sabato 27 aprile 2013

Green Hill, un anno dopo: in piazza per un nuovo modello di ricerca scientifica



Francesco Pullia

I vivisettori, o sperimentatori che dir si voglia, con la sponda politica dei vari Ignazio Marino e di qualche, per fortuna ex, parlamentare radicale rivendicano il diritto di sacrificare ignobilmente animali sull’altare della non-scienza. Sostengono, poverini, che l'iniziativa nonviolenta dei cinque attivisti animalisti che il 20 aprile scorso sono riusciti a liberare centinaia di ratti e conigli (“mantenuti – ma pensa un po’  con la massima cura") dallo stabulario della Facoltà di Farmacologia dell’Università degli Studi di Milano abbia procurato "un danno di centinaia di migliaia di euro" mandando in fumo “ricerche” (le chiamano così) "finanziate da enti pubblici ma anche da fondazioni onlus” (Telethon, AIRC, AISM, ANLAIDS, ecc.), "approvate dagli uffici competenti del ministero della Ricerca, condotte secondo tutte le norme nazionali e internazionali sul trattamento degli animali da esperimento" (leggasi cioè dettate, imposte, dalla potente lobby delle multinazionali chimiche e farmaceutiche e dai baroni universitari). Peccato che non dicano che il 92% dei farmaci che supera le prove sugli animali viene successivamente scartato quando i prodotti sono clinicamente testati sull’uomo (Food and Drug Administration, USA) e che in molti casi le ditte sono state costrette a ritirare dal commercio i loro farmaci in seguito alla segnalazione di episodi di grave tossicità se non addirittura di decessi (Van Meer PJ et al. “The ability of animal studies to detect serious post marketing adverse events is limited”). Sulla fallacia della sperimentazione animale e sulla maggiore affidabilità fornita dai nuovi metodi di ricerca è possibile leggere rapporti di organismi prestigiosi come l’Accademia delle scienze statunitense o saggi pubblicati da autorevoli riviste come Nature, Science, British Medical Journal, Scientific American. Per non parlare delle relazioni di scienziati come Thomas Hartung, o Claude Reiss, direttore di ricerca del CNRS di Parigi. Il rapporto della citata Accademia delle scienze statunitense, intitolato “Crolla il valore scientifico del topo come modello per alcune malattie letali nell’uomo” e riportato l’11 febbraio dal New York Times dimostra, ad esempio, chiaramente che il topo è un modello fuorviante per almeno tre tipi di patologie mortali: sepsi (infezione dell’intero organismo dovuta all'invasione di tessuti, fluidi o cavità corporee normalmente sterili da parte di microrganismi patogeni e principale causa di morte nelle unità di terapia intensiva), traumi e ustioni (ma esistono forti dubbi anche per le patologie che riguardano il sistema immunitario, inclusi cancro e disturbi cardiaci). Ciò aiuta a comprendere perché siano risultati inefficaci circa 150 farmaci testati (con enorme dispendio di denaro e di vite di animali) su topi. Già nel 2004 il British Medical Journal aveva pubblicato un articolo che spiegava come nel caso della sclerosi multipla le sperimentazioni sui topi avevano portato del tutto fuori strada. Quattro anni dopo, la prestigiosa rivista Nature (2008) ha ospitato un saggio di Jim Schnabel intitolato “Neuroscienze, modello standard: i quesiti sollevati dall’uso dei topi SLA hanno causato un vasto ripensamento sull’utilizzo del modello murino per le malattie neurodegenerative”. Le tante sperimentazioni fatte sui topi non sono state di alcuna utilità e persino la loro modifica genetica non ha ottenuto il risultato desiderato. La visione meccanicista che vede la possibilità di rendere la cavia “più somigliante all’uomo” con il trasferimento di qualche gene si basa, infatti, su una visione errata della genetica. Una migliore utilizzazione delle informazioni e dei dati che sconfessano la sperimentazione animale avrebbe giovato a risparmiare vite e investimenti di assoluta inutilità per i cittadini. Gli animali utilizzati come cavie sono tenuti perennemente in gabbia, in uno stato di continuo terrore. Sono manipolati geneticamente in modo da farli nascere con più o meno menomazioni, sottoposti a iniezioni o a inalazioni di sostanze chimiche, fatti ammalare dei mali peggiori. Soffrono in continuazione e infine vengono uccisi. Ogni anno 12 milioni di animali vengono utilizzati nei laboratori di ricerca di tutta Europa non solo per la farmaceutica o la chimica ma anche per la cosmetica e persino per l'industria bellica. Solo nel nostro paese nel triennio 2007-2009 (dati pubblicati sulla G.U. n.53 del 3 marzo 2010 ai sensi del decreto legislativo 116/92) sono stati 2.603.671 gli animali uccisi per “fini sperimentali”, un numero ancora troppo alto, considerato sia il quadro scientifico e legislativo europeo che prevede la promozione dei metodi alternativi alla sperimentazione animale sia la netta contrarietà dell’opinione pubblica alla vivisezione, ma anche, purtroppo, fortemente sottostimato visto che non rientrano nelle statistiche invertebrati, embrioni, feti e animali utilizzati già soppressi. Le regioni italiane con il maggior numero di procedure autorizzate in deroga sono state il Lazio, l’Emilia Romagna, la Toscana, la Lombardia e il Veneto. Soltanto in Emilia Romagna sono stati eseguiti 60 esperimenti. In Lombardia risultano 136 stabilimenti autorizzati. In Italia sono, in tutto, 609 i laboratori che portano avanti la ricerca basata sulla sperimentazione sugli animali. I più tartassati continuano ad essere topi (1648314) e ratti (682925), seguiti da uccelli (97248), altri roditori e conigli (73362) e pesci (59881), tutti largamente impiegati a causa del loro basso costo e perché facilmente maneggiabili.In aumento anche il ricorso alle scimmie (sia ceboidea che cercopothecoidea) nonostante le restrizioni poste dal decreto legislativo in vigore. Primati non umani, come i cani, sono, poi, utilizzati per esperimenti invasivi, che comportano alti e prolungati livelli di dolore, riguardanti cancro e malattie nervose e mentali. Eppure non c’è bisogno di essere luminari della scienza per sapere che ogni specie animale è unica per caratteristiche bio-chimiche, morfologia e fisiologia, patrimonio genetico, reazioni a virus, batteri, sostanze. Pertanto non può esistere una specie che possa essere considerata modello sperimentale per un'altra. Gli “animali da laboratorio” spesso frutto di selezioni e manipolazioni genetiche, differiscono perfino dai loro simili in libertà. E anche le malattie indotte a fini sperimentali sono diverse dalle patologie che si manifestano naturalmente. Affermare, inoltre, come in malafede si vorrebbe far credere, che ci sia differenza tra vivisezione e ricerca di base volta alla scoperta di terapie per malattie ancora incurabili e gravemente invalidanti che affliggono la nostra società è falso e ignobile. La realtà è la stessa ed è tragica sia per gli animali non umani che per gli umani. Per dire no a questa vergogna e affermare una nuovo modello di ricerca è importante partecipare domani, domenica 28, alla manifestazione nazionale indetta a Roma da Animal Amnesty e dal Coordinamento antispecista. L’appuntamento è alle 14 in piazza della Repubblica.


“Benché più volte si sia dimostrato scientificamente che il modello animale non sia predittivo per gli umani – ha affermato Candida Nastrucci, biologo molecolare e biochimico clinico formatasi alla University of Oxford e docente all’Università di Tor Vergata – viene ancora usato e finanziato, mentre per la ricerca sulle alternative sostitutive i fondi in Italia sono inconsistenti, né la legge ne predispone. Negli USA sono stati di recente stanziati due miliardi di dollari per il progetto ToxCast che ricerca modelli cellulari più predittivi e rapidi nella valutazione delle proprietà tossicologiche sull’uomo, visto che i modelli animali attualmente in uso si sono rivelati inefficaci. Da noi, invece, i metodi di ricerca avanzati per sostituire l’uso di animali non vengono nemmeno insegnati nei corsi di laurea.”Il prossimo 10 dicembre, intanto, saranno processati i tredici militanti animalisti che il 28 aprile dello scorso anno, al termine della manifestazione nazionale svoltasi a Montichiari (BS) contro la vivisezione e il lager Green Hill, riuscirono a fare breccia nelle recinzioni liberando una trentina di cani beagle. Caduta per tutti l'accusa di resistenza a pubblico ufficiale, i tredici restano, a vario titolo, imputati di reati che vanno dalla rapina, al furto, al danneggiamento. Qualche mese dopo il gesto di disobbedienza attuato dagli attivisti animalisti, precisamente nel luglio del 2012, grazie a quell’azione e alle denunce di associazioni animaliste come la Lav, scattarono ispezioni e indagini da parte della magistratura per maltrattamento ed uccisione di animali commesse in quel vero e proprio lager dei nostri giorni (cinque ettari di terreno e quattro capannoni) di proprietà della multinazionale Marshall.

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