Federico
Magi
Era il 1970 quando arrivò, per la prima volta nelle sale, quello che forse ancora oggi, e a giusta ragione, può essere definito il film politico italiano per eccellenza. Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, Premio Oscar nel 1971 come miglior film straniero, è l’innesco alla così detta “trilogia sul potere”, trittico di lungometraggi ad alto tasso d’impegno civile e di critica sociale che ha reso celebre il regista e sceneggiatore romano Elio Petri. Restaurato per l’occasione, è stato riproposto al pubblico proprio in questi giorni d’aprile, quasi a voler ricordare che all’odierno tempo di stallo politico e istituzionale ne fa da contraltare un altro, nemmeno troppo lontano, in cui i poteri dello Stato erano molto più dinamici e operativi, molto più decisionisti e interventisti, e che la politica contava eccome, almeno in apparenza: costituiva ancora il volto misterioso e imperturbabile di un potere economico e finanziario che oggi domina incontrastato la scena senza bisogno delle maschere istituzionali del passato.
Eh sì, perché per quanto fosse perverso e figlio più o meno legittimo della contrapposizione tra i “due blocchi”, quel potere politico e istituzionale stigmatizzato da Petri già dagli albori del suo cinema, sia pur in maniera più sfumata rispetto alle pellicole dei Settanta, era sicuramente meno impacciato dell’odierno, mi sembra evidente. Ma questa è solo una riflessione a margine, perché entrando nei meandri dell’indagine di Petri su cittadini che avrebbero dovuto (e dovrebbero sempre) essere al di sopra di ogni sospetto, si scopre che non solo “c’era del marcio in Danimarca”, ma che quel marcio per certi versi è iscritto nel dna di un popolo (o “dei” popoli democratici?) che sulle parole d’ordine della buona convivenza civile (uguaglianza, giustizia sociale, diritti umani etc.) ha costruito l’inganno democratico sul quale, nel dopoguerra, è stato edificato il sistema di potere e di relazioni del nostro Bel Paese.
La vicenda del film, per chi non la conosce, è la seguente: un ispettore della omicidi, alla vigilia della sua nomina alla fantomatica carica di “Capo dell’Ufficio Politico”, uccide, sgozzandola, l’amante con cui aveva rapporti “sadomaso”, perché ritenutosi da lei tradito con uno studente del palazzo. Ma quello che sembra essere un delitto passionale è invece un gioco perverso e il principio di una sorta di delirio, tutto personale, che interroga l’alto rappresentante dello Stato sulla funzione e sull’utilizzo del potere costituito. Convinto di dimostrare che il potere che rappresenta lo pone al di sopra di ogni sospetto, l’uomo dissemina volutamente d’indizi sulla sua colpevolezza la scena del crimine. Resosi conto che ciò è ampiamente insufficiente a farlo sospettare; perché egli stesso, a capo dell’indagine, incute terrore ai suoi sottoposti, decide di mettere in mano prove a cittadini comuni invitandoli a denunciarlo. Nulla sarà sufficiente a far aprire un indagine su di sé, e allora prova a confessare l’omicidio. Ma la risposta del Potere, a tutela di sé stesso e del meccanismo che lo perpetua, sarà diversa da quella che la ragione vorrebbe fosse e che egli stesso immagina. Qualcuno all’epoca fece delle analogie tra la figura interpretata da Volonté e personaggi come il commissario Calabresi o altri poliziotti dell’epoca (senza ovviamente immaginare la tragica vicenda e le strumentalizzazioni che coinvolgeranno anche la fine del commissario milanese), lasciando trasparire una critica a quella cortina fumogena che (solo all’epoca?) impediva di indagare (e di arrivare alle condanne) sugli esponenti delle forze dell’ordine.
Comunque, della trilogia sul potere Indagine è certamente il film più riuscito, il più emblematico e rappresentativo non solo del cinema di Petri, ma anche di una breve ma intensa stagione cinematografica (dal 1969 al 1976) d’impegno civile e politico che ha scelto sovente la via del grottesco e dell’allegoria (non solo Petri, ma soprattutto Marco Ferreri) per denunciare contraddizioni e malefatte di una classe dirigente e delle sue istituzioni politiche, sociali ed economiche, ma anche e soprattutto culturali. Indagine è un film che respira ancora forte, nella descrizione del contesto a margine, gli echi del ’68, e non potrebbe essere diversamente. Petri però, pur da progressista, come dimostrò anche e soprattutto nel successivo La classe operaia va in paradiso, non indugia tanto nella celebrazione dei simboli e degli archetipi del marxismo ideologico e filosofico, quanto invece è attento all’analisi delle dinamiche di relazione tra Stato e cittadini, tra poteri rappresentativi che dovrebbero tutelarci (nel caso di Classe operaia, la critica è ai sindacati, ad esempio) e la carne viva di un popolo: i lavoratori. Per quanto anche in Indagine, e poi soprattutto nel meno riuscito e forse più ambizioso Todo Modo, manicheismo e un certo massimalismo ideologico traspaiono inevitabilmente nella scansione grottesca e a tratti ai limiti del reale degli eventi, e per quanto le maschere del Potere siano progressivamente sempre più caricaturali, il regista romano dimostra di saper tenere pienamente in mano il filo delle cose piegando la narrazione al simbolo, alla metafora, all’allegoria per rendere più palese ed esplicito un messaggio che, così facendo, non potrebbe essere più urgente e immediato oltre ché leggibile per tutti.
A
differenza di Ferreri, per cui il paradosso è funzionale e imprescindibile per
la narrazione e il visivo grottesco un’estetica irrinunciabile, per Petri non
sono altro che mezzi per raggiungere il fine ultimo: l’arte come forma di
denuncia e alfabetizzazione politica di massa. Se ciò riesce pienamente in Indagine, in Todo Modo, quella che chi vi parla ha sempre considerato come atto
ultimo di una tetralogia, più che un film a sé stante, il meccanismo è per
certi versi il medesimo ma portato però all’esasperazione, sia narrativa che
visiva. Se in Indagine Volontè regala
un’interpretazione da ricordare ed è la perfetta e diabolica incarnazione
dell’ideal tipo petriano, lo stesso Volonté (alias Aldo Moro?) del film tratto
da Sciascia è una caricatura fin troppo caricata, se mi scusate il gioco di
parole, e “il prete” Mastroianni, solitamente inappuntabile anche quando sopra
le righe, è assolutamente fuori registro o comunque lontano dal restituire
quell’ambiguità che il corrispettivo sciasciano infondeva pagina dopo pagina. Le
stessa colona sonora del grande Ennio Morricone, indimenticabile in Indagine, è assolutamente trascurabile
in Todo Modo. Indagine e Todo modo,
sono agli opposti, dal punto di vista della resa cinematografica, nella
tetralogia di Petri, ma restano ambedue fondamentali tasselli di un percorso
che attraverso quattro film mette alla berlina con ferocia, e con evidenti
punte d’indignazione, il potere del tempo. E qui c’è l’inevitabile riflessione
sull’arte cinematografica odierna, davvero lontana dal sapere indagare,
criticare, stigmatizzare il potere odierno con la puntualità, la genialità e
l’ispirazione del tempo che fu. Ciò, ad onor del vero, non solo per un palese
deficit di talento autoriale rispetto a quella generazione di artisti, ma anche
perché, come detto, il potere di oggi è più mimetico e immateriale, e i nostri
rappresentanti in Parlamento, per quanto comunque privilegiati rispetto ai
comuni cittadini, non sembrano aver più avere la “verve malefica” e la
sottigliezza luciferina biancoscudata del tempo andato, né tanto meno la stessa
capacità-possibilità di incidere sulle scelte lobbistiche di chi lo esercita
veramente, questo potere; ahi me non più così definito e individuale come
quello che nell’Italia del compromesso storico poteva avere un qualunque
funzionare pubblico, un qualsiasi cittadino che riusciva a essere e apparire,
per il ruolo sociale che gli consegnava lo Stato, al di sopra di ogni possibile
sospetto.
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