lunedì 8 aprile 2013

Anteprima del romanzo "Fascistelli". Come si diventa un camerata....



Quello che segue è il primo capitolo del romanzo Fascistelli di Stefano Angelucci Marino, attore, regista e direttore artistico della compagnia Teatro del Sangro. Il protagonista del romanzo, Vittorio Brasile, racconta la sua militanza missina nella provincia abruzzese nei primi anni Novanta. Racconta l’ultima generazione dei ragazzi di provincia che hanno militato nel Msi, cercando di farci rivivere i pensieri, le scelte, gli scontri, le contraddizioni, le speranze e le disillusioni di quei tanti giovani che hanno provato a sfidare il mondo facendo politica nell’unico posto dove all’epoca era proibito stazionare, a destra.


Passavo le giornate a rodermi l’anima, il fegato e la bile. L’anima poi mi moccicavavoce del verbo mordere in Abruzzo. Mi moccicava. In quel borgo noioso, popolato da noiosi esseri viventi io dovevo, dovevo trovare un modo per rendere la mia vita misteriosa, grande, oscura, unica, sfuggente, irripetibile! Cosa non avrei dato per una reputazione da bastardo, un eroe ribelle! Tutto il tempo ci pensavo, alla mia futura reputazione da ribelle, da carogna. Io non l’avevo, ma le grandi città ne erano piene, ragazzi maledetti, figli di puttana leggendari, ribelli e dannati che più ribelli e dannati era difficile anche solo immaginarli.
In realtà la questione era nell’aria già da diversi mesi. Adesso basta, dovevo decidere. Quella mattina, la mattina del trenta aprile 1993 io avevo sedici anni. Dio mio, sedici anni! La Storia non poteva più aspettare i miei tempi, la mia pigrizia non poteva rovinarmi l’esistenza in quel modo.
Lo schifo, tutto quello schifo, non lo sopportavo più. Tutto quello che mi circondava  mi faceva schifo. Mi facevano schifo i gusti della maggioranza dei miei coetanei. Quelli solo chiavate, macchina nuova, posto fisso, discoteche, i villaggi vacanze, lo struscio per il corso cittadino, la musica house tecno o come diavolo si chiama, la seratina al finto pub irlandese a bere finta birra irlandese per fare finta di ubriacarsi, la Sardegna d’estate, il Trentino d’inverno, a primavera “guarda le allergie m’ammazzano…” e l’autunno passato in armadio per il “cambio di stagione”. E poi gli altri invece, quelli solo Umberto Eco, il cinema impegnato, Cuba Fidel “…e lì però devi capire il contesto”, le salopettes, cartine e fumo e fumo e cartine, Bertolt Brecht, capelli unti, i poeti del Gruppo ‘63, sandali e pida zuzze, gli strutturalisti, Neruda, la neoavanguardia.
Che schifo.
Mi facevano ridere, mi lasciavano indifferente, mi annoiavano, mi suonavano falsi, li trovavo inguardabili, illeggibili, insignificanti, insomma i miei coetanei mi facevano schifo e a dirla tutta ma proprio tutta madonnamè come mi stavano sulle palle! Fuggivo la massa.
Sentivo di essere nato in un’epoca che non era la mia. I primi trenta anni del Novecento mi sembravano gli ultimi in cui ci fosse stato ancora posto per una vita davvero umana, dove agli uomini che valgono si aprivano ancora spazi immensi. Ero orfano di un mondo che non avevo vissuto, ma che conoscevo grazie ai film, ai fumetti, ai cartoni animati, ai libri e ai racconti dei miei nonni. Ero fiero, fiero di appartenere a un’Europa che non c’era più. In quelle ore somigliavo incredibilmente a Mister No.



Pigro, vizioso e contraddittorio. Me ne stavo in cucina, cinque e mezza del mattino, silenzio irreale, caffè e latte fumante nella tazza e occhi puntati a sfogliare il mio fumetto bonelliano preferito, Mister No; Jerome “Jerry” Drake, lo spiantato e scanzonato pilota statunitense. Tenente pilota reduce dalla seconda guerra mondiale e poco amante della disciplina, ex prigioniero di guerra, ha abbandonato la sua patria, disgustato dalla violenza e dalle imposizioni della società occidentale, per cercare il suo paradiso nella placida Manaus, cittadina brasiliana nel cuore dell'Amazzonia.
Onesto, sincero, amante dell'alcool e delle belle donne, pigro ma pronto a buttarsi nell'azione, è un ribelle per natura. Il suo miglior amico è Otto Kruger, detto Esseesse, ex soldato tedesco e ribelle in servizio permanente. Mister No non chiede di meglio che starsene per proprio conto a fumare e bere whisky o la più economica cachaca. Pigro, vizioso e contraddittorio, in quelle ore somigliavo paurosamente a Mister No.
Dovevo decidere, era giunto il momento di tirare le somme e decidere. Vivevo a Civitella, in provincia di Chieti, novenentocinquantadue anime, un piccolo paese della montagna d’Abruzzo incastrato nella roccia. Vittorio Brasile, mi dissi, ti decidi o no? Allora? Che aspetti? Datti una mossa?!? Jamà!!!
Civitella, e vienimi incontro tu! Paesello mio bello e inutile, pittoresco e vuoto, andiamo! Possibile Civitella che tutto quello che riesci a trasmettermi è pace, il blu del cielo, il silenzio, le casette del centro storico, profumo di sugo, genitori che chiedono ai figli impegno, sacrifici e buoni voti, salotti di casa dove transiti solo con le pattine, enciclopedie da salone tanto al metro, i “Classici dell’Universo” su uno scaffale, la “Storia illustrata della Seconda Guerra Mondiale” sull’altro, buoni sentimenti e santini di Padre Pio. Non ti permetterò certo Civitella di distruggermi!
Oh non mi ridurrò come Ivo mai più uscito dal trip del servizio militare di leva alimentato dal tuo essere, cara Civitella, il nulla assoluto! Ivo che si ficca dentro di tutto - eroina, valium, acidi, anfetamine, roipnol – facendosi nei piedi, sul collo, sul pisello, sulle mani, nelle gengive, ovunque senta un po’ di sanghe pulsare, povero Ivo che ha iniziato a farsi sotto la naja e a finito a strafarsi di ritorno a casa da te, Civitella ingrata. Ivo che mi racconta chiuso nel cesso del bar del paese di come stava di merda a Pordenone e io che dentro a quel cesso schifoso gli tiro il braccio e lui che non becca la vena, gli dico sbrigati sbrigati sbrigati e penso ardentemente che non mi ridurrò come Ivo, no, non te lo permetterò Civitella, non mi farai scoppiare così…
Certi giorni mi sedevo ai tavolini del bar in piazza e immaginavo la scena del mio arresto. Carabinieri, si avvicinano: “E’ lei Vittorio Brasile, lei ha fatto esplodere stanotte il ponte, il viadotto di Villa Santa Maria?”. Ed io, togliendo con calma il mio bicchiere di cachaca dalle labbra, che rispondo: “Sì ragazzi, l’ho fatto per la bellezza del nostro Paese, la bellezza trionfa sugli orrori del tardo capitalismo occidentale”.
Dio cosa non avrei pagato per far saltare il viadotto di Villa e finire in prima pagina sopra tutti i giornali del mondo! Passavo le giornate a rodermi anima, fegato e bile. Mio padre era morto già da tre anni. Era un muratore, silenzioso e rispettato da tutti. Un tumore, all’improvviso. Prima l’ha massacrato e poi se l’è portato via. Vivevo da tre anni solo con mia madre. Figlio unico. Avevo le orecchie leggermente a sventola, capelli a spazzola, ero alto già a quella età un metro e ottanta ed ero arciconvinto di essere, come dicevamo dalle mie parti, un tipo fregno, ossia un ragazzo oggettivamente bello ed indiscutibilmente affascinante. Tenebroso e affascinante.
Gesù Cristo mio, dissi, perché da sempre, esattamente come faceva mia madre, parlavo con il crocifisso appeso sopra il letto nella camera dei miei: Gesù, perché non mi decido e continuo a cacare dubbi in questo modo? Cosa mi manca Gesù per determinare una scelta definitiva sulla mia vita? Gesù, sei tu che mi ostacoli per farmi capire qualcosa? E Gesù, non è meglio dirmela questa benedetta cosa invece di torturarmi con dubbi, pensamenti e ripensamenti? Caro Gesù, mi tratti come l’ultimo mercante pezzente del tempio! Ma io merito da te un trattamento diverso. Merito un segno, una risposta. Dimmi, il tuo silenzio dovrebbe indicarmi qualcosa? E cosa? Mi prendi in giro Gesù? Deve essere una di quelle giornate dove tu Gesù mio non ti puoi sfogare con quei cazzoni guerrafondai degli yankee – chissà dove sono a fare danno e te la prendi con un povero cristo come me! Dammi un segno, cosa devo fare? Perché non mi decido?
Facevo la prima liceo classico a Chieti, il liceo “Gian Battista Vico”. Dalla mia Civitella un’ora di autobus e tante curve per andare, e un’altra ora di autobus e le stesse maledette curve da rifare al contrario per tornare a casa. Il liceo “G.B. Vico” di Chieti: la culla del sapere della nostra povera e arretrata provincia, l’istituzione scolastica per eccellenza, la scuola che ha preparato, sfornato e consegnato al mondo cervelli del calibro di D'Annunzio, Scarfoglio, Spirito, Pomilio, Ortiz, Chiarini e Paratore. Santa Madonna! Non era un liceo il mio, era un cervellificio!
La mattina del trenta aprile 1993 sull’autobus, andando verso Chieti, mi torturavol’anima, come sempre in quel periodo. Pensa e ripensa, pensa e ripensa, pensa e ripensa. Adesso basta però, dovevo decidere.
La mia scelta era molto delicata, delicatissima direi, perché il mondo, da tempo, stava cambiando. Nel 1989 era crollato il Muro di Berlino, a seguire erano caduti come birilli tutti i regimi comunisti dell’Est legati alla ex Unione Sovietica. In Italia dal 1992 si respirava un’aria nuova, un’aria strana. I giudici Falcone e Borsellino erano morti ammazzati, saltati in aria per mano di Cosa Nostra. Tangentopoli con gli arresti e i processi stava rivoticando il Paese, democristiani, socialisti e compagnia bella prendevano schiaffi dappertutto e a fatica restavano in piedi. L’aria era tesa. La sera prima di quel trenta aprile la Camera dei Deputati aveva negato l’autorizzazione a procedere contro Bettino Craxi, era scoppiato un casino niente male: proteste dappertutto, le monetine lanciate sotto l’hotel Raphael contro Craxi, cori, sputi, strilli. Un bel casino, non c’è che dire.
Dovevo decidermi e l’Occidente con le sue regole, le sue leggi e la sua deriva, mi stava stretto! troppo stretto! Più guardavo le cose, più mi saliva una rabbia, mi saliva il sangue al cervello! In tv era l’apoteosi del modello americano applicato alla nostra tv commerciale e di stato: Karaoke, Colpo Grosso, Quiz per deficienti, Telefilm allucinanti, pallone in tutte le salse, processo del lunedì, appello del martedì, mercoledì di coppa…tutto era ingiusto, banale, borghese, tutto! L’universo-mondo era un cesso a cielo aperto pieno di affaristi, di nani, di ballerine, tutto era basso interesse, viltà, egoismo. Bisognava rispondere! Bisognava rispondere a quell’ondata di merda con un grande scatto, una grande ed eroica militanza. Perchè? Perché come diceva Capitan Harlock - il protagonista del più grande cartone animato del globo terracqueo, come si cantava nella sigla:
“un pirata tutto nero
che per casa ha solo il ciel
ha cambiato in astronave il suo velier, urrà!
il suo teschio è una bandiera che vuol dire libertà,
vola all'arrembaggio però un cuore grande ha!
Capitan Harlock! Capitan Harlock!”…
- laggiù sulla Terra sbocciano i fiori, perchè la Terra è profumata, perchè la sua natura è la cosa più bella di tutto l'universo e perchè gli uomini un giorno capiranno che il vero paradiso è quello. Bisognava rispondere.



Si,ma con chi?
In Abruzzo eravamo circondati, erano tutti democristiani o comunisti, a tutti i livelli. Democristiani (la maggioranza) e comunisti (una seria e consistente minoranza): in banca, negli uffici, alle Poste, in Ospedale, tra i professori, all’Enel, nei consorzi e pure in chiesa, democristiani e catto-comunisti. Circondati. Tutti prima o poi dalle mie parti erano invitati ad accomodarsi nel salotto democristiano o in quello comunista. Cambiavano mobili, tipi di poltrone, illuminazione, cioccolatini, argomenti di conversazione, carta da parati, vestiti delle signore…ma sempre di confortevoli e legittimati salotti si trattava.
Dovevo decidere! Sia chiaro, certe idee a sedici anni le avevo già stampate nella testa e nel cuore. Uno, sopra ogni cosa credevo in Dio e in Nostro Signore Gesù Cristo. E Cristo è così nella vita delle persone, o ci credi o non ci credi, senza cazzi, lazzi e mazzi. Quindi uno, credevo in Dio e nel Cristo-Dio.
Subito dopo Cristo, tra le cose terrene, credevo anche in Capitan Harlock, Gabriele D’Annunzio, Mister No, Kierkegaard, Camus, Asterix, Ionesco, Silver Surfer, Bukowski, Eliot, Guerre stellari, Dostoevskij, nei film di Franco e Ciccio, in Alessandro Manzoni, le Sturmtruppen, nel Camogli e Coca Cola in Autogrill, poi anche in Carlo Emilio Gadda, Francesco Totti e Ruggiero Rizzitelli, Solzenicyn, Sant’Agostino, Willy il Coyote, Pascal, nelle pallotte cacio e ovo di mia madre, poi ancora in Giovanni Paolo II, Philph Dick, Franco Battiato, Battisti, De Andrè, l’Excalibur di Boorman e i film di Sergio Leone, Blade Runner, la Magica Roma, negli azzurri della Nazionale, Alan Ford, Goldrake, Conan il ragazzo del Futuro, Mazinga, Devil, il Mitico Thor, L’Uomo Ragno, i Police, Alanis Morissette, i Cranberries, Hugo Pratt e Max Bunker.
Due, amavo il mio Paese, l’Italia, che era ed è un grande Paese.
Tre, mi faceva schifo una certa America con la sua sottocultura di riferimento, tutta fare le cose della vita per sport, in modo infantile e falsamente competitivo; l’amore per sport, i soldi per sport, le guerre per sport, i patrioti per sport. Puah! Che schifo! Vittorio Brasile, mi dissi in quelle ore,che fai? Con chi decidi di spendere la tua gloriosa giovinezza in Europa? Con i democristiani? Con i comunisti? Oppure vuoi fare l’anarchico?
Un giorno, per scherzare, posi la questione al mio professore di matematica. Il Professor Urbisci aveva una cinquantina d’anni all’epoca, sempre col sorrisetto sulle labbra, pochi capelli riga al lato e riporto d’ordinanza, amava vestirsi giacca e cravatta ma “spezzato”, che nel suo linguaggio significava pantaloni blu, cravatta a pallini bianca e nera e giacca color panna. Un democristiano di sinistra, uno di quelli per capirci che, insegnando, avendo studiato qualcosa nella vita e volendo pure lui contare nel piccolo mondo culturale della Chieti bene, si vergognava come un ladro a fare “solo” il democristiano, e rivendicava, per non essere emarginato in città dai suoi colleghi professori di sinistra, un’appartenenza alla DC come lui la definiva “problematica e sensibile alle istanze della giustizia sociale”, tradotto sono un diccì ma faccio pure un po’ il picccì, così frequento più salotti, rido, scherzo parlo e non mi annoio. ”Che faccio prufessò?”, e il Professor Urbisci, con il suo solito argomentare col sorrisetto e quella mania di ripetere il nome di chi gli stava davanti duecento volte almeno, mi disse: “Vittorio, devi solo capire cosa ti rappresenta di più Vittorio, qui a scuola c’è Comunione e Liberazione, i giovani democristiani per capirci e ci sono i giovani comunisti Vittorio bello, quelli della Sinistra Giovanile. Puoi essere tutto quello che vuoi Vittorio, hai diritto di essere tutto quello che vuoi, e che diamine! Puoi essere tutto Vittorio, tutto. Tutto tranne una cosa amico mio, tutto puoi essere, ma non hai il diritto di essere fascista. Lì no Vittorio! Quille no Vittorio mio, quelli no!”.
Quelli no.
E si ringalluzziva tutto Urbisci, come nominava fascisti, fascisteria e fascistume il nostro professore diventava duro, forte, determinato, cattivo, con lo sguardo spiritato e la schiena dritta… lui, che abitualmente era la merda moderata biancofiore per antonomasia. Urbisci, diccì di sinistra, e attento e ponderato e il buon senso e come il buon padre di famiglia e i compromessi necessari della vita ragazzi miei e la ragione che deve sempre prevalere sugli istinti e l’equilibrio di qua e l’equilibrio di là... ma “antifascista” tutto d’un pezzo, e quello, l’antifascista che milita, lo era in maniera convinta, dura, forte, determinata e pure cattiva, con la voglia vera di piazzare calci veri nelle palle del primo “pericoloso” ragazzino che gira per Chieti con un bomber  nero, con i capelli rasati a zero, col braccio teso che grida Sieg Heil…
Diceva Flaiano che in Italia i fascisti si dividono in due categorie, i fascisti e gli antifascisti. Come dargli torto. In nome di un irrinunciabile “antifascismo militante” centinaia di comunisti e democristiani nel nostro disgraziato Paese hanno fatto politica dal ’46 in poi parlando lo stesso linguaggio demagogico del fascismo, costruendo ciò che in Italia il fascismo, con più violenza e meno metodo, aveva già più o meno costruito e praticando la “legittima” violenza antifascista contro quei quattro gatti disadattati dei seguaci del Duce. Mentre il fascismo fu al potere, l'antifascismo fu una lotta per la libertà politica. Dopo la fine del fascismo, l'antifascismo fu una discriminazione politica contro gli italiani che si riconoscevano nel MSI, il Movimento Sociale Italiano. La questione non mi ha mai appassionato, bisogna però ammettere che l'antifascismo del dopoguerra è stato ed è la menzogna comunista per vincolare a sé i democratici cristiani. L'anticomunismo è stato ed è per la cultura italiana una sciocchezza, l'antifascismo una nobiltà legittimante. Questo è purtroppo il trionfo della menzogna comunista che rimane ancora fortissima. Quelli no, va bene tutto ma fascisti no.
Nel nostro Liceo a Chieti effettivamente c’erano un centinaio di ciellini, i giovani DC di Comunione e Liberazione ; nascosti, non militavano, erano tali senza clamore, casa e chiesa, dove li mettevi stavano, non sporcavano, ordinati, della loro esistenza ti accorgevi solo alle elezioni dei rappresentanti d’istituto, vincevano sempre. La giovane maggioranza silenziosa. Golfini per i maschietti e per le femminucce, tutti ben pettinati, un look grigio-blu-verdone a livello cromatico, sorrisi evangelici, genitori addosso con quei tristissimi “la vita non è come pensate” “fatevi gli affari vostri mi raccomando” “non vi fate prendere di mira”, e poi studio e studio e studio e tanto timor di Dio. Difficile trovare gente più pallosa. Poi c’erano una ventina di giovani comunisti militanti. Kefiah d’ordinanza (quasi tutti),capelli lunghi (non tutti), cappottino old style (non tutti), orecchini dappertutto (tutti). I giovani compagni chietini innanzitutto nella vita erano impegnati a fare autocritica. Va bene Marx, Engels, Gramsci, Deleuze, Eco, Berlinguer, D’Alema va bene tutto insomma ma prima c’era l’autocritica. Non parlavano d’altro, a sentir loro non facevano altro; “facciamo autocritica” “faccio autocritica” “su questo dobbiamo fare autocritica” “hai fatto autocritica?” “una sana autocritica” “la necessaria autocritica” “l’inevitabile autocritica”. L’autocritica, che compagno sei se non ti autocritichi? Si autocriticavano su tutto: comportamenti, abitudini, scelte di politica locale, la politica internazionale, rapporti familiari, rapporti con l’altro sesso e con il sesso d’appartenenza, l’ambizione sana e quella malata, il gelato magnum al cioccolato bianco e quello tradizionale. I migliori erano quelli che riuscivano ad autocriticarsi più degli altri e su più aspetti dell’esistenza. E ai migliori gli leggevi in faccia la goduria assoluta, il piacere supremo della pippa mentale, tornare a casa e urlarsi addosso piangendo siii!!! godooo!!! come mi autocritico io, ma lo vedi come soffro! Ore, ore e ore di autocritica spietata sui bambini in Africa e il mio menefreghismo reazionario, l’acqua bene primario per tutti e la mia sostanziale indifferenza, la redistribuzione del reddito su scala mondiale e la mia stupida apprensione per la paghetta settimanale che mamma mi versa sempre in ritardo diooo!!! è inarrivabile il livello della mia autocritica, trovo colpe che mi riguardano a un livello di profondità tale che gli altri possono stare lì settimane a cercare siii!!!
Erano una tribù. Una tribù che continuava a contare parecchio nonostante la caduta del comunismo su scala mondiale. Dettavano legge, imponevano stili, slang, avevano editori, giornali, riviste, la maggioranza dei professori, finanziamenti. Una tribù potente e organizzata. Infine, effettivamente, se cercavi bene c’erano pure loro, gli innominabili. Due. I Fascisti. Due di numero, due ragazzi col bomber nero, capelli corti, jeans, anfibi ai piedi; Mimmo, biondino con una cicatrice sul collo e Francesco, bruno e spilungone. Era la mattina del trenta aprile 1993. Basta, mi dovevo decidere! Davanti scuola, portone ancora chiuso. Motorini parcheggiati dappertutto. Da un lato una decina di giovanissimi compagni tutti sorridenti, aria tesa, battute a prendere per il culo e veleno negli occhi, nelle parole, a pelle. Dall’altra parte attaccati a un motorino modello “Sì” Piaggio di colore rosso Mimmo e Francesco, i due giovani fascisti, stessa aria tesa, battute a prendere per il culo pure lì e stesso veleno negli occhi, nelle parole, a pelle. Si avvicina dal gruppo dei compagni uno di Terza liceo con la kefiah –Marco, che conoscevo – e comincia a provocare Mimmo in maniera pesante, molto pesante: ”A Mimmo?!? Ci riuscite quest’anno a fare almeno lu 3 per cento?!? Voi non siete da combattere, voi siete da studiare, siete fossili, reperti archeologici, li fasciste, guarda che spettacolo penoso… per trovarvi dobbiamo fare una capatina al Museo delle Scienze Naturali…”. Mimmo e Francesco si staccano dal muro e cominciano a questionare di brutto col tipo, arrivano gli altri otto – nove compagni e tutti là cominciano ad accusarsi di tutto; stragi, mafia, regimi, eccidi, massimi sistemi, chi ha spaccato la serranda al condominio in piazza Valignani, mi stai sul cazzo combà, sei un verme e tu un borghese e tu vaffangulo e tu vattene e smettila cacatore smettila cacatore ho detto smettila, smettila. Dieci contro due. C’è un’aria di schiaffi, calci e spintoni, un’aria di veleno pesante, ma nessuno ancora alza le mani. M’avvicino tra loro e di scatto a bruciapelo quello di Terza liceo con la kefiah-quello che conoscevo, Marco- ferma tutti e mi urla: ”Vittorio Brasile, montanaro! e tu? Che fai? Si po’ sapè cosa vuoi fare da grande? Con chi stai? Con noi o con loro?”. Bam! Colpito!
Effettivamente, a pensarci bene, l’opzione Vittorio Brasile “fascistello” contro tutti e tutto non l’avevo mai valutata attentamente e fino in fondo. In quegli attimi concitati iniziai piano piano a pensare e desiderare ardentemente la cosa. Vittorio Brasile, il ragazzo di Civitella tenebroso e affascinante, quel bastardo che farà saltare in aria il viadotto di Villa Santa Maria, ha un cuore nero, e tanta gente lo vorrebbe al cimitero, ma lui ha un cuore nero e se ne frega e sputa in faccia al mondo intero. Dio Santo! L’ipotesi “fascio tra i fasci” mi iniziava a fare un sangue pazzesco! Quella mattina iniziavo a sentirmi come Capitan Harlock quando Raflesia gli urla: "Harlock! La Terra appartiene al mio popolo. Stiamo ritornando nella nostra patria, non hai il diritto di fermarci! Ti illudi di potercelo impedire con la forza, usando i tuoi sistemi da pirata?".
E Capitan Harlock, il mio Capitan Harlock – in coro con la sigla cantavamo:
“fammi provare capitano un’avventura
dove io sono l'eroe che combatte accanto a te,
fammi volare capitano senza una meta,
tra i pianeti sconosciuti per rubare a chi ha di piu'
Capitan Harlock! Capitan Harlock!”…
– risponde: "Io sono un pirata, ma non come intendi tu. Io non uso la forza per offendere, ma per difendere! Per quanto malvagi siano gli uomini sulla Terra, io li proteggerò, anche a rischio della mia vita." Gesù mio! Harlock m’infiammi! Mi fai sangue, mi fai sangue, m’infiammi!
”Vittorio Brasile! In montagna ci usate a rispondere alle domande o no? Con chi stai? Con noi o con loro?”. Il compagno Marco pretendeva una risposta da me ed io ero bloccato, sognante, perso. Fantasticavo ad occhi aperti su Capitan Harlock e il mio cuore nero. Un fascista, io! Dei fascisti sapevo poco e niente, ma quel poco e niente che pensavo di sapere mi calzava a pennello e faceva di me un uomo davvero unico, irrimediabilmente attraente e maledettamente ribelle. Dei fascisti sapevo confusamente cinque cose: amavano la Patria, Dio, la Famiglia e Mussolini. E queste erano le prime quattro. La quinta - oh la quinta!- esercitava un fascino indiscutibile e potentissimo sulla mia psiche. Loro, i fascisti, vivevano nelle fogne. Come i topi. Casa nella fogna, sezione di partito nella fogna, riunioni nella fogna, vita sociale tra di loro, manco a dirlo, nella fogna. “FASCISTI CAROGNE TORNATE NELLE FOGNE”, questo slogan era scritto sui muri e cantato ovunque. La fogna era il Paese dove stabilmente passava la sua esistenza il neofascista italiano, un po’ per scelta ma soprattutto perché nelle patrie fogne era stato ricacciato in quanto disprezzato, emarginato e quindi ghettizzato dal resto della civile popolazione. Fascisti uguale reietti, appestati, picchiatori, ignoranti, carogne, merde, ciarlatani, malati. Che meraviglia! Stavo per diventare il lupo solitario di Civitella, l’enigmatico e sfuggente ragazzo nero del Liceo “Gian Battista Vico” di Chieti, il futuro sabotatore di estrema destra del viadotto di Villa Santa Maria. Alla larga! Alla larga da Vittorio Brasile! E’ uno spostato e perverso e violento e stronzo e animale e isolato e cane sciolto e ricchione e macellaio, insomma già sentivo il mondo schifarmi chiamandomi con beffardo disprezzo “Vittorio lu fasciste”.
”Brasile! Montanaro di merda! Romanista bastardo infame… con noi o con loro?”. Il rosso Marco stava perdendo la pazienza, pretendeva una risposta ed io continuavo ad essere imbambolato, perso con lo sguardo verso i miei film mentali. Dovevo decidere. Eccolo, era arrivato il momento. Noi o loro, noi o loro, con noi o con loro. Raggiungo Mimmo e Francesco. Adesso eravamo tre. Tre contro tutti. Urliamo a squarciagola all’indirizzo dei compagni: ”w l’Italia! w l’Italia !w la Libertà!!!!
Era fatta. Oramai ero un camerata.

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