Pier
Paolo Segneri
L’8
aprile del 1972 andava in onda la prima puntata del “Pinocchio” televisivo di
Luigi Comencini. Sono passati quarantuno anni esatti. A quel tempo, non ero
neanche nato, ma pochissimi anni dopo, in una delle repliche televisive, mi si
aprì un mondo. E non mi riferisco al mondo delle favole, ma a chi diede anima e
copropo a Geppetto, Ciceruacchio, Pasquino, Antonio il portantino, Armanduccio
Girasole detto Dudù e tanti altri personaggi di una carriere artistica
straordinaria. Non lo chiamerei semplicemente “attore” perché Nino Manfredi fu
molto di più: fu un grande artista. E’ rimasta celebre la frase usata dal
regista Luigi Comencini per convincere Manfredi a interpretare il ruolo di
Geppetto ne Le avventure di
Pinocchio: “E’ l'unico attore italiano capace di parlare con un pezzo di
legno e farti credere che è vivo”. Per chi ha la mia età o poco più, quel Geppetto lì, a cui
l'attore ciociaro ha dato corpo e anima, è qualcosa di più del puro e ordinario
personaggio televisivo è l’evocazione dell'infanzia, della vecchiaia quando si
fa innocenza, del dolore quando si fa amore. Soltanto un attore completo
come Manfredi avrebbe potuto dare, come ha dato, l’espressione più alta e
commovente a tutte queste emozioni racchiudendole in un solo personaggio,
dentro uno sguardo, dietro un gesto. Senza quel Geppetto lì, molti dei
trentenni e quarantenni di oggi sarebbero orfani del “babbo... babbino!” a cui
restituire un grande bisogno di sentimento, di vitalità, di speranza.
Probabilmente saremmo rimasti dei burattini se non avessimo avuto il Geppetto
di Manfredi e Nino non sarebbe entrato nell’immaginario collettivo e personale
di noi bambini. Quel Geppetto lì, insomma, è un pezzo del nostro cuore. E’
l’innocenza della vecchiaia e, allo stesso tempo, quella dell'infanzia. E’ un
miracolo di umanità. Nessuno lo ha detto? Beh, allora lo scrivo io: Manfredi ci
ha fatto crescere. Ha saputo renderci disincantati, ma non privi di sogni.
Senza illusioni, ma non privi di speranze. I personaggi di Manfredi sono anzitutto il suo corpo e il suo
volto stupito, ma anche brutto, sporco e cattivo; intelligente eppure mai
furbo; arlecchinesco, ma pignolo e perfezionista come un attore inglese o
americano; burino eppure elegante ed ironico; carismatico, ma impacciato come
un paperino; perdente, ma di classe; flemmatico eppure capace di muoversi a
scatti; orologiaio preciso nel dettaglio, ma con una visione d'insieme; guappo,
ma onesto. Misurato, ma trasbordante di invenzioni.
Insomma, l’8 aprile del 1972, a mio parere, la televisione
italiana ci ha forse regalato il più grande attore italiano del secondo '900.
Anche se non aveva il talento e il genio di Totò o non possedeva il puro
istinto istrionico di Alberto Sordi, anche se non aveva la levatura di un
mattatore come Vittorio Gassman e non era un divo come Marcello Mastroianni,
anche se non possedeva la mostruosità e la comicità un po' francese che seppe
donarci Ugo Tognazzi e non riuscì a eguagliare il genio ola profondità di
Eduardo. Manfredi fu innanzitutto il suo corpo, la sua faccia: troppo
bello per sembrare un attore comico, troppo legato alle sue origini provinciali
e contadine per darsi l’aria dell’interprete impegnato, troppo pieno di ironia
e simpatia per nascondere gli occhi e per mettersi in calzamaglia a recitare
seriosamente le tragedie di Shakespeare. Manfredi fu principalmente un artista completo, un attore di teatro che il
palcoscenico prestò al cinema e che, grazie alla celluloide, proprio nel cinema
seppe dare il meglio di sé al pubblico. Eppure non si risparmiò neanche in
televisione, nella pubblicità, nel teatro. Potrei scrivere a lungo di
quell’uomo che ripeteva sempre di essere un “burino”, ma lo faceva per prendere
in giro quei romani con la puzza sotto il naso e che, in genere, hanno un
atteggiamento di ingiustificata superiorità nei confronti dei laziali e dei
ciociari. Per lui, invece, essere di Castro dei Volsci, essere ciociaro, fu e
restò sempre un vanto. Non a caso, i suoi personaggi dialettali rappresentano,
ancora oggi, un “castigat ridendo mores” per quei piccoli e grandi difetti che
ci portiamo dietro. Anche quando non li vediamo.
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