liberarmi./E mi ha raccontato la storia/Dell’amore tra la luna e il mare profondo./Poi ha allargato le ali su di me/E ha detto ‘tornerò domani’.”

Gli angeli del rock invecchiano

Purtroppo anche gli angeli, soprattutto gli angeli del rock, invecchiano e quel che resta è il sogno che hanno scolpito nelle anime giovani di chi ha avuto la fortuna di incontrarli. Ma capita, a “ragazzi invecchiati”, di tuffarsi in un mondo sconosciuto, in un Oceano di possibilità irrealizzate e di intuizioni non verificabili, in una “nostalgia” (se così si può dire) che ti afferra facendoti inabissare nel futuro.
In altri tempi, quando ero soltanto un ragazzo e lontano dal diventare il “ragazzo invecchiato” che sono oggi, avrei detto di essere immerso in un magma psichedelico, percorso da fremiti gioiosi e spinti da pulsioni ribelli.
Più di quarant’anni dopo chi lo avrebbe detto che sarei stato capace di provare le stesse emozioni, illudendomi che per qualche misterioso inganno la giovinezza fosse tornata a visitarmi. Non ci speravo, semplicemente perché ignoravo che qualcuno stesse approntando la “sorpresa” per tutti quei ragazzi che nel 1970 avevano diciassette anni. E così l’incontro è stato più gradevole di quanto potessi immaginare. Ho ascoltato, infatti, per ore quando è stato pubblicato nel 2010 i dodici brani di Valleys of Neptune, ed ho ritrovato, proprio come lo avevo lasciato, Jimi Hendrix.
Il chitarrista di Seattle se ne andò senza avvertire nessuno, dopo i trionfi di Monterrey, di Woodstock, di Whigt e, pur non avendolo dimenticato mai, tutto mi sarei aspettato tranne che ritrovarlo nei brani che compose tra il 1969 ed il 1970, lasciandoli in un qualche studio di registrazione. La sorella Janie rimise le mani in questo lascito hendrixiano al solo scopo di ricordarci che la sua musica non è ancora finita, miracolosamente. Come non è finita quella di Monk, di Davis, di Parker, di Mingus.
Con una differenza: la musica di Hendrix è la sola “musica totale” (chiedendo perdono al sommo Richard Wagner) che dopo il primo decennio di questo secolo possiamo considerare dell’avvenire, senza neppure provarci a definirla. Jazz, blues, rock, fusion? Tutto questo e niente di questo. Sensazioni. Gratificanti sensazioni di angeliche aperture su armonie telluriche.
Così riconquistiamo l’Experience, senza dimenticare compagni di viaggio come Noel Redding, Mitch Mitchell, ma anche Chas Chandler e Billy Cox, compendio di una visione della musica che è letteratura, sogno, dolcissimo abbandono (Red House), per riprenderci l’Hendrix più visionario che ci aveva catturato con quattro album in vita e si ripropone oggi, come un “Otello bucaniere arrivato a Camelot”, così scrisse Michael Thomas nel 1968, per non andarsene mai più. In effetti, a più di quattro decenni dalla scomparsa – ebbro, avvelenato ed intorpidito dall’amore, mentre accanto a lui dormiva senza accorgersi del suo precipitare nel buio Monika Danneman – la musica che Hendrix ci ridona è la più moderna possibile dopo gli effimeri trionfi delle avanguardie post underground.
A dimostrazione che quando sollevò le sorti di un rock stanco e ripetitivo con Purple haze, Hey Joe, Foxy Lady, Gypsy Eyes, Voodoo Chile – soltanto per citarne qualcuna – la fascinazione del mito colpì nel profondo chi immaginava la propria musica compiuta e definita: Clapton, McCartney, Townshend, Beck, Richard e tutto il Gotha del pop nella seconda metà degli anni Sessant. Al punto che non ci fu nessuno a detestarlo, foss’anche per comprensibilissima gelosia.



Anima della beat generation

E del resto che cosa si poteva invidiare a Hendrix, un talento non comune, una sensibilità che trasmetteva incandescenti sensazioni agli ascoltatori, la capacità di suonare il suo strumento come se fosse un’appendice del suo stesso corpo, di far vibrare l’anima di chiunque come mai era accaduto prima ascoltando i celebratissimi Beatles, Rolling Stones, Cream, Jefferson Airplane, Led Zeppelin, e via elencando? Di Hendrix restano la musica, le performance, ma anche i testi di canzoni che sembrano uscite dall’anima di Kerouac, di Ginsberg, di Ferlinghetti, di Corso; ma anche di Eliot e di Pound. In una delle ultime diceva: “La storia di una vita è più rapida di un battito di ciglia”. La sua di sicuro.
E nel secondo album, quello che si apriva con una versione entusiasmante della beatlesiana Sgt. Pepper’s Loneley Hearts Club Band, in un’altra che avrebbe fatto epoca, Room full of Mirror, si ascolta: “Vivevo in una stanza/piena di specchi,/ tutto quello che riuscivo a vedere era me stesso”.
Lo specchio lo aveva fatto lui, mettendo in una cornice schegge varie, come racconta Charles R. Cross, per avere forse una visione deformata, come la vita di tutti noi, di se stesso, con una differenza: lui era capace di amare le proprie imperfezioni, di accarezzarle, di esaltarle perché umanissime, come umane erano le note di Hey Joe, un lungo struggente urlo, una richiesta di comprensione, un mendicare brandelli di anima nel trionfo del nichilismo conformista.

Musica e poesia

“Chiamami angelo blu selvaggio. Il selvaggio angelo blu”, disse a chi doveva introdurlo in quello che sarebbe stato il suo ultimo grande concerto, a Wight, il 30 agosto del 1970. Poi volò a Stoccolma e a Fehmarn, in Germania: altre scariche andrenaliniche, nonostante la depressione cominciasse a farsi sentire. E infine si fece davvero angelo, in una stanza d’albergo a Londra, in compagnia di Monika, l’ultima Electric Lady che si tolse la vita il 5 aprile 1996, dopo aver trascorso venticinque anni senza Hendrix dipingendo ossessivamente Hendrix in abbracci soprannaturali con lei.
C’era e rimane il senso profondo dell’effimero nelle composizioni hendrixiane. Musica e poesia. Niente, soprattutto oggi, di più trasgressivo. Da qui la sua attualità. La sua stupefacente contemporaneità. Oggi suonerebbe e canterebbe così come lo ascoltiamo nell’album postumo. Perciò chi ebbe la ventura di assistere alla sua performance più riuscita, a Woodstock, ne fece un simbolo che si sarebbe rivelato intramontabile.
In quell’occasione, Hendrix impugnò come un’arma la sua mitica Fender Stratocaster bianca e, dopo essersi fermato varie volte per accordarla, si produsse in una interpretazione che sarebbe rimasta indimenticabile di The Star Spangled Banner , l’inno americano, sul ritmo di Voodoo Chile. (Quanta gioia nel nostro animo di antiamericani viscerali allora ed oggi chissà…).
Dalla sua chitarra uscirono suoni distorti, scariche di rumori simili a lontani bombardamenti. Il bassista Billy Cox ed il chitarrista Larry Lee stesero le braccia lungo i fianchi e si misero sugli attenti.
Il brano catapultò gli spettatori nell’universo lacerato del Vietnam, in quelle paludi dove gli Stati Uniti stavano affondando e i suoi soldati, trasformati in vittime e carnefici allo stesso tempo, respiravano l’odore del napalm immergendosi nell’orrore. Hendrix ridestò così, la mattina del 18 agosto 1969, i superstiti della tre giorni di “musica, pace e amore” di Woodstock. Gli altri se n’erano andati, sotto un temporale improvviso che si abbatté sulle cinquecentomila persone convenute in quel luogo fino ad allora sconosciuto, vicino a Bethel, nella contea di Ulster, stato di New York, e che fece rimandare di un giorno la conclusione della kermesse.
I centottantamila rimasti s’illuminarono improvvisamente ed ebbero la percezione che Woodstock non era stata soltanto una straordinaria occasione d’incontro, un’esperienza tra le tante, come il Monterrey pop festival o la Summer of love a San Francisco, ma l’avvio di una “rivolta” pacifica contro tutto ciò che minava la possibilità esprimere i loro disagi, le loro ansie, la creatività di quella “nazione hippie” che si stava formando al di là delle convenzioni e di un “ordine” tanto sfuggente da sentirlo estraneo se non ostile.
A ventiquattro anni dalle fine della guerra mondiale, attraversati da altri due conflitti, quello in Corea e quello in Vietnam, sempre sul punto di dover prendere le armi contro il “nemico assoluto”, l’Unione Sovietica, ed in allarme per le installazioni missilistiche a Cuba, i giovani americani di quarant’anni fa più che esorcizzare la violenza che pervadeva le loro coscienze e voleva impossessarsi delle loro esistenze, immaginavano che un altro mondo era possibile. Ma non furono compresi.


Così a Woodstock si ritrovarono il 15 agosto ragazzi e ragazze provenienti da tutte le contrade americane, richiamati dagli unici “eroi” che riconoscevano, muniti soltanto di strumenti musicali e di parole tutt’altro che “innocenti” per l’establishment che faticava a comprendere il linguaggio e le aspettative di quei figli dell’America i quali si attendevano da un Paese che aveva contribuito a liberare l’Europa di essere essi stessi liberati dai pregiudizi e dalla costrizione a combattere guerre che non li riguardavano: i diritti dei popoli non erano nell’agenda delle amministrazioni statunitensi le quali non avevano neppure l’alibi di voler esportare nelle risaie indocinesi la democrazia, ma soltanto assicurarsi un futuro in un Pianeta inquieto.
Woodstock era stato ideato da Michael Lang, Artie Kornfeld, John Roberts e Joel Roseman, quattro “figli dei fiori” con vocazioni manageriali . Avevano in mente un’iniziativa commerciale legata alla costruzione di uno studio di registrazione da mettere su nel villaggio di Woodstock.
Poi pensarono ad un festival musicale da realizzare nello stesso luogo. L’impresa apparve immediatamente proibitiva. Se non fosse stato Elliot Tiber (che racconta il tutto nel suo libro scritto con Tom Monte, Taking Woodstock, Rizzoli) proprietario di un motel sul White Lake a Bethel, che si offrì di ospitare l’evento, probabilmente i giovani impresari avrebbero lasciato perdere.
Ma il fondo di Tiber era troppo piccolo per ospitare una manifestazione ambiziosa. Il giovanotto non si scoraggiò e chiese ad un allevatore della zona, Max Yasgur di affittargli i suoi seicento acri (2,4 Km quadri) per 75.000 dollari. La notizia fece il giro degli Stati Uniti e la contea si trasformò in una bolgia che sorprese gli organizzatori, ma spaventò addirittura buona parte delle autorità e dell’opinione pubblica che vedeva nell’evento una gigantesca manovra “sovversiva”.
Uno dei protagonisti di Woodstock, David Crosby, ha raccontato a “Rolling Stone”: “Pensavamo di essere tutti singoli hippie dispersi. Ma quando arrivammo là, cambiammo idea di colpo. Dal nostro elicottero vedevamo la NY State Thruway bloccata per una trentina di chilometri e una folla gigantesca di almeno mezzo milione di persone: la mente vacillava. Non era mai accaduto prima, pareva quasi che dal nulla fosse emersa una terra aliena”.
Altro che un “incubo di fango e stagnazione” animato da “intrusi dall’aria freak”, come scrisse il “New York Times” per correggersi qualche giorno dopo quando ammise che si trattava di “un fenomeno di innocenza” al quale quella massa enorme di giovani aveva preso parte “per avere il piacere di stare insieme, liberi di godere uno stile di vita che è in se stesso una dichiarazione d’indipendenza”.
C’era qualcosa di più, comunque, a Woodstock. La ricerca di fughe da una opprimente realtà piccolo borghese, per esempio, cui davano voce gli Who, Santana, Joan Baez, Joe Cocker, i Grateful Dead, Crosby, Stills, Nash and Youg, Janis Joplin, i Creedence Clearwater Revival, i Jefferson Airplane, Sly and the Family Stone. E c’era anche il tentativo di denunciare, sia pure ingenuamente, la modernità, l’invasività della tecnica, il dominio dell’utile per un ritorno ad un comunitarismo dalle radici rurali, ad una certa idea della bellezza.
Di tutto questo la musica di Hendrix era la colonna sonora. Lo è stata a lungo. Oggi è un richiamo ad un modo impossibile nel quale è proibito sperare, sognare, forse addormentarsi come uomini liberi dai condizionamenti della tecnica dopo aver ritenuto di sconfiggere l’utopia delle ideologie e delle rivoluzioni. La sola liberazione è riconoscere la persona che agisce in una comunità di uguali cercando di sottrarsi ai condizionamenti dell’avidità. Hendrix lo aveva compreso prima di molti sociologi che, in quel suo tempo ricco di speranze nonostante tutto, non riuscirono a comprendere politicamente l’utopia di Woodstock.
Per la sinistra mondiale, legata al mondo comunista, essa rappresentava una distorsione nella lotta contro l’imperialismo. Per i conservatori fu la manifestazione di un “disordine morale”. Per Ernesto Assante e Gino Castaldo, che hanno rievocato quell’esperienza nel libro Il tempo di Woodstock, fu il primo grande laboratorio “di prove generali per un mondo libero”. Forse fu semplicemente la realizzazione di un sogno che, comunque la si pensi, quarant’anni dopo continuiamo a portarci dentro, convinti che le convulsioni della modernità e la caduta degli ideali universali furono inconsapevolmente denunciati su quel grande prato dove si assiepò una “nazione” senza futuro.

Quando si muore troppo presto

A ventisette anni è troppo presto per morire. Ma quando si è vissuto come se ne fossero passati cinquanta, non si può che allargare le braccia e concludere che soprattutto gli ultimi quattro sono stati al di là di ogni gloria musicale possibile.
Dal 1966 al 1970 Hendrix ha innovato radicalmente la musica del suo tempo. Forse si è ancora frastornati dai colori che produsse sui palchi di mezzo mondo per dare un giudizio compiuto di ciò che ha rappresentato; giusto quanto disse in un’intervista nell’aprile 1967: “Voglio mettere del colore nella mia musica: mi piacerebbe suonare una nota e veder uscire colori”.
Quell’ostinato distorsore che dava alla sua Fender sonorità mai ascoltate; quella voce roca, stridula, dolcissima, tenera e graffiante a seconda del brano; quella fisicità che era spettacolare in sé e quelle note tirate all’estremo, dove mai nessuno era riuscito a portarle prima di lui e dopo di lui; quel pedale che diventava incandescente; quella vita che cercava stabilità senza di fatto volerla nella realtà: tutto questo ed altro ancora restano di Jimi Hendrix, genio e tormento, rappresentazione di inquietudini pluri-generazionali, fascinoso padrone di cuori avventurosi, ribelle tra i ribelli.
Perché, avvicinandosi l’età grave, non dovremmo continuare ad amarlo come si ama un classico? Me lo chiedo ascoltando Bold As Love e Gypsy Eyes e mi abbandono al sorriso ed alla commozione avvicinando con la memoria adolescenziali ed appassionati amori che un fuzz box (inquietante per palati deboli) esaltava rimandando melodie diversamente banali eppure appaganti per chi si accontentava di stupidi flirt, molto poco baudelairiani, molto poco hendrixiani.
Diremo, noi sopravvissuti, di quella tribù guidata dallo sciamano del suono quanto gli dobbiamo. Ma è presto. Altri precursori hanno aspettato secoli per essere finalmente celebrati. Hendrix viene glorificato dall’industria discografica, ma non basta. Il mito o te lo porti dentro o lo dimentichi. C’è chi non vuole scordare neppure un accordo. Il 20 settembre 1970, su “The Observer”, Tony Palmer, dando conto delle lacrime di Bob Dylan, di Eric Clapton, di Mick Jagger, scrisse: “Qualsiasi cosa Mozart e Ciajkovkij siano arrivati a significare per gli amanti della musica classica, Hendrix ha significato altrettanto, se non di più, per un’intera generazione”.
La generazione che vorrei ritrovare.



1 commento:

  1. Un documento importante una analisi bellissima che mi coinvolge emotivamente e nello spirito. Tutto quello che Malgeri descrive è la pura verità di una stagione che ci ha visti protagonisti io sono del 57 ho 55 anni ma dentro di me c'è quel sottile desiderio di ritrovare ancora quella generazione che sembra perduta...

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